venerdì 30 novembre 2018

Save the Children, come contrastare la povertà minorile


In occasione della discussione alla commissione Bilancio della Camera dei Deputati, Save the Children, ha formulato 5 proposta in favore dei bambini e delle loro famiglie, in particolare le più vulnerabili. Infatti l’associazione considera la povertà minorile una vera emergenza per l’Italia. Intervenire per combatterla è ritenuto un investimento indispensabile, nel lungo periodo, per il Paese. 

“Lo scenario economico, oggi così critico, non ci esime dal dover mettere al centro la tutela dei bambini e degli adolescenti, soprattutto di quelli che vivono nelle condizioni di maggior disagio, come il milione e duecentomila minori sotto la soglia della povertà assoluta.

C’è la assoluta necessità di rafforzare la rete di intervento sociale ed educativa. Questa è la vera infrastruttura di cui il nostro Paese ha bisogno, e i fondi per l’infanzia dovrebbero essere considerati, in Italia così come in Europa, non come una spesa ma come un investimento indispensabile per lo sviluppo” - ha dichiarato Raffaela Milano direttrice del programma Italia-Europa di Save the Children.

Le cinque proposte sono le seguenti:

Sostegno materiale alle famiglie con bambini in povertà assoluta

E’ necessario che nella definizione del nuovo reddito di cittadinanza si introduca un criterio di priorità nei confronti delle famiglie con minori in povertà assoluta, a partire dalla constatazione che proprio i minori sono i più colpiti dall’impoverimento: il 12% dei minori è in povertà assoluta, con una incidenza tre volte maggiore rispetto agli over65.

E’ inoltre necessario che non si interrompa, ma si potenzi, il percorso avviato con il reddito di inclusione - sostenuto dalla Alleanza contro la Povertà di cui Save the Children fa parte - per affiancare al contributo economico il necessario sostegno della rete dei servizi sociali e specifiche misure dedicate ai minori, come la prevenzione della dispersione scolastica, rendendo i minori stessi protagonisti dell’intervento.

Fondo di contrasto alla povertà educativa

Non è solo la povertà materiale a colpire i minori e pregiudicarne il futuro: occorre contrastare quella che Save the Children ha definito “povertà educativa”, ovvero l’impossibilità, per i minori, di accedere alle risorse educative indispensabili per sviluppare i propri talenti e le proprie potenzialità.
Con la legge di stabilità del 2016 (con un impegno per 2016, 2017 e 2018) il Parlamento ha dato vita al “fondo di contrasto per la povertà educativa minorile”. Il fondo è alimentato dalle Fondazioni di origine bancaria, che usufruiscono di un credito d’imposta.

“Chiediamo - sottolinea Raffaela Milano - che sia data continuità a questo importante strumento, per affrontare con iniziative specifiche e innovative uno degli aspetti della povertà minorile meno visibile e allo stesso tempo più grave e spesso purtroppo irreversibile, perché condiziona non solo il presente ma anche il futuro dei minori colpiti”.

Sicurezza scolastica, mense gratuite e scuole aperte tutto il giorno nelle aree di maggior disagio

La scuola è il primo presidio educativo ed anche il luogo dove ridurre le diseguaglianze economiche e sociali, assicurando ad ogni bambino la possibilità di sviluppare le sue potenzialità. Troppe scuole oggi non riescono a rispondere a questa missione, sono spazi pericolosi e squallidi.

E’ necessario concretizzare l’impegno sulla edilizia scolastica per tutelare il diritto di ogni bambino ad uno spazio scolastico sicuro, bello e adatto all’apprendimento.

Visti i dati allarmanti sulla povertà alimentare, anche il tema della mensa scolastica va messo al centro. Save the Children chiede di garantire un accesso gratuito alla mensa scolastica ai bambini in condizioni certificate di povertà assoluta. La mensa è funzionale anche a consentire l’apertura delle scuole per tutto il giorno, per attività curriculari ed extracurriculari, come presidio educativo, di legalità e di promozione culturale e di prevenzione della dispersione scolastica.

“Occorre un investimento mirato su quelle aree di maggior disagio, dove si concentrano per i bambini e i ragazzi tutti i fattori di svantaggio - povertà, dispersione scolastica, criminalità, degrado ambientale -, trasformando questi territori in vere ‘comunità educanti’ in grado di garantire ai bambini la possibilità di costruire liberamente il futuro, senza doversi sottomettere ad un destino già segnato”, ha proseguito Raffaela Milano.

