mercoledì 19 dicembre 2018

In calo gli italiani soddisfatti della propria vita



Nel VI rapporto Bes (benessere equo e sostenibile), presentato dall’Istat, arrancano i “domini” delle relazioni sociali, paesaggio e patrimonio culturale e benessere economico, istruzione, lavoro, ricerca e sviluppo, ambiente guadagnano terreno ma il gap con l’Europa è ancora significativo. Calano gli omicidi, alta la guardia per la violenza di genere. Servizi insoddisfacenti al Sud, migliorano però le speranze per il futuro, soprattutto tra i giovani. Però diminuiscono coloro che sono soddisfatti della propria vita.

In generale tutti i dodici ambiti del Bes (benessere equo e sostenibile), sono importanti per il popolo italiano, ma il punteggio più alto è attribuito agli aspetti legati alla salute mentre quello più basso va al dominio “politica e istituzioni”.

Malgrado però la “primaria” considerazione rivolta dagli italiani alla salute, nei fatti le cose non sono andate proprio così. 

Nel 2017 si interrompe il trend di crescita della speranza di vita, ma soprattutto procede con grande difficoltà la diffusione di stili di vita più salutari. Unica eccezione in positivo è la riduzione della percentuale di persone che non praticano alcuna attività fisica nel tempo libero (da 39,4% e 37,9%). Nonostante ciò, un maggiorenne su 5 è sia in eccesso di peso sia sedentario, due condizioni che, se compresenti, possono costituire un serio rischio per la salute.

Tuttavia, gli ultimi dati disponibili contenuti nel VI rapporto Bes dicono che la situazione nel complesso delle varie misure è in miglioramento: quasi il 40% degli indicatori per i quali è possibile il confronto con l’anno precedente mostrano una variazione positiva, mentre risultano inferiori ma significative le percentuali di quelli che peggiorano (31,8%) o rimangono sostanzialmente stabili (29,1%).

Tuttavia, nel complesso dei domini, la quota di indicatori che peggiorano è significativa (36,2%), evidenziando un gap rispetto al pieno recupero delle condizioni di benessere sperimentate prima dell’ultima crisi economica.

Ciò si verifica specialmente per i domini Relazioni sociali (unico elemento positivo è l’aumento delle istituzioni non profit attive in Italia, che crescono del 2,1% in un anno e sono 56,7 ogni 10 mila abitanti nel 2016), Paesaggio e patrimonio culturale (anche se le aziende agrituristiche, che svolgono un ruolo importante nello sviluppo rurale e nella difesa del territorio, sono sempre più diffuse (+3,3% rispetto all’anno precedente), l’indice di abusivismo edilizio è in leggera riduzione (19,4 costruzioni abusive ogni 100 autorizzate, contro le 19,6 del 2016) e la pressione esercitata sul paesaggio e sull’ambiente dalle attività di cave e miniere è in calo (nel 2016 -3% rispetto all’anno precedente), Benessere economico (che però torna ai livelli del 2010-2011 il reddito aggiustato lordo disponibile pro capite delle famiglie, che ammonta a 21.804 Ppa (Parità del Potere d’Acquisto), anche se risulta inferiore dell’1,7% alla media europea e del 7,8% alla media dell’area Euro).

Anche se la situazione generale è dunque in lieve ripresa, il gap con l’Europa rimane consistente.

Ad esempio, i principali indicatori dell’istruzione e della formazione si mantengono molto inferiori alla media europea. Particolarmente critica la dinamica dell’uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione (14% dei giovani di 18-24 anni) in crescita dopo 10 anni di ininterrotta diminuzione, specialmente al Nord.

Il digital divide, poi, misurato in termini di competenze digitali, penalizza fortemente gli anziani, che dichiarano competenze avanzate solo nel 3% dei casi. Ne deriva, per questa fascia di popolazione, una esclusione generalizzata dai vantaggi della società dell’informazione.

Anche sul fronte del lavoro, malgrado i livelli di occupazione dei 20-64enni (62,3%) aumentino, il ritmo di crescita è decisamente più lento rispetto a quello medio europeo (72,2%), con un divario più ampio per le donne.

Le condizioni del Mezzogiorno rimangono comunque difficili: in Sicilia la quota di mancata partecipazione al mercato del lavoro raggiunge il 40, 8%, un valore dieci volte maggiore rispetto a quello registrato nella provincia autonoma di Bolzano. 

Lievi miglioramenti si registrano per la sicurezza sul lavoro: il tasso di infortuni mortali e inabilità permanente continua a ridursi, raggiungendo nel 2016  quota 11,6 infortuni per 10.000 occupati
(era 12,1 nel 2015).

