lunedì 13 maggio 2024

Nel Pil italiano c'è sempre più bellezza

Nel 2023 il valore dell’economia della bellezza si è notevolmente sviluppato (+19% rispetto al 2022) e lo ha fatto in misura maggiore rispetto al resto del sistema produttivo italiano. Questo dato è contenuto nell’edizione 2024 del rapporto “Economia della bellezza”, realizzato dal centro studi di Banca Ifis.

Il valore complessivo di tale comparto dell’economia italiana era pari, nel 2023, a 595 miliardi di euro.

Ma cosa si intende per “economia della bellezza”?

E’ un settore del made in Italy, che spazia dal manifatturiero al turismo culturale e paesaggistico, dal patrimonio storico-artistico all’artigianato.

E il suo contributo sul Pil italiano era nel 2023 addirittura pari al 29,2%.

Ciò dimostra la sua notevole importanza per il nostro Paese.

La sua crescita quindi è stata intensa, in particolare, nei comparti chiave della “bellezza”: nel turismo culturale e paesaggistico, così come nel settore delle imprese design-driven.

Il suo peso sul Pil italiano è aumentato, rispetto al 2022, di ben 3 punti percentuali, raggiungendo appunto nel 2023 il 29,2%.

Pertanto l’economia della bellezza può essere considerata il motore dell’intera economia italiana.

Il comparto della bellezza ha contribuito in modo importante alla crescita dell’intero Sistema Italia, così come, dopo il biennio pandemico, aveva contribuito alla sua ripresa.

L’incremento del valore prodotto rispetto al 2022 (+96 miliardi di euro) ha determinato il 74% della crescita (a prezzi correnti) dell’intera economia italiana ed è stato generato dai settori “pilastro” dell’economia della bellezza, come evidenzia l’analisi del contributo allo sviluppo: per il 91% dalle imprese design-driven, per il 20% dal turismo culturale e naturalistico, incrementi parzialmente compensati dalla decrescita del valore delle imprese purpose-driven (-11%), fortemente influenzate dall’aumento dei costi di produzione nel settore dei servizi.

Altri dati confermano la notevole importanza del settore in questione.

Le imprese artigiane contribuiscono ancora, nonostante la riduzione del loro numero, al 54% del fatturato dell’intero settore manifatturiero italiano, con circa 88 miliardi di ricavi annui nel 2023.

Il turismo culturale e paesaggistico ha segnato nel 2023 un incremento di valore aggiunto di 19 miliardi di euro.

Un ruolo notevole è stato svolto dalla moda, che nel solo mese di ottobre ha beneficiato di ben 13,5 milioni di accessi unici nei suoi siti di fashion e e-commerce e dal comparto della cosmetica, che nonostante i rincari delle materie prime provocati dall’inflazione, ha visto una crescita delle vendite specialmente grazie all’export (pari a quasi il 50% del fatturato), con riflessi positivi anche a livello occupazionale, come testimoniato dai 155.000 lavoratori dell’intera filiera.

domenica 5 maggio 2024

Oltre l'80% dell'Irpef viene pagata da lavoratori dipendenti e pensionati

L’83,1% dell’Irpef dichiarata dai contribuenti italiani nel 2022 proviene da lavoratori dipendenti e pensionati. Questi e altri dati, relativi alle dichiarazioni 2023 (anno d’imposta 2022), sono stati resi pubblici dal dipartimento delle Finanze.

Le caratteristiche, negative, delle dichiarazioni Irpef 2023, gli evidenti squilibri che da esse emergono, non rappresentano una novità. Rappresentano una conferma di quanto si è verificato negli anni precedenti.

Il principale squilibrio è quello relativo all’eccessivo peso assunto dalle dichiarazioni di lavoratori dipendenti e pensionati.

Nella nota del dipartimento delle Finanze si rileva “Le tipologie di reddito maggiormente dichiarate, sia in termini di frequenza sia di ammontare, sono quelle relative al lavoro dipendente (53,5% del reddito complessivo e 55,4% del totale contribuenti) e alle pensioni (29,6% del reddito complessivo e 34,6% del totale contribuenti)”.

Questa è la più importante iniquità connessa al pagamento dell’Irpef, in Italia.

Rappresenta l’ulteriore dimostrazione della notevole evasione fiscale che contraddistingue il nostro Paese, poiché l’Irpef viene prevalentemente pagata dai contribuenti con ritenuta alla fonte.

Altri squilibri emergono dai dati relativi alle dichiarazioni 2023.

Il 63% dell’imposta netta totale è dichiarata dai contribuenti con redditi superiori a 35.000 euro.

E cioè quasi due terzi dell’imposta è a carico di una piccola minoranza, il 20% degli italiani. Invece i contribuenti con redditi fino a 35.000 euro (l’80% del totale) dichiarano il 37% dell’imposta netta complessiva.

Inoltre, vi sono 12,5 milioni di soggetti che, di fatto, non versano alcun tipo di imposta.

Un numero che somma i contribuenti nelle soglie di esenzione, quelli per cui l’imposta lorda si azzera per effetto delle detrazioni e quelli per i quali l’imposta netta è interamente compensata dal cosiddetto trattamento integrativo, in sostanza l’ex bonus 80 euro.