Educazione 0-6 e sostegno alla genitorialità

Occorre sviluppare il sistema educativo per i bambini dagli 0 ai 6 anni, visto che è ormai chiara l’importanza dell’investimento precoce sin dalla prima infanzia. In quest’ottica è necessario finanziare un piano nazionale di sostegno alla genitorialità, che preveda una programmazione organica e pluriennale e che assicuri per i nuclei familiari un coordinamento tra le diverse misure di intervento. Inoltre per riequilibrare i carichi di cura fin dalla nascita, è fondamentale prorogare e stabilizzare il congedo di paternità obbligatorio.

Rinnovare l’impegno dell’Italia per i bambini del mondo per salute materno-infantile, nutrizione ed educazione

Per essere in grado di rispondere alle sfide attuali e future è necessaria una cooperazione internazionale forte e dotata di adeguate risorse, per azioni di sviluppo che partano da settori chiave quali l’educazione, la salute materno-infantile e la nutrizione.

La nota di aggiornamento al Def 2018 ha annunciato che gli stanziamenti per gli aiuti allo sviluppo raggiungeranno lo 0,4% del reddito nazionale lordo entro il 2021, un dato che conferma il trend di crescita avviato negli scorsi anni. Occorre confermare questo percorso nel triennio senza arretramenti nell’investimento.

A tal fine, Save the Children raccomanda di dedicare una parte del fondo di rotazione per le politiche comunitarie, nella misura di 60 milioni di euro annui per il triennio, a favore delle azioni di cooperazione allo sviluppo realizzate dal ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, in coerenza e a complemento della politica di cooperazione dell’Unione europea.

martedì 27 novembre 2018

Contro il decreto sicurezza di Salvini



Il cosiddetto decreto sicurezza, fortemente voluto da Matteo Salvini, è stato oggetto, giustamente, di numerose critiche. Le critiche sono state espresse sia dai partiti di opposizione ma anche da associazioni e sindacati. Un appello contro le caratteristiche principali del decreto in questione è stato redatto da Libera, Acli, Arci, Avviso Pubblica, Legambiente, Cgil, Cisl e Uil.

Condivido in pieno l’appello, anche perché, seppur breve, evidenzia chiaramente gli aspetti fortemente negativi del decreto.

Pertanto ho deciso di riportarlo integralmente.

“Destano grande preoccupazione le disposizioni relative alla protezione umanitaria e immigrazione - su cui anche il Consiglio superiore della magistratura ha rilevato aspetti di incostituzionalità - e che appaiono essere più come una risposta simbolica all'opinione pubblica che ai problemi concreti della protezione e della integrazione.

Questo decreto che si appresta a diventare legge non promuove dignità, ma la toglie, ad esempio alle persone che hanno intrapreso un percorso di integrazione, lavorano in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato e in caso di diniego perdono il lavoro e il diritto di permanere sul territorio italiano, incentivando in tal modo sfruttamento e lavoro irregolare.

Preoccupano fortemente, altresì, le disposizioni relative all'ordine pubblico e sicurezza, che richiederebbero interventi di diversa natura mirati a favorire le politiche di inclusione sociale, a garantire il diritto all'abitare, alla salute e a tutti i servizi socio-sanitari per le persone in condizioni di povertà, fragilità ed emarginazione.

Fino alla vendita ai privati dei beni confiscati ai mafiosi e ai corrotti, perchè, tramite aste pubbliche, anziché riutilizzarli per finalità pubbliche e sociali come prevede la legge n. 109/1996, si vuole dare un messaggio culturale in direzione opposta, favorendo inevitabilmente gli acquisti attraverso prestanome dalla faccia pulita, come già evidenziato da molti magistrati.

Non possiamo permettere che le ricchezze accumulate con denaro frutto del compimento di gravi reati ritornino nelle mani di chi li ha commessi. Tutto il ‘maltolto’ deve diventare ‘bene comune’ rappresentando il segno del riscatto di un'Italia civile e responsabile, onesta e coraggiosa”.

Uno degli obiettivi principali del decreto dovrebbe essere quello di ridurre il numero dei migranti presenti in Italia.

Ho utilizzato il condizionale non a caso.

Infatti, in considerazione soprattutto delle note difficoltà connesse al rimpatrio dei migranti, l’effetto principale che determinerà l’attuazione del decreto sarà l’aumento del numero degli stranieri irregolari.

E tale aumento, oggettivamente, causerà anche un incremento dei comportamenti illegali.

Pertanto la tanto sbandierata volontà, manifestata soprattutto da Salvini, di accrescere la sicurezza dei cittadini italiani si tramuterà nel verificarsi dell’esatto contrario.