Anche la spesa in ricerca e sviluppo sul Pil è in aumento nel 2016 (+0,1%) così come gli investimenti in prodotti della proprietà intellettuale (+2,1% nel 2017), ma anche in questo caso permane un ampio gap rispetto ai livelli registrati nel resto dei Paesi europei.

Migliora però nel 2017 il saldo tra entrate e uscite dei giovani laureati italiani, con il tasso migratorio che passa a -4,1 per mille (da -4,5 per mille nel 2016).

Il Nord si conferma l’area del Paese che offre maggiori opportunità ai giovani con alto livello d’istruzione (+7,7 per mille) mentre si registra una diminuita capacità del Centro di attrarre e trattenere giovani laureati (-2,9, da -2,4 nel 2016) e una sostanziale stabilità del Mezzogiorno, dove prosegue la perdita di giovani laureati (-23 per mille).

Aumenta anche la percentuale della raccolta differenziata, che nel 2017 raggiunge il 55,5% del totale (tre punti in più dell’anno precedente e 20 punti in più del 2010). Nonostante il miglioramento, la quota è ancora lontana dall’obiettivo del 65%, fissato per il 2012 dalla direttiva comunitaria 2008/98/CE, raggiunto soltanto nel Nord (66,2%)

Peggiora invece la qualità dell’aria nelle città, si per le polveri sottili Pm10 sia per il biossido di azoto. Le città più inquinate sono quelle del Nord, dove due centraline su tre hanno superato i limiti per Pm10 e una su quattro per No2.

Peggiorano anche gli indicatori di rischio idrogeologico: nel 2017 il 2,2% della popolazione è esposta al rischio di frane e il 10,4% al rischio di alluvioni.

Stabili invece le emissioni responsabili dell’effetto serra, stimate in 7,2 tonnellate pro capite come nell’anno precedente

Sul piano della sicurezza prosegue il calo degli omicidi (nel 2017 sono 0,6 per 100.000 abitanti)  e migliora, seppure leggermente, anche la percezione di sicurezza: le persone che si dichiarano molto o abbastanza sicure di camminare al buio da sole nella zona in cui vivono sono il 60,6% nel 2016 (erano il 59,6% nel 2009).

Si conferma la necessità di una particolare attenzione nei confronti delle violenze di genere: l’80,5 delle donne uccise è vittima di una persona che conosce (nel 43,9% dei casi di una partner o un ex partner). Nel 2017, 49.152 donne si sono rivolte a un centro antiviolenza. 

Segnali negativi sul fronte dei servizi dove il 7,6% delle famiglie dichiara molta difficoltà a raggiungere tre o più servizi essenziali nel 2015-2017. L’accesso ai servizi è molto difficile per il 10,5% delle famiglie nel Mezzogiorno e solo per il 5,5% di quelle nel Nord.

Meglio non va per i trasporti: nel 2017 la soddisfazione per i servizi di mobilità segna una contrazione, con solo il 16,4% degli utenti assidui dei mezzi pubblici che si dicono molto soddisfatti del servizio (17,8% l’anno precedente). Particolarmente critica la situazione nel Lazio, dove solo il 3,%% degli utenti abituali si dichiara molto soddisfatto. 

In questo quadro la soddisfazione per la propria vita, espressa dagli italiani, presenta un nuova flessione nel 2017. Sono meno soddisfatte le donne (38,6% contro il 40,6% degli uomini) e gli anziani (33,9% delle persone di 75 anni e più, 52,8% tra i 14 e i 19 anni).

Nonostante tutto, però, migliorano le aspettative per il futuro: in lieve aumento la quota di individui che ritiene che la propria situazione migliorerà nei prossimi 5 anni (27,2%), sostanzialmente stabile quella dei pessimisti (15%). 

E i giovani sono quelli che nutrono maggiori speranze per il futuro.

7 italiani su 10 non sanno cos'è il biotestamento



E’ passato un anno dall’approvazione della legge sul biotestamento, ma la Dat (la disposizione anticipata di trattamento) è ancora semisconosciuta. Quasi il 54% delle persone ne ha sentito parlare solo superficialmente e il 18% non ne sa nulla: quindi “non pervenuta” in sette casi su 10 e solo il 28% dice di conoscerla bene.

L’indagine voluta da Vidas (associazione di assistenza gratuita ai malati terminali) e svolta da Focus Mgmt rivela inoltre come il testamento biologico venga molto spesso equiparato all’eutanasia. 

Dodici mesi dopo, la legge continua a polarizzare l’opinione pubblica fra chi vi vede la promozione dei diritti e della dignità della persona e chi la considera come un passo verso la liberalizzazione del suicidio.