Tali squilibri potranno essere eliminati, o almeno ridotti, solo se verrà approvata una riforma complessiva dell’imposizione sui redditi.

L’attuale governo, per la verità, non sembra che possa o voglia attuare una riforma di questa natura, che sia contraddistinta anche da una vera lotta all’evasione fiscale.

domenica 28 aprile 2024

In Italia si continua a non spendere i fondi europei

 

Non è certo una novità. Infatti è da tempo che in Italia non si riesce a spendere completamente i fondi che vengono concessi dall’Unione europea. Sorprende comunque il fatto che non si sono registrati negli ultimi anni miglioramenti significativi. E ciò preoccupa soprattutto perché i cospicui fondi del Pnrr  dovranno essere spesi tutti entro il 2026.

I fondi europei a cui faccio riferimento, rilevando i ritardi nel loro utilizzo, sono quelli inerenti il Fesr, fondo di sviluppo regionale, e Il Fse plus, il fondo sociale plus.

Il periodo relativo all’utilizzo di questi due fondi è il 2021-2027.

In base ai dati forniti dal dipartimento per le politiche di coesione, dpcoe, dipartimento del governo italiano, allegati al documento di economia e finanza consegnato recentemente al Parlamento, al 31 dicembre del 2023 risultavano attivati progetti per 4,8 miliardi di euro, meno del 6,5% degli oltre 74 miliardi a disposizione dell’Italia, dei due fondi europei prima citati.

E non finisce qui.

Infatti il dato più preoccupante è un altro e riguarda la spesa effettiva, e cioè quanto di quei 4,8 miliardi è stato fino ad ora pagato realmente, solamente 535 milioni, lo 0,7%.

E tutto quanto è stato effettivamente speso è relativo alle Regioni. Infatti i Ministeri non hanno ancora speso nulla. Per la verità tra le Regioni sono riuscite a spendere qualcosa solo le più sviluppate, quindi nessuna di quelle meridionali, e non tutte.

In pratica si è arrivati al quarto anno di programmazione e resta ancora da spendere il 99% delle risorse finanziarie assegnate al nostro Paese.

Una situazione incredibile e davvero preoccupante.

E’ fisiologico che nella prima parte del periodo la spesa sia bassa, ma non così bassa. Infatti considerando la precedente programmazione, 2014-2020, a fine 2016, furono attivati progetti per 13,5 miliardi, pari al 26,1% dei 51,7 miliardi complessivi allora assegnati, una percentuale decisamente superiore.

Pertanto invece di migliorare la situazione è peggiorata.

C’è quindi il rischio concreto che si perdano, a fine periodo, una parte consistente dei fondi assegnati.

Occorre accelerare considerevolmente le procedure di spesa. Spero che le amministrazioni interessate si attivino e che la Presidenza del Consiglio stimoli le amministrazioni in forte ritardo.

Come già rilevato all’inizio, quanto sta ancora avvenendo per l’utilizzo dei fondi europei, che si possono definire tradizionali, desta un ragionevole allarme per le cospicue risorse finanziarie a disposizione del nostro Paese, in attuazione del Pnrr.

Se avvenisse infatti che anche una parte dei fondi del Pnrr non venissero spesi entro il 2026, oltre al danno reputazionale che subirebbe il nostro Paese, si ridurrebbe il contributo alla crescita del Pil che si attende da quei fondi e il Pil stesso aumenterebbe meno del previsto, con le ovvie conseguenze negative che ne deriverebbero.

domenica 21 aprile 2024

In forte crescita le esportazioni di armi italiane

 

L’industria delle armi è storicamente molto fiorente in Italia. I dati contenuti nella relazione annuale del governo al Parlamento sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali d’armamento lo confermano ampiamente.

Infatti le esportazioni di armi italiane, nel 2023, hanno raggiunto i 6 miliardi 312 milioni di euro, un miliardo e 23 milioni in più rispetto all’ anno precedente (+19,3%).

Destinatari di queste importazioni ben 83 Paesi.

Anche nel 2022, peraltro, le esportazioni di armi erano aumentate, rispetto al 2022, del 13,5%.

Piuttosto consistenti le esportazioni all’Ucraìna pari, nel 2023, a 417,3 milioni, rispetto ai 3,8 milioni del 2022.

Ma nel 2023, il primo Paese destinatario delle esportazioni di armi italiane è stata la Francia, con 465,4 milioni. Al secondo posto appunto l’Ucraìna e al terzo gli Stati Uniti, con 390,3 milioni, al quarto l’Arabia Saudita con 363,1, un Paese quest’ultimo che non rispetta molto i diritti umani (ma che importa se si tratta di esportare armi…). Quinta la Gran Bretagna con 277,6 milioni.

Sono rimaste stabili le esportazioni verso Israele, 9,96 milioni nel 2023 rispetto ai 9,28 milioni nel 2022. Le importazioni di armi da questo Paese sono invece triplicate, da 9,81 milioni a 31,54.

Nel complesso le importazioni, seppur rimaste inferiori rispetto alle esportazioni (le armi quindi hanno favorito il verificarsi di un saldo positivo della bilancia commerciale con l’estero), sono state caratterizzate da un notevole aumento (+71,7%), raggiungendo nel 2023 il valore di un miliardo e 251 milioni.