Salvini lo sa ma a lui non interessa realmente garantire la sicurezza quanto aumentare i consensi, anche elettorali, nei suoi confronti, usando strumentalmente le paure e i timori che egli stesso ha contribuito a creare, ad esempio ingigantendo le dimensioni e  i pericoli dei fenomeni migratori.

venerdì 23 novembre 2018

Associazione Libera, no alla vendita dei beni confiscati



Con l'approvazione al Senato del “decreto sicurezza”, nell'articolo 36 si liberalizza la vendita ai privati, con aste pubbliche, dei beni confiscati ai boss. Dieci anni dopo l'ipotesi avanzata dal governo Berlusconi che propose con un emendamento alla legge finanziaria per il 2010 la vendita dei beni confiscati e poi bloccata grazie alla mobilitazione del mondo associativo e di migliaia di cittadini, si ripropone una possibilità che rischia di fare un grosso passo indietro nel contrasto patrimoniale alle mafie e ai corrotti.

Questo giudizio negativo sulla vendita dei beni confiscati è stata espressa dall’associazione Libera.

Infatti la previsione della vendita alle condizioni contenute nel decreto governativo porterà il rischio ad arrendersi di fronte alle prime difficoltà legate alle diverse criticità territoriali ed a volte alla mancanza di informazioni adeguate e di progettualità condivise.

Del resto la vendita era già possibile ad alcune categorie di soggetti, come extrema ratio e come tale deve essere considerata e non una scorciatoia per evitare le problematiche che si riscontrano nella destinazione e assegnazione dei beni.

C’è, infatti, la forte preoccupazione che, senza cautele e controlli adeguati, i beni messi all’asta non solo siano venduti a prezzi svalutati (chi in certe zone avrà il coraggio di partecipare all’asta per la villa del boss locale?), ma che l’acquisto possa essere realizzato attraverso prestanomi dalla faccia pulita.

Oltretutto il decreto prevede che i proventi della vendita siano utilizzati solo per il 20% per le funzioni dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata. La parte maggiore va ai Ministeri dell'Interno e della Giustizia. Una linea di tendenza che di fatto fa venire meno lo spirito della legge: le ricchezze rubate alla comunità devono essere restituite alla comunità, in un'ottica risarcitoria.

Un provvedimento che di fatto rappresenta un attacco a quel “maltolto” che diventa “bene comune” e crea opportunità rappresentando il segno del riscatto di un'Italia civile e responsabile, onesta e coraggiosa. Le oltre 800 realtà dell'associazionismo, del volontariato e della cooperazione sociale assegnatarie di beni immobili confiscati, infatti, distruggono “il capitale sociale” delle mafie e sottraggono ai boss lo strumento del consenso.

Un impegno sociale che negli anni ha trovato ampio consenso.

Secondo l'ultima ricerca di Liberaidee sulla percezione e la presenza delle mafie e della corruzione, su un campione di 10.000 persone, per oltre otto intervistati su dieci i beni confiscati sono percepiti come una risorsa per il territorio, capace di portare benefici all’intera comunità locale.

Per quel che concerne le opinioni relative a quale debba essere l’utilizzo dei beni confiscati, secondo i rispondenti dovrebbero essere destinati in misura prioritaria a cooperative orientate all’inserimento lavorativo dei giovani (31%), alla realizzazione di luoghi pubblici di aggregazione e di educazione alla cittadinanza (23,5%) e solo il 4,4% ritiene utile venderli per incrementare le casse pubbliche.

“Questi terreni appartenevano a Totò Riina”; “Bernando Provenzano era il padrone di questo vigneto”; “Questo agriturismo è dedicato alla memoria del piccolo Di Matteo ucciso barbaramente”.

Poter oggi ascoltare queste frasi, pronunciate ad alta voce dai tanti giovani impegnati nelle realtà che gestiscono i beni confiscati, significa rendersi conto di quanta strada sia stata fatta, nel solco della memoria delle vittime innocenti della violenza criminale e mafiosa. Ventitré anni fa nessuno si sarebbe immaginato che qualcuno le potesse pronunciare.

La vendita di quei beni significherà una cosa soltanto: che lo Stato si arrende di fronte alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale, come prevede la legge.

E il ritorno di quei beni nella disponibilità dei clan a cui erano stati sottratti, grazie al lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura, avrà un effetto dirompente sulla stessa credibilità delle Istituzioni.