La legge approvata definitivamente il 14 dicembre 2017, ma entrata in vigore il 31 gennaio 2018 permette a chi lo desidera di mettere a punto e registrare il Dat, la dichiarazione anticipata di trattamento che registra le decisioni relative alle terapie e ai trattamenti sanitari cui ci si vuole (o non ci si vuole) sottoporre nel caso in cui non si sia più in grado di esprimere le proprie scelte a causa di malattie o lesioni invalidanti.

La legge auspica inoltre (ma non c’è alcun obbligo) l’individuazione di un fiduciario, ossia di una persona che rappresenti il titolare del biotestamento nelle relazione con il medico e con le strutture sanitarie.

La legge è però ancora poco conosciuta e spesso sono proprio i Comuni dove il Dat, ossia la disposizione di autorizzazioni al trattamento (il “biotestamento”) va registrato a non essere in grado di fornire informazioni adeguate.

I dati emergono dalla ricerca Focus Mgmt per Vidas sulle percezioni relative al testamento biologico e ha coinvolto un campione di 400 cittadini lombardi.

Anche chi è favorevole al biotestamento tende a posticipare la decisione. Non sembra il momento giusto sia quando ci si ritiene troppo giovani ma anche quando si pensa di essere ormai troppo vecchi. Solo 3 persone su 10 pensano al fine vita.

D’altronde non è certo facile confrontarsi con il tema della “propria” morte. Quello del testamento biologico è un argomento estremamente delicato che, come tutti i temi etici, coinvolge i i valori e il credo religioso delle persone. E la ricerca lo rivela, mettendo in luce che la contrarietà aumenta fra chi si dichiara credente e diminuisce fra i laici.

Secondo l’indagine parte dei cattolici italiani considera la legge contraria ai principi della propria fede e ritiene che la decisione sulla propria morte sia in conflitto con il volere di Dio.

Anche l’età ha un peso: ad esprimere un giudizio favorevole sono infatti soprattutto i giovani.

Ma si tratta anche di un tema etico “nuovo”, ossia posto (e causato) dai progressi della tecnica e dei trattamenti sanitari, ormai (fortunatamente) capaci di dare speranze di vita o di allungarne la durata in modi fino a qualche anno fa inimmaginabili.

A complicare il quadro c’è poi la disinformazione.

Una situazione che favorisce la sovrapposizione con l’altro delicatissimo tema dell’eutanasia.

Se il 70% degli intervistati è mediamente favorevole al biotestamento, il 63% teme che sia uno step verso l’eutanasia, ossia la morte volontaria di malati terminali o cronici in presenza o con l’assistenza di un medico (eutanasia attiva).

La maggior parte delle persone (quasi l’82%) è venuta a conoscenza della legge tramite la televisione. A colpire sono soprattutto le storie e i casi famosi.

I soggetti considerati più affidabili sono però le associazioni non profit e la Chiesa cattolica, seguiti dagli operatori del mondo sanitario, mentre le formazioni politiche, sia di destra che di sinistra, non sono viste come punti di riferimento.

L'Africa finanzia il resto del mondo



“L’Africa finanzia il resto del mondo per l’ammontare di 41,3 miliardi di dollari l’anno”. E’ quanto emerge dal nuovo rapporto “Honest Accounts 2017. Come il mondo beneficia della ricchezza dell’Africa”, frutto dell’impegno congiunto dell’organizzazione britannica di cittadinanza attiva Global Justice Now, del movimento internazionale per l’annullamento del debito dei paesi più poveri Jubilee Debt Campaign e di un gruppo di Ong europee e africane.

Il sorprendente dato è originato dall’esame dei flussi economici e finanziari di 47 paesi africani. Il risultato è che nel 2015 il continente ha ricevuto 161,6 miliardi dollari sotto forma di prestiti internazionali, aiuti allo sviluppo e rimesse dei migranti, mentre l’ammontare complessivo delle uscite è stato pari a 202,9 miliardi di dollari.

Nello specifico, i Paesi africani hanno ricevuto circa 19 miliardi di dollari in sovvenzioni e aiuti allo sviluppo, ma più del triplo di questi fondi, 68 miliardi, è uscito dal continente in attività finanziarie illecite.

Di questa enorme fetta di torta, corrispondente a oltre il 6% del Pil dell’intera Africa, una buona parte, 48,2 miliardi di dollari, è legata al cosiddetto fenomeno del “trade misinvoicing”, ossia alle false fatturazioni commerciali delle multinazionali.

A questa cifra, inoltre, vanno aggiunti 32,4 miliardi di dollari di profitti delle multinazionali  che, semplicemente, vengono riportati nei Paesi dove le società hanno la loro sede. Nulla di illegale, in questo caso, ma comunque un altro grosso pezzo di ricchezza creata in Africa e goduta altrove.