L’Italia ha importato armi soprattutto dagli Stati Uniti, Svizzera, Gran Bretagna e India.

La prima azienda italiana, relativamente all’entità delle esportazioni di armi, è Leonardo, l’ex Finmeccanica, seguita da Rwm Italia, Iveco defence vehicles, AvioSpa, Mes Spa, Rheinmetall Italia e GeAvio.

Secondo i dati forniti dal Sipri di Stoccolma, riferiti al quinquennio 2019-2023, l’Italia è il sesto Paese esportatore mondiale di armamenti.

Un bel risultato!

In questi 5 anni, rispetto al quinquennio precedente, la quota italiana sull’export mondiale è passata dal 2,2% al 4,3%.

Il primo Paese esportatore sono gli Stati Uniti (42% dell’export totale), seguiti da Francia (11%), Russia (11%), Cina (5,8%) e Germania (5,6%).

Quindi l’Italia ha ottenuto delle buone performances, relativamente alle esportazioni di armi, ma può ancora migliorare…

Pertanto l’industria delle armi fornisce un notevole contributo alla formazione del Pil italiano, ma è auspicabile che tale contributo cresca ulteriormente, nei prossimi anni.

O no?

lunedì 15 aprile 2024

Il debito pubblico è meno pericoloso di quanto sembri

Generalmente, quando si analizza il valore assunto dal debito pubblico italiano e soprattutto il valore del rapporto tra debito pubblico e Pil, si sostiene che entrambi siano troppo elevati. Certo non sono certo bassi, dovranno essere senza dubbio ridotti anche nel prossimo futuro, ma nel giudicarli in modo molto negativo si trascurano alcune caratteristiche del debito pubblico italiano.

Innanzitutto deve essere rilevato che anche altri Paesi hanno un rapporto tra debito pubblico e Pil molto alto.

Quel rapporto in Giappone, da molti anni, assume un valore anche superiore al 200% (in Italia è attualmente circa il 140%), la Francia ha un valore pari a circa il 110% e gli Stati Uniti nei prossimi anni raggiungeranno un valore vicino al 140%.

Poi in Italia dal 1992 fino alla pandemia ha sempre avuto un bilancio pubblico primario positivo, cioè, senza considerare gli interessi sul debito, l’Italia avrebbe avuto sempre un avanzo e non un deficit pubblico.

Quindi, per quasi 30 anni, lo Stato italiano ha chiuso in attivo il proprio conto annuale prima del pagamento degli interessi, cosa che non è riuscita a fare nemmeno la “rigorosa” Germania, ma neanche diversi altri Paesi europei.

Inoltre negli ultimi anni, dal terzo trimestre del 2019 al terzo trimestre del 2023, il debito pubblico è aumentato di 125 miliardi di euro, mentre quello spagnolo è cresciuto di 224 miliardi, quello tedesco di 426 miliardi e quello francese addirittura di 520 miliardi, cioè 4 volte di più di quello italiano.

Un altro aspetto da evidenziare è che il debito pubblico italiano è finanziato per circa i ¾ da investitori italiani. Soltanto, nel settembre 2023, il 27% del totale era la quota in mano a non residenti.

E, ad esempio, la Francia, alla fine del 2022 era invece esposta con finanziatori stranieri per quasi le metà del suo debito pubblico.

Da tali considerazioni ne discendono alcune conseguenze.

In primo luogo il corretto raiting che le agenzie attribuiscono al nostro debito pubblico non si deve limitare esclusivamente al valore del rapporto tra debito pubblico e Pil.

La seconda conseguenza è rappresentata dal fatto che la maggior parte degli interessi sul debito pubblico italiano viene pagata a sottoscrittori italiani, andando in definitiva ad accrescere la loro stessa ricchezza.

La terza è che la quota di interessi sul debito pubblico che l’Italia paga all’estero non è molto superiore a quella che pagano altri Paesi più esposti con finanziamenti stranieri, come la Francia.

La conclusione principale di tutte queste valutazioni è che il debito pubblico italiano è più sostenibile di quanto generalmente venga reputato.

mercoledì 10 aprile 2024

Per la sanità in Italia si spende meno rispetto ad altri Paesi

 

Il sistema sanitario pubblico in Italia viene, o meglio, veniva considerato un modello per molti Paesi europei ed extraeuropei. Tale valutazione sta venendo meno anche perché la spesa sanitaria pubblica in Italia è, attualmente, inferiore rispetto a quanto avviene in diversi importanti Paesi europei.

I dati più significativi sono quelli relativi al rapporto tra spesa sanitaria pubblica e Pil.

Secondo una relazione della sezione Autonomie della Corte dei Conti, nel 2022 quel rapporto assumeva in Italia un  valore pari al 6,8%, contro i valori, decisamente più elevati della Germania (10,9%), della Francia (10,3%) e del Regno Unito (9,3%).

I valori assoluti sono meno significativi per i confronti internazionali ma comunque degni di attenzione.

La spesa pubblica italiana per la sanità oscilla intorno ai 131 miliardi di euro, contro i 427 della Germania, i 271 della Francia e i 230 del Regno Unito.

Inoltre, tra il 2016 e il 2022, la spesa sanitaria pubblica in Italia è cresciuta del 6,6%, mentre, nei tre Paesi anche prima considerati, quella spesa è aumentata molto di più, con valori compresi tra il 24,8% e il 25,4%.