Insomma, un vero regalo alle mafie e ai corrotti.

giovedì 22 novembre 2018

Quota 100 per le pensioni e reddito di cittadinanza interventi sbagliati



I due principali interventi di politica economica che il governo giallo-verde dovrebbe attuare sono l’introduzione della cosiddetta quota 100 per le pensioni e il reddito di cittadinanza. Entrambi gli interventi sono sbagliati, indipendentemente dagli effetti espansivi sul deficit e sul debito pubblico.

I due interventi hanno un elemento in comune: determineranno un aumento della spesa pubblica con scarsi effetti sulla crescita del Pil e non sono prioritari rispetto ad altre azioni che potrebbero essere realizzate se si intende davvero aumentare il Pil e l’occupazione, obiettivi questi senza dubbio molto importanti.

L’introduzione della quota 100 potrebbe avere degli effetti espansivi sul Pil solamente se l’aumento dei pensionati provocasse una forte crescita dei giovani occupati, in sostituzione di coloro che abbandonerebbero il proprio posto di lavoro.

E’ provato che un aumento del numero dei pensionati determina solo un piccolo aumento degli occupati che li dovrebbero sostituire, rimanendo costante la produttività del lavoro e la dinamica della domanda.

Il reddito di cittadinanza, anche e non soltanto per le sue notevoli difficoltà attuative, provocherà solamente una lieve crescita dei consumi.

E comunque, in entrambi i casi, non si determinerà una forte riduzione della disoccupazione giovanile, che, come è noto, è particolarmente elevata in Italia, soprattutto nelle regioni meridionali.

Invece altri interventi volti ad aumentare la spesa pubblica potrebbero causare una maggiore crescita del Pil e una maggiore diminuzione della disoccupazione giovanile.

Ad esempio avrebbero questi effetti un consistente aumento degli investimenti pubblici e degli incentivi volti ad assumere i giovani nelle imprese.

Invece l’introduzione della quota 100 per le pensioni e del reddito di cittadinanza sono interventi assistenzialistici, volti ad accrescere i consensi elettorali.

Pertanto la manovra di politica economica dell’attuale governo è profondamente sbagliata se si intende davvero affrontare con decisione, e con effetti stabili nel tempo, i principali problemi economici del nostro Paese, un’asfittica crescita del Pil e un livello della disoccupazione, soprattutto quella giovanile, molto elevato.

giovedì 15 novembre 2018

Una legge per salvare le città d'arte



L’associazione Bianchi Bandinelli ha recentemente presentato un disegno di legge per salvare le città d’arte. Infatti i centri storici di molte città italiane sono sempre più contraddistinte da una tendenza a una forte e costante riduzione dei residenti. Contemporaneamente vi proliferano esercizi commerciali destinati quasi esclusivamente ai turisti.

Per conoscere i motivi alla base della scelta di proporre quel disegno di legge e i suoi principali contenuti, mi è sembrato opportuno riportare una parte dell’intervista di Maria Pia Guermandi all’urbanista Vezio De Lucia, presidente dell’associazione Bianchi Bandinelli, pubblicata sulla rivista Left.

Perché un’iniziativa sui centri storici? Non eravamo il paese più tutelato d’Europa?

Eravamo. In effetti il nostro Paese fu il primo, all’inizio degli anni Sessanta, ad affrontare il tema della conservazione e del recupero dei centri storici, non solo come contenitori di monumenti ma essi stessi monumento: e il merito va soprattutto ad Antonio Cederna indiscusso ispiratore di quell’autentica rivoluzione culturale.

E poi che è successo? 

E’ successo che proprio l’Italia sta rinnegando il suo passato e dovunque è in grave crisi la vivibilità dei centri storici, di nuovo pascolo privilegiato della speculazione, del malgoverno, di piccoli e grandi abusi, ma più di ogni altra cosa i centri storici sono affetti da gravi fenomeni di spopolamento. Non dovunque e non nella stessa misura, ma sono drammatici i dati sulla diminuzione dei cittadini delle città d’arte, massicciamente sostituiti da turisti e da attività legate al turismo, e dei piccoli comuni delle zone interne del Mezzogiorno (l’“osso” di Manlio Rossi Doria) dissanguati dall’emigrazione e abbandonati. 

Per quanto riguarda le città d’arte, possiamo dire che il turismo, prima industria mondiale, sta cannibalizzando i quartieri centrali?