E poi ci sono il rimborso del debito da parte di governi e settore privato (quasi 30 miliardi in tutto), gli utili inviati nei paradisi fiscali dopo aver sfruttato le risorse africane, la pesca e la caccia di frodo, il disboscamento illegale.

Senza contare l’effetto di impoverimento prodotto dal cosiddetto “brain drain”, ossia la perdita di giovani talenti africani, che migrano a causa dei dissesti naturali e dei conflitti.
Il vero ruolo degli aiuti esteri.

Gli autori del rapporto sono molto critici sul ruolo esercitato dagli aiuti esteri erogati dai governi occidentali nel continente, sostenendo che spesso si tratta semplicemente di finanziamenti per promuovere la privatizzazione dei servizi pubblici, il libero scambio e gli investimenti privati.

“Se lo scopo degli aiuti è quello di supportare lo sviluppo dell’Africa, dovrebbe allora essere slegato da interessi corporativi occidentali”, si  afferma nello studio.

Viene poi evidenziato che l’Africa ha un grande potenziale minerario ed energetico, manodopera qualificata, nuove imprese in forte espansione, un vasto mercato interno e una straordinaria biodiversità. 

La sua popolazione dovrebbe dunque prosperare, mentre l’economia del continente dovrebbe crescere con tassi annuali a doppia cifra, pari ad almeno il doppio del 5% attuale.

Al contrario, molte persone che vivono nei 47 Paesi presi in esame restano intrappolate nella povertà, mentre gran parte della ricchezza del continente defluisce sistematicamente verso i Paesi più sviluppati, in gran parte ex colonizzatori.

La relazione rileva inoltre le responsabilità che i governi occidentali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno nel depauperamento del continente, per avervi introdotto politiche economiche che alimentano la povertà.

Per esempio, lo studio descrive come le compagnie estrattive che esportano minerali, gas e petrolio, ottengono ingenti profitti pagando esigue tasse grazie a rilevanti incentivi fiscali. Misure tributarie mirate, messe in atto dai governi occidentali per favorire generose riduzioni delle imposte alle multinazionali.

Sono prese in esame con estrema attenzione anche le perdite associate agli effetti avversi del cambiamento climatico, nonostante l’Africa abbia contribuito in misura irrisoria allo storico accumulo dei gas a effetto serra, rispetto ai Paesi sviluppati.

Il costo di adattamento per prevenire l’impatto del cambiamento climatico nel continente è stimato in 10,6 miliardi all’anno, mentre per la mitigazione dei fenomeni ad esso correlati sarebbero necessari circa altri 26 miliardi, nei quali è compresa l’adozione di sistemi di conversione dell’energia da fonti rinnovabili

Un processo di  trasformazione molto più oneroso rispetto all’Europa o all’America, perché in Africa mancano le infrastrutture e la tecnologia necessarie.

Arrivando alle conclusioni, la ricerca dimostra che quello di cui i Paesi africani hanno veramente bisogno è che il resto del mondo fermi i saccheggi retaggio dell’epoca coloniale, la cui natura di base rimane invariata. Per questo, gli aiuti internazionali andrebbero riconsiderati come una sorta di risarcimento per i danni causati al continente.

I ricercatori di Honest Accounts non formulano però solo critiche, ma propongono anche alcune soluzioni concrete.

Tra queste, un maggiore coinvolgimento della società civile del continente e di quella dei Paesi che beneficiano della sua ricchezza per contrastare la corruzione, eliminare le politiche fiscali svantaggiose e i troppi squilibri che impediscono lo sviluppo dell’Africa.

Quanto incide la corruzione sulla crescita economica



L’associazione “Riparte il futuro” ha condotto, insieme a I-Com - Istituto per la Competitività, uno studio volto a capire quanto e in che misura la corruzione incide sullo sviluppo economico del nostro Paese. Si intitola “Italia interrotta, il peso della corruzione sulla crescita economica”. 

Una sintesi dello studio è contenuta nella sua parte iniziale.

Il capitolo 1 fornisce una panoramica dei fenomeni corruttivi in Italia. Essi presentano dimensione rilevante, che si riflette nella percezione comune.

Il capitolo 2 indaga il primo dei tre temi oggetto dello studio, cioè la relazione tra corruzione e Investimenti Diretti Esteri (Ide) in entrata in Italia.

Si approfondisce il rapporto tra la qualità delle Istituzioni e la competitività di un sistema economico.

A questo scopo si utilizza l’European Quality of government Index (Eqi). Appare evidente una correlazione significativa tra lo stock di Ide e l’Eqi per i 28 Paesi dell’Ue.

Oltre alle consistenze di Ide, si prendono in considerazione alcuni