Ancora, la spesa sanitaria pubblica per abitante era pari, nel 2022, a 3.255 dollari, in Italia, il 47% di quella tedesca, 6.930 dollari, e il 57,9% di quella francese, 5.622.

Di conseguenza gli italiani pagano, privatamente, per la sanità, il 21,4% della spesa sanitaria complessiva, mentre i tedeschi pagano l’11%, gli inglesi il 13,5% e i francesi, addirittura, l’8,9%.

Tali dati dimostrano ampiamente che hanno ragione quanti sostengono che la spesa sanitaria pubblica in Italia debba essere aumentata, rapidamente, in misura consistente.

Altrimenti è a rischio la stessa sopravvivenza, almeno nelle forme che fino ad ora conosciamo, del sistema sanitario pubblico italiano.

E sempre di più gli italiani saranno costretti a ricorrere al privato, per la sanità, e coloro che non saranno in grado di farlo, per le loro ridotte disponibilità economiche, dovranno rinunciare a curarsi, come del resto già avviene.

lunedì 25 marzo 2024

In forte crescita gli imprenditori stranieri

Negli ultimi dieci anni il numero degli imprenditori stranieri è notevolmente cresciuto. Le persone fisiche nate all’estero che hanno il ruolo di amministratori, soci o titolari di imprese attive in Italia sono 775.559 (dato al 31 dicembre 2023). Erano poco più di 609.000 nel 2013: la crescita è stata dunque del 27,3% in dieci anni.

Nel 2003 gli imprenditori immigrati erano 313.352: in 20 anni, dunque, sono più che raddoppiati.

Questi dati sono forniti dalla fondazione Leone Moressa.

Invece gli imprenditori nati in Italia sono diminuiti, nel decennio 2013-2023, del 6,4%: erano 7,14 milioni nel 2013, e 6,68 milioni nel 2023.

La maggior parte degli imprenditori stranieri in Italia sono nati in Romania, Cina e Marocco.

Nel 2023 si è registrato anzi il sorpasso della Romania (78.258) rispetto alla Cina (78.114) come primo Paese d’origine. Queste due nazionalità, insieme, rappresentano oltre il 20% degli imprenditori immigrati in Italia.

Confrontando gli imprenditori per ciascun Paese con la popolazione in età lavorativa nata nella stessa nazione e residente in Italia, la fondazione Leone Moressa calcola il “tasso di imprenditorialità” per ciascuna comunità.

Tra i nati in Italia, gli imprenditori rappresentano il 12,4% della popolazione. Fra gli stranieri, il tasso di imprenditorialità è lievemente più alto (15,1%).

Quattro Paesi stranieri presentano un tasso di imprenditorialità superiore al 20%: si tratta di Cina (25,4%), Bangladesh (21,2%), Egitto (21,1%) e Brasile (20,9%).

Si attestano sopra la media del 15,1% anche Pakistan, Marocco e Tunisia. I valori più bassi si registrano invece tra gli immigrati provenienti da Sri Lanka (4,5%), Ucraina (4,3%) e Filippine (1,3%): in queste comunità è molto più rilevante il lavoro dipendente, soprattutto nel comparto domestico.

Le donne rappresentano il 27,6% degli imprenditori immigrati in Italia. L’incidenza della componente femminile è nettamente maggiore per alcune comunità, come quella ucraina (57,6%), del Brasile (48,4%) e della Cina (45,6%).

Considerando le imprese, non più gli imprenditori, si può rilevare che quelle a conduzione straniera sono 586.584, con un’incidenza dell’11,5% sul totale  (il numero di imprese a conduzione straniera è inferiore a quello degli imprenditori perché nella stessa azienda ci possono essere più persone fisiche nate all’estero con il ruolo di amministratore, socio o titolare).

Quasi un’impresa straniera su cinque si trova in Lombardia (19,2%), seguita da Lazio (11,3%), Toscana (9,7%) ed Emilia Romagna (9,3%).

E’ interessante, oltre alla distribuzione territoriale, il dato sull’incidenza delle imprese straniere sul totale delle imprese di ciascuna regione.

In alcuni territori il peso delle imprese straniere è infatti superiore alla media nazionale: è del 17,2% in Liguria, del 16,6% in Toscana, del 14% in Friuli Venezia Giulia, del 13,9% in Emilia Romagna.

Quanto ai settori di attività, un terzo delle imprese a conduzione straniera si concentra nel commercio. Complessivamente, quasi il 60% delle imprese straniere è dedita al commercio o alle costruzioni.

Anche in questo caso, è interessante analizzare l’incidenza rispetto al totale delle imprese di ciascun settore.

Questo valore raggiunge il picco massimo nell’edilizia (dove le imprese a conduzione straniera rappresentano il 20,6% del totale) e nel commercio (15,2%).

Nell’agricoltura e nei servizi sono invece molto più rappresentate le imprese italiane: l’incidenza di quelle a conduzione straniera sul totale è infatti rispettivamente del 2,9% e del 7,9%.

Risulta evidente che, attualmente, il peso dell’imprenditoria straniera, nell’economia italiana, è rilevante. Non sono numerosi solamente i lavoratori dipendenti stranieri.