Sì è così, e Venezia è un esempio paradigmatico. Secondo Paola Somma, Venezia da tempo non è più una “città”, ma solo il quartiere turistico di una conurbazione che aveva bisogno di grandi opere infrastrutturali per massimizzare l’accessibilità e potenziare i punti di sbarco: aeroporto, porto, stazione, parcheggi, darsene. Piano perfettamente riuscito. Oggi 8 case su 10 sono di proprietà di investitori, ogni sabato scendono dalle grandi navi 30.000 turisti che, uniti agli sbarchi via terra e via aria, sono numericamente superiori agli abitanti. Qualcuno ancora protesta, ma il sindaco è soddisfatto e dice: la città è di chi la ama. E cose analoghe si registrano a Firenze e Roma.

E’ davvero un fenomeno così esteso o riguarda in fondo solo le grandi mete turistiche?

Il turismo è certo causa fra le più importanti di operazioni di gentrificazione, ma in moltissimi centri continua a essere la speculazione immobiliare a erodere spazi pubblici e a innescare operazioni di espulsione delle fasce sociali economicamente più svantaggiate.

Perché una legge? Pensate davvero che nell’attuale contesto politico sia lo strumento migliore?

Perché i centri storici sono stati di fatto ignorati dalle leggi di tutela, a partire dallo stesso codice dei beni culturali. La proposta è il prodotto di un lavoro collettivo, cominciato nella primavera scorsa. E’d’impianto radicale, e nessuno di noi s’illude che possa essere approvata così come la presentiamo. Ma non spetta a noi l’esercizio della mediazione con il mondo politico e parlamentare. Ci spetta invece di formulare una proposta limpida, ma tecnicamente fattibile, questo penso che sia il compito di un’associazione culturale.

Quali sono i contenuti essenziali di questa proposta e in particolare quelli che potrebbero arginare l’attuale situazione di degrado?

Molto in sintesi, sono i seguenti: la definizione di centro storico, che facciamo coincidere con gli insediamenti urbani riportati nel catasto del 1939, unificando in tal modo i riferimenti temporali e cartografici degli strumenti urbanistici comunali; la dichiarazione dei centri storici come “beni culturali d’insieme”, sottoposti alla disciplina conservativa del codice, con “divieto di demolizione e ricostruzione e di trasformazione dei caratteri tipologici e morfologici degli organismi edilizi e dei luoghi aperti, di modificazione della trama viaria storica” e con divieto di nuova edificazione, norma immediatamente prescrittiva che impedirebbe gli scempi che abbiamo denunciato prima;
una serie di “principi” di buon governo del territorio di competenza statale che devono essere recepiti dalla legislazione regionale come prevede il 3° comma dell’art. 117 della Costituzione.

Fin qui si tratta di principi “conservativi”: non temete di passare per “anime belle”?

Non corriamo questo rischio perché non ci fermiamo alla tutela. Per rigorose ed efficaci che siano le norme di tutela, se non si affronta con determinazione il nodo dello spopolamento, il destino dei centri storici è segnato. Per questo il contenuto più forte della nostra legge è un programma straordinario dello Stato di edilizia residenziale pubblica nei centri storici. Serve l’intervento diretto e straordinario dello Stato, come nei casi di gravi calamità naturali: in effetti di questo si tratta: lo svuotamento residenziale di Venezia non è diverso dalla disastrosa alluvione del 1966. La proposta prevede perciò interventi molto determinati: l’utilizzo a favore dell’edilizia residenziale pubblica del patrimonio immobiliare pubblico dismesso (statale, comunale e regionale); l’obbligo di mantenere le destinazioni residenziali con la sospensione dei cambi d’uso verso destinazioni diverse da quelle abitative; l’erogazione di contributi a favore di Comuni in esodo per l’acquisto di alloggi da cedere in locazione a canone agevolato (norma che vale in particolare per i paesi in esodo).

mercoledì 14 novembre 2018

Quarant'anni di spending review



Nel libro di Mario Baldassarri e Dino Pesole, edito da Rubettino, dal titolo “Quaranta anni di spending review: l'Italia al bivio sui tagli di spesa, galleggiare o cambiare sul serio”, inserito nel dodicesimo rapporto del Centro Studi Economia Reale, si analizzano soprattutto i tentativi che da alcuni decenni sono stati realizzati in Italia per affrontare il problema della riqualificazione della spesa pubblica.

Tali tentativi, volti a rendere effettiva e strutturale una vera e incisiva spending review, non hanno prodotto i risultati sperati.

Perché non si sono verificati quei risultati?

Perché tagliare la spesa costa in termini di consenso. Il problema è dunque tutto politico, perché non manca certo l'apparato di studi, analisi, proposte. Ma i tecnici possono proporre, poi spetta alla politica e dunque a governo e Parlamento assumersi l'onere di decidere.

Parte da questa premessa il libro di Baldassarri e Pesole.

Le stime più recenti - si legge nel testo - indicano in 848 miliardi il totale di spesa pubblica nel 2018, che aumenterà nel 2019 a 863 miliardi nel profilo tendenziale e a 880 miliardi in quello programmatico, inclusa dunque la manovra di bilancio 2019.

Un enorme volume di risorse su cui si può e si deve intervenire.

Nel libro si mostra, inoltre, che non è vero che si fa più sviluppo e crescita in deficit.

Dal secondo dopoguerra fino al 1971 il bilancio pubblico italiano presentava un pareggio o un avanzo di parte corrente. Il che vuol dire che nella parte corrente creava risparmio.

Quindi i deficit e il conseguente debito pubblico accumulato fino al 1971 erano da attribuire alla sola spesa per investimenti. E non del tutto, perché una parte degli investimenti erano autofinanziati dall'avanzo di parte corrente.

Quindi nei primi venti anni circa della Repubblica si è assistito a una politica virtuosa dal punto di vista della finanza pubblica, non soltanto in termini di spesa, tasse e deficit, ma soprattutto di “composizione” del bilancio.

Tutto cambiò bruscamente a partire dal 1971, quando iniziò a formarsi il disavanzo di parte corrente che si sommò agli investimenti e determinò deficit totali crescenti. Da quel momento in poi, in assenza di veri e propri exploit nella dinamica degli investimenti pubblici, quella che è andata fuori controllo è stata la spesa corrente.

Negli anni Ottanta, venuto meno l'ombrello del finanziamento monetario del disavanzo, il debito pubblico aumentò in modo esponenziale.

Eppure già a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, Beniamino Andreatta attraverso l' Arel, iniziò il suo deciso e lungimirante impegno soprattutto su due fronti: la necessità di capire lo zero base budgeting e l'istituzionalizzazione del controllo della spesa pubblica con un'autorità indipendente che riferisse direttamente al Parlamento sulla base dell'esperienza del congressional budget office americano. 

Nominato nel 1981 ministro del Tesoro Andreatta introdusse, insieme al governatore Carlo Azeglio Ciampi, il divorzio tra Tesoro e Banca d'Italia ed istituì la commissione tecnica sulla spesa pubblica. 

Nel corso degli anni Ottanta tale commissione produsse numerosi e voluminosi studi di puntuale ed enorme interesse per valutare gli andamenti della spesa e individuare le sacche di inefficienza, spreco e malversazione.

Sul finire del decennio apparve però evidente che la commissione tecnica non poteva restare un semplice “ufficio studi” e avrebbe dovuto essere trasformata in un'Autorità indipendente sulla spesa pubblica che rispondesse direttamente al Parlamento.

Non se ne fece nulla.

Soltanto nel 2014 è stato costituito l'Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) con un'architettura istituzionale non del tutto corrispondente a quel disegno originale.

Poi si “salta” al ministro Padoa-Schioppa che, nel governo Prodi 2006- 2008, provò a reintrodurre una forma di spending review seguita, negli anni più recenti, dalla stagione dei “commissari alla spesa pubblica”.

In tutti questi anni la spesa pubblica corrente aumentò sempre, le entrate ne seguirono affannosamente il percorso e gli investimenti pubblici furono dimezzati dopo il picco raggiunto nel 2008.

Il debito pubblico crebbe sempre e si colloca oggi oltre il 130% del Pil.

Ecco perché si dice “l'Italia al bivio sui tagli di spesa”.

La domanda è: la manovra appena presentata in Parlamento affronta questi nodi? La risposta degli autori che è ben difficile ipotizzare che i microcambiamenti contenuti nella manovra del governo determinino un innalzamento consistente nei tassi di crescita reale.

La domanda è se valga la pena di fare una manovra che ricorrendo per gran parte al maggior deficit per finanziare spesa corrente determina un profilo finanziario del Paese oggettivamente fragile e rischioso.

La proposta di spending review contenuta nel volume punta a concentrarsi su due specifiche voci di spesa, i cosiddetti fondi perduti, che valgono 61 miliardi, e gli acquisti di beni e servizi, inclusi i cosiddetti consumi intermedi, contabilizzati per 135 miliardi.

Si potrebbero ricavare risorse ingenti, cui potrebbe aggiungersi un serio lavoro di selezione delle cosiddette tax expenditures, così da convogliare le relative risorse a una vera riforma dell'Irpef.