E’ piuttosto significativo il fatto che il tasso di imprenditorialità sia maggiore fra gli stranieri che fra gli italiani.

Pertanto occorrerebbe una maggiore attenzione, e politiche specifiche, nei confronti dell’imprenditoria straniera, soprattutto al fine di aumentare il suo contributo al Pil nazionale.

lunedì 18 marzo 2024

Le attività speculative delle banche

Le banche italiane da quando la Bce ha adottato una politica monetaria restrittiva, caratterizzata da un aumento dei tassi di interesse, sono state contraddistinte, tutte, da attività che non possono non essere definite speculative.

Infatti hanno aumentato i tassi di interesse sui prestiti concessi alle imprese e alle famiglie e hanno aumentato di poco, e in alcuni casi non hanno fatto nemmeno questo, i tassi sui depositi.

Il cosiddetto margine di interesse, la differenza cioè tra tassi attivi e passivi, principale fonte dei ricavi bancari, è quindi aumentato, determinando una crescita degli utili, e quindi anche dei dividendi, delle banche, eccessiva.

E questo comportamento non può che essere definito speculativo.

Tale comportamento non è certo una novità. In altre occasioni si è determinata la stessa situazione.

Ma non per questo non deve essere, ancora una volta, criticato, in quanto ha causato una riduzione consistente de reddito disponibile dei clienti delle banche e ciò ha favorito anche un rallentamento della crescita del Pil.

Stupisce che la Banca d’Italia, a cui spetta la vigilanza sull’azione delle banche, non abbia fatto nulla.

E stupisce anche che l’autorità antitrust non abbia battuto ciglio perché si è oggettivamente verificato un accordo, più o meno tacito, tra tutti gli istituti di credito.

Quanto avvenuto giustifica la misura del governo che voleva tassare i cosiddetti extraprofitti delle banche, ma che poi ha fatto marcia indietro, anche perché la misura in questione era stata mal concepita, lasciando alle banche stesse la scelta di destinare quanto potevano pagare sotto forma di tasse al rafforzamento del proprio capitale.

E tutte le banche ovviamente si sono orientate verso la seconda alternativa.

Mi sembra necessario che quanto prima la Banca d’Italia modifichi il suo orientamento e costringa le banche a ridurre i tassi sui prestiti e ad aumentare i tassi sui depositi.

lunedì 4 marzo 2024

2 milioni le famiglie in povertà energetica

In Italia, nel 2022, erano 2 milioni le famiglie in povertà energetica, pari al 7,5% del totale. Nel nostro Paese la povertà energetica è definita come “difficoltà di acquistare un paniere minimo di beni e servizi energetici o, in alternativa, un accesso ai servizi energetici che implica una distrazione di risorse, in termini di spesa o di reddito, superiore a un ‘valore normale’”.

I dati in questione sono contenuti nello studio “Evoluzione della povertà energetica in Italia” realizzato dall’Osservatorio italiano sulla povertà energetica (Oipe), presentato in collaborazione con la fondazione banco dell’energia, - l’Ente senza scopo di lucro che sostiene le famiglie in situazione di vulnerabilità economica e sociale.

Nel 2022 è aumentata la povertà energetica delle famiglie tra le fasce medie mentre è diminuita tra quelle delle fasce più deboli.

Lo studio Oipe rileva che tutte le famiglie hanno risentito dell’aumento dei prezzi energetici ma in modo diverso: quelle vulnerabili, grazie alle misure di sostegno e di contenimento dei prezzi, hanno subito meno gli aumenti.

Nel 2022 c’è stato un rincaro di 500 euro rispetto al 2021, che ha spinto la spesa annua media per energia elettrica e riscaldamento delle famiglie a 1.915 euro. Un +32%, secondo l’analisi Oipe, a fronte di prezzi al consumo cresciuti del 50% e del 34,7%, rispettivamente per energia elettrica e gas.

Per il solo riscaldamento, invece, la spesa è salita del 29%, moderata anche dall’aumento generale delle temperature.

Le famiglie in povertà energetica sono diminuite nelle Isole e nel Centro, sono rimaste stabili al Nord e si sono concentrate di più nei piccoli centri e nelle aree suburbane.

La Toscana e le Marche hanno registrato  la percentuale più bassa con il 4,5%, la Calabria quella più alta, con il 22,4%, di famiglie in povertà energetica. Quest’ultima è anche la regione con l’incremento maggiore (+5,7 punti percentuali).

“La riduzione della povertà energetica nel 2022 va interpretata in un contesto di ingenti sussidi concessi dal Governo e di interventi transitori su fiscalità e componenti tariffarie dei prodotti energetici.

Non è una politica sostenibile nel medio termine ed è necessario che si organizzi, al più presto, una strategia di contrasto al fenomeno che si basi su analisi rigorose e su strumenti mirati per contemperare i vincoli di finanza pubblica e l’efficacia degli interventi che devono essere destinati solo alle famiglie vulnerabili” ha commentato Paola Valbonesi, presidente dell’Oipe.

Mi sembra condivisibile quanto rilevato dalla presidente dell’Oipe, anche perché molte famiglie, soprattutto per quanto concerne il riscaldamento, lo hanno utilizzato in misura inferiore a quanto necessario, proprio per l’aumento dei prezzi.

Occorre aggiungere che, attualmente, il prezzo mondiale del gas e del petrolio è diminuito, ritornando ai livelli precedenti all’inizio della guerra in Ucraìna, ma i prezzi energetici che le famiglie italiane sono costrette a pagare non sono diminuite nella stessa misura.

martedì 27 febbraio 2024

Il debito mondiale crescente è pericoloso

Il debito mondiale continua a crescere. Nel 2023 è aumentato di 15.000 miliardi in più rispetto all’anno precedente. E’ stato raggiunta la quota record di 313.000 miliardi di dollari. Questi dati sono contenuti nel “Global debt monitor”, pubblicato dall’ “Institute of International finance”.

L’aumento verificatosi nel 2023 è quasi equamente diviso tra i Paesi avanzati (guidati principalmente da Stati Uniti, Francia e Germania) e le economie emergenti (soprattutto in Cina, India e Brasile).

Occorre aggiungere però che il rapporto tra debito mondiale e Pil è diminuito nel 2023, rispetto al 2022, raggiungendo comunque un elevato valore, il 331,2%.

Però, mentre quel rapporto è diminuito nei Paesi europei, in quelli emergenti è di nuovo aumentato.

In Italia il debito globale è aumentato di 384 miliardi di dollari, nel 2023, raggiungendo il valore di 6.380 miliardi di dollari. Rispetto al Pil è diminuito dal 288,7% del 2022 al 284% dell’anno successivo.

Sempre in Italia, per quanto concerne le diverse componenti del debito, lo Stato ha giocato la parte del leone (221,7 miliardi), seguito dalle banche (99,6 miliardi), dalle imprese (38 miliardi) e dalle famiglie (24,5 miliardi).

Infatti, normalmente quando ci si occupa del debito si fa riferimento solo al debito pubblico. Invece in questa nota si esamina anche il debito privato che viene sommato a quello pubblico.

Un debito mondiale così elevato può essere pericoloso e in grado, negli anni futuri, di determinare crisi finanziarie che possano esercitare effetti molto negativi?

Dipende, secondo l’Iif, da tre incognite, la prima delle quali riguarda il comportamento delle banche centrali.

“L’incertezza sulla traiettoria dei tassi e del dollaro potrebbe aumentare ulteriormente la volatilità del mercato e indurre condizioni di finanziamento più rigide per i Paesi che dipendono in misura relativamente elevata dai prestiti esteri”.

La seconda incognita è connessa all’eventuale ripresa delle pressioni inflazionistiche che rischierebbe inoltre di accelerare il processo di riduzione dei bilanci delle stesse banche centrali “con un impatto negativo sulle prospettive dei mercati globali del debito attraverso un aumento dei costi di finanziamento”.

L’ultima grande incognita è rappresentata dalla variabile geopolitica, che sta rapidamente emergendo come autentico rischio strutturale.

“I deficit di bilancio dei governi sono ancora ben al di sopra dei livelli pre-pandemia e un’accelerazione dei conflitti regionali potrebbe innescare una brusca impennata della spesa per la difesa”.

Inoltre “il crescente protezionismo commerciale e i conflitti geopolitici potrebbero esacerbare ulteriormente i vincoli della catena di approvvigionamento, determinando un aumento della spesa pubblica per mitigare le implicazioni negative di una maggiore frammentazione del commercio e dei flussi di capitale”.

domenica 11 febbraio 2024

In Europa ancora austerità

L’Unione europea promuove ancora una politica economica caratterizzata da un’evidente austerità, una politica economica restrittiva. Lo dimostrano, soprattutto, il nuovo patto di stabilità e la politica monetaria della Bce.

Il nuovo patto di stabilità, che in realtà, molti se lo dimenticano, dovrebbe chiamarsi “patto di stabilità e crescita”, tende a promuovere una politica fiscale restrittiva, pur essendo, da questo punto di vista, un poco meglio del vecchio patto.

Peraltro il nuovo patto è molto complesso mentre la proposta iniziale elaborata dalla Commissione europea aveva notevolmente semplificato le procedure d’applicazione.

Ma, quel che più conta, tende a far attuare ai Paesi membri dell’Ue una politica, appunto, restrittiva e comunque prociclica e non anticiclica come sarebbe necessario.

E’ vero che i vincoli restrittivi sono più stringenti per i Paesi con un debito pubblico più elevato ma non si considerano altri caratteri dei debiti pubblici oltre il loro rapporto con il Pil, la cui analisi potrebbe rendere meno stringenti quei vincoli.

Andrebbe invece considerato, ad esempio, quali sono i soggetti che detengono i titoli pubblici nei Paesi con alto debito.

E’ vero che l’Italia è contraddistinta da un elevato rapporto fra il debito pubblico e il Pil ma gran parte di quel debito è posseduto da soggetti italiani, mentre in altri Paesi il debito è nelle mani di soggetti stranieri.

Quindi, per questa sua caratteristica, il debito pubblico italiano, senza dubbio elevato, è meno “pericoloso”.

Tutto ciò il nuovo patto di stabilità non lo prende in esame.

La Bce, poi, ha cessato di aumentare i tassi di interesse ma avrebbe dovuto iniziare a ridurli.

Infatti l’inflazione sta rallentando notevolmente nei Paesi europei e poi, negli ultimi anni, la Bce ha aumentato i tassi in misura troppo elevata e in tempi ristretti, anche perché ha ritardato ad aumentarli in quanto aveva ritenuto, sbagliando. che l’incremento dell’inflazione fosse transitorio.

Quindi mi sembra dimostrato che l’Ue sta promuovendo una politica fiscale e una politica monetaria ancora di segno restrittivo, proprio quando le previsioni per il 2024 e per il 2025 indicano un probabile andamento del Pil del tutto insoddisfacente in quasi tutti i Paesi, che saranno contraddistinti da una vera e propria stagnazione.

Ed è paradossale che sia proprio la Germania, che è già in recessione e le cui previsioni relative al Pil sono le peggiori, a volere una politica economica restrittiva.

Pertanto è auspicabile che la nuova Commissione e il nuovo Consiglio d’Europa, che scaturiranno in seguito ai risultati delle prossime elezioni europee, attuino invece una politica economica espansiva e comunque anticiclica.

lunedì 29 gennaio 2024

Per l'Ocse necessario aumentare le imposte sui patrimoni

 

L’Ocse, un’organizzazione internazionale di studi economici, ha recentemente reso noto uno studio sull’economia italiana, nel quale si propone, tra l’altro, lo spostamento, fra le entrate pubbliche, dell’imposizione fiscale dal lavoro alla proprietà e ai consumi.

Per molti osservatori e per molti partiti politici, l’aumento, in Italia, dell’imposizione fiscale sui patrimoni, immobiliari e non, rappresenta un tabù.

Non la pensa così l’Ocse che nello studio citato rileva che lo spostamento dell’imposizione fiscale dal lavoro alla proprietà e ai consumi tutelerebbe il gettito fiscale del Paese e, al contempo, renderebbe il sistema più funzionale alla crescita.

Infatti in altri Paesi l’imposizione sui patrimoni è più elevata rispetto a quanto avviene in Italia.

Quindi, con una maggiore imposizione sugli immobili e sulle attività finanziarie, si potrebbero reperire risorse da destinare alla spesa pubblica in settori molto importanti, quali ad esempio la sanità e l’istruzione.

Inoltre, sempre secondo l’Ocse, al fine di ridurre il debito pubblico in maniera durevole, a partire dal 2025, la priorità assoluta per la politica fiscale italiana consisterebbe nell’assicurare il risanamento dei conti pubblici portando avanti tale attività per svariati anni.

E’ necessario, inoltre, contenere l’aumento della spesa salvaguardando al contempo gli investimenti pubblici al fine di ridurre al minimo gli effetti collaterali negativi sulla crescita.

E’ necessario, poi, riformare il sistema pensionistico, in particolare per ridurre la pressione sulla spesa derivante dalle pensioni elevate.

Per realizzare economie di spesa occorre rafforzare maggiormente l'efficienza amministrativa e, al contempo, attuare riforme volte a migliorare la qualità dei servizi pubblici incrementando il livello di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione e dei sistemi di gestione degli appalti.

Le revisioni della spesa attualmente in corso dovrebbero essere più ambiziose, la cosiddetta “spending review”.

Al fine di favorire la crescita nel lungo periodo, occorre rilanciare un aumento della produttività, rimasta stagnante nell’ultimo decennio.

Le riforme in corso nel settore della giustizia civile e della Pubblica Amministrazione contribuiranno ad incrementare la produttività e gli investimenti delle imprese, nonché ad accelerare l’attuazione di piani di investimento pubblico assicurando una maggiore efficienza del sistema della giustizia.

Al fine di agevolare l'ingresso sul mercato da parte di nuove imprese e incrementare la concorrenza, è inoltre necessario ridurre le barriere normative che ostacolano la concorrenza nel settore dei servizi.

Un aumento dei livelli di occupazione è essenziale per favorire una crescita proficua per tutti in Italia.

Il tasso di occupazione nel Paese è tra i più bassi dell’Ocse, a causa dell’elevata disoccupazione giovanile e della scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Il potenziamento del comparto dell’istruzione tecnica e del sistema di formazione contribuirebbe ad agevolare un maggiore accesso delle persone vulnerabili e dei giovani al mercato del lavoro.

E’ necessario incrementare la presenza delle donne nel mercato del lavoro potenziando l’accesso all’istruzione pubblica per la prima infanzia.

Inoltre, sarebbe utile introdurre misure atte a incentivare maggiormente il congedo di paternità, anche attraverso l’introduzione di una “quota padre” nel diritto al congedo parentale per entrambi i genitori.

In virtù della bassa intensità energetica della sua economia e delle abbondanti risorse solari di cui dispone, l’Italia gode di condizioni idonee per realizzare la transizione climatica.

Tuttavia, il ritmo della riduzione delle emissioni inquinanti ha subìto un rallentamento nel corso dell’ultimo decennio.

Occorrono, pertanto, ulteriori sforzi programmatici volti ad accelerare la riduzione delle emissioni inquinanti e l’adattamento ai cambiamenti climatici: le accise applicate ai combustibili fossili dovrebbero essere aumentate, ove possibile, e maggiormente allineate al contenuto di emissioni effettivamente generate dai singoli combustibili fossili, come previsto dai recenti piani.

Al fine di garantire il raggiungimento degli obiettivi annuali in termini di installazione, occorre assicurare lo snellimento dei complessi iter autorizzativi che attualmente frenano l'installazione di capacità rinnovabile.

Si potrebbe, inoltre, procedere a una maggiore decarbonizzazione del settore dei trasporti investendo nella rete ferroviaria, riducendo il trattamento fiscale agevolato previsto per il gasolio rispetto alla benzina e promuovendo la diffusione dei veicoli elettrici, ad esempio aumentando il numero delle stazioni di ricarica attualmente disponibili.

Queste proposte dell’Ocse costituiscono, oggettivamente, un piano di politica economica che, personalmente, condivido in pieno.

L’attuale governo, invece, non ha un piano organico di politica economica e, comunque, propone, purtroppo, solo una parte degli interventi sollecitati dall’Ocse.

domenica 21 gennaio 2024

Poche famiglie hanno il 50% della ricchezza

Il 5% delle famiglie italiane dispone di circa il 46% della ricchezza netta totale. Questo è uno dei principali risultati dello studio della Banca d’Italia sui conti distributivi sulla ricchezza delle famiglie.

Quindi è legittimo sostenere che la distribuzione della ricchezza in Italia è contraddistinta dalla presenza di notevolissime disuguaglianze.

Certo i principali indici di disuguaglianza sono rimasti stabili tra il 2017 e il 2022, dopo essere aumentati tra il 2010 e il 2016.

Ma è altrettanto certo che le disuguaglianze nella ricchezza sono molto rilevanti e che sarebbe opportuno ridurle.

Le famiglie meno abbienti possono contare quasi esclusivamente sul possesso dell’abitazione mentre quelle più benestanti hanno una ricchezza piuttosto diversificata, composta anche da azioni, depositi e polizze.

Metà della ricchezza degli italiani è rappresentata dalle abitazioni ma tale valore varia fortemente in base all’entità della ricchezza.

Infatti per le famiglie che hanno un valore della ricchezza inferiore a quello medio le abitazioni rappresentano i tre quarti del totale della ricchezza e per le famiglie appartenenti alla classe più ricca rappresentano solo un terzo del totale.

Per le famiglie più povere i depositi sono l’unica componente rilevante (il 17%) di ricchezza finanziaria.

Molto più diversificato è il portafoglio delle famiglie più ricche: quasi un terzo della ricchezza è rappresentato da capitale di rischio legato alla produzione (azioni, partecipazione ad esempio) e un quinto da fondi comuni di investimento e polizze assicurative.

E quindi è proprio la composizione della ricchezza degli italiani, nell’ambito della quale una parte molto consistente è rappresentata dalle abitazioni, a ostacolare un aumento dell’imposizione sugli immobili.

Comunque sarebbe necessario aumentare le imposte sui grandi patrimoni, non finanziari e finanziari, per reperire le risorse necessarie da utilizzare per aumentare la spesa pubblica in settori dove ciò sarebbe molto importante, come la sanità e l’istruzione.

domenica 14 gennaio 2024

Produzione giù occupazione su

Secondo alcuni dati recentemente forniti dall’Istat, la produzione industriale, in Italia, diminuisce mentre l’occupazione cresce. Tale andamento, almeno apparentemente, appare contradditorio. Infatti, generalmente, quando aumentano gli occupati aumenta anche la produzione.

Per  provare a spiegare l’andamento divergente delle due variabili considerate, è opportuno analizzare, brevemente, i dati.

Nel mese di novembre gli occupati sono aumentati, rispetto al mese precedente, di 30.000 unità, e, in un anno, di 520.000 unità, raggiungendo un numero pari a 23.743.000, un record nelle serie statistiche dell’Istat dal 2004, su livelli superiori a quelli pre-Covid.

E’ necessario aggiungere, però, che, nello scorso novembre si evidenziano due segnali delle conseguenze del rallentamento economico in atto e del clima di incertezza tra gli operatori.

Il primo è rappresentato dall’aumento degli occupati a tempo determinato (+15.000 rispetto al mese precedente) ed è la prima volta che accada da agosto.

Il secondo è rappresentato dall’aumento del numero degli inattivi, +48.000 rispetto al mese di ottobre, cioè di coloro che non hanno un lavoro ed hanno smesso di cercarlo, molti perché scoraggiati. Ed il numero degli inattivi non cresceva dal mese di agosto del 2022.

I due segnali appena rilevati potrebbero essere interpretati come le avvisaglie di un andamento non positivo anche del totale degli occupati, che potrebbe verificarsi nei prossimi mesi.

E l’andamento della produzione è probabile che tenda a ridursi anche nei prossimi mesi.

Comunque, la produzione industriale, per il secondo mese consecutivo, è diminuita, nel mese di novembre, dell’1,5% rispetto al mese precedente e del 3,1% rispetto a novembre 2022.

Quindi, è possibile che, nei prossimi mesi, sia l’occupazione che la produzione diminuiscano e, pertanto, l’andamento di queste due variabili sarebbe quello che normalmente si verifica.

Infine, il fatto che, per ora, l’andamento di occupazione e produzione abbiano un segno diverso non può essere valutato positivamente perché determina una riduzione della produttività.

E la riduzione della produttività non può che essere valutata negativamente anche perché tale variabile, in Italia, da tempo, assume un valore e un andamento non soddisfacente.