L'invito degli autori è in sintesi a “rovesciare” il ragionamento partendo “prima” da dove prendere le risorse e “poi” indicare dove andarle a collocare.

giovedì 8 novembre 2018

17.000 abusi edilizi in un anno



Recentemente si è di nuovo accresciuta l’attenzione sul fenomeno dell’abusivismo edilizio. Tale fenomeno non riguarda solo il passato, purtroppo. Gli ultimi dati disponibili sono relativi al 2016. Secondo le stime del Cresme consulting, contenute nel rapporto Ecomafie 2017 di Legambiente, nel 2016 tra nuove costruzioni e ampliamenti di edifici esistenti gli abusi edilizi commessi in Italia sarebbero stati circa 17.000.

Il cemento illegale ha riguardato soprattutto la Campania che si è confermata la regione tristemente leader sotto questo aspetto, con il 17,3% dei reati, seguita dalla Puglia con il 10,1%, dalla Calabria con il 9,3% e dal Lazio con l'8,5%.

Ma sono numeri che non esauriscono il fenomeno, bensì rappresentano solo l'emersione dell'illegalità.

E sono numeri che non possono essere letti senza considerare il contesto generale, con i ripetuti tentativi di condono, a livello nazionale e in regioni calde come la Sicilia e la Campania, con l'attività di demolizione intrapresa da alcune Procure della Repubblica e da alcuni Comuni, con la vita sotto scorta di un sindaco, quello di Licata, che ha avuto l'ardire di abbattere le villette abusive sulla spiaggia per riportare un po' di legalità nella sua città. 

I circa 17.000 abusi vanno da Terracina a Civitavecchia, da Palermo al Salento, dalla Liguria all'arcipelago della Maddalena in Sardegna, dalle spiagge del Barese ad Agrigento: il cemento in Italia si impasta più facilmente se c'è la vista mare.

Villette, piscine, ristoranti, lidi, campeggi e resort, spesso costruiti direttamente sulla sabbia.

Un fenomeno che, spiega Legambiente, secondo un recente studio dell'Istat, nel decennio 2001-2011 ha fatto registrare quasi 18.000 nuovi immobili sulla costa, che sono andati ad aggiungersi a quelli preesistenti.

Il record per costruito lungomare spetta alla Puglia e alla Sicilia, con oltre 700 manufatti per chilometro quadrato, segue la Calabria con 600. Mentre alcuni dei più bei scorci del Meridione rimangono rovinati dagli ecomostri che vi si stagliano. 

Un caso celebre è la collina di Pizzo Sella, un milione di metri quadrati di cemento illegale su un'area a vincolo idrogeologico alle spalle del mare di Mondello.

“Centosettanta ville costruite dalla mafia degli anni ‘70 - ha rilevato Legambiente - e quasi tutte non finite perché bloccate dalla confisca e dall'ordine di demolizione disposti nel 2000 dal pretore di Palermo (decisione confermata dalla Corte d'appello nel 2001 e poi dalla Corte di Cassazione nel 2002, nonché da una sentenza del Tar della Sicilia).

I carabinieri che hanno messo i sigilli agli edifici e ai terreni l'hanno definita ‘una colossale speculazione immobiliare, che nasconde un’imponente operazione di riciclaggio di Cosa nostra’.

Alla fine del 1999 furono demolite 14 ville, ma poi le ruspe si fermarono e non ripartirono più”.

C'è poi il villaggi di Lesina a Torre Mileto: paese abusivo sull'istmo di Lesina, a Torre Mileto, in provincia di Foggia.

“A partire dagli anni Settanta - spiega ancora Legambiente - è sorta una cittadella fatta da migliaia di villini appoggiati sulla striscia di sabbia che divide il mare dal lago di Lesina. Case senza fondamenta, a pochi metri dal bagnasciuga.

Una vicenda che ancora oggi, nonostante le parole e le promesse, non è stata risolta. E questo nonostante molte di quelle case stiano letteralmente marcendo e non abbiano alcun valore di mercato, tanto che gli stessi eredi spesso non le ritengono un bene irrinunciabile. Così, ogni estate, le case di Torre Mileto tornano a ripopolarsi di vacanzieri abusivi”.

A Capo Colonna, nell'area archeologica crotonese, ci sono 35 costruzioni abusive sotto sequestro dalla metà degli anni Novanta “che sopravvivono indisturbate alle ruspe. La loro presenza - aggiunge ancora l'associazione ambientalista - oltre a impedire l'estensione del parco a tutto il sito archeologico, testimonia l'inerzia della Pubblica amministrazione che, nonostante la confisca definitiva, non si decide a buttarle giù. 

A Ischia poi le case abusive sono circa 600 “colpite da ordine definitivo di abbattimento sull'isola maggiore dello splendido arcipelago partenopeo.

Arriva a 27.000, invece, il saldo delle pratiche di condono presentate dagli abitanti in occasione delle tre leggi nazionali.

A eccezione di alcune sporadiche demolizioni portate a termine negli ultimi anni su disposizione della magistratura, ma anche dagli stessi proprietari, qui sopravvive un ecomostro di cemento illegale, spesso costruito senza nemmeno l'attenzione per la sicurezza degli abitanti in un territorio estremamente fragile. 

Cemento che si è aggiunto a cemento il modo incontrollato, occupando e indebolendo versanti che poi, sotto le forti piogge, spesso cedono trascinando a valle tutto quello che trovano sulla loro strada”.

mercoledì 7 novembre 2018

Amnesty International, codici identificativi per le forze di polizia



La sezione italiana di Amnesty International il 6 novembre ha rivolto un appello al ministro dell’Interno Matteo Salvini e al capo della Polizia Franco Gabrielli per lanciare una campagna affinchè le forze di polizia siano dotate di codici identificativi alfanumerici durante le operazioni di ordine pubblico.
La richiesta cade a distanza di 17 anni dal G8 di Geno­va del 2001: benché le violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani commesse in occasione di quell’evento siano state accerta­te in giudizio, molti fra gli appartenenti alle forze di polizia coinvolti sono rimasti impuniti, in parte proprio perché non fu possibile risalire all’identità di tutti gli agenti presenti.
Non è la prima volta che Amnesty Italia chiede l’utilizzo di codici identificativi ben visibili sulle uniformi degli agenti impegnati in attività di ordine pubblico.
Già nel 2011, in occasione del 10° anniversario del G8 di Genova, fu promossa la campagna “Operazione trasparenza. Diritti umani e polizia in Italia” in cui si chiedeva anche al Governo di esprimere pubblicamente una condanna e delle scuse verso le vittime per le violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze di polizia a Genova nel 2001 e di garantire indagini rapide e accurate e processi equi nei casi in cui c’era stata violazione dei diritti umani da parte delle forze di polizia.
Nel 2012 il Parlamento europeo approvò una risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’ Unione europea ) in cui, alla raccomandazione n. 192, si sollecitavano gli Stati membri “ a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”.
Diversi Stati dell’Unione europea hanno dato seguito a questa richiesta, ma non l’Italia.
Nel corso delle passate legislature, numerose iniziative parlamentari hanno sottolineato la necessità di rendere più agevole l’individuazione, laddove necessaria, dei singoli agenti adibiti a funzioni di ordine pubblico in occasione di manifestazioni.
Tuttavia queste proposte non hanno avuto esito positivo.
Amnesty Italia, pertanto, ritiene ormai urgente che sia varata una normativa in linea con gli standard internazionali, che preveda l’utilizzo di codici identificativi alfanumerici ben visibili sulle uniformi degli agenti impegnati in attività di ordine pubblico e che stabilisca che l’inosservanza di detto obbligo venga sanzionata.
L’auspicio di Amnesty è quello di intavolare un dialogo costruttivo con tutte le parti interessate, compresi i sindacati delle forze di polizia.
Alla campagna hanno aderito anche “A Buon Diritto”, Antigone, l’associazione Stefano Cucchi Onlus e Cittadinanzattiva.
“Questa campagna non è contro le forze di polizia, che sono attori chiave nella protezione dei diritti umani. Affinchè questo ruolo sia riconosciuto nella sua importanza e incontri la piena fiducia di tutti, è però fondamentale che eventuali episodi di uso ingiustificato o eccessivo della forza siano riconosciuti e sanzionati adeguatamente senza che si frappongano ostacoli all’accertamento delle responsabilità individuali” ha sottolineato Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia.
“L’introduzione di misure come i codici identificativi per gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico rappresenta non solo una garanzia per il cittadino, ma anche una forma di tutela per gli stessi appartenenti alle forze di polizia: una misura che non dovrebbe essere tenuta né avversata da chi svolge il proprio lavoro in maniera conforme alle norme e agli standard internazionali sui diritti umani”, ha concluso Marchesi.
Per sostenere questa richiesta della sezione italiana di Amnesty International si può firmare una specifica petizione utilizzando il link https://www.amnesty.it/appelli/inserire-subito-i-codici-identificativi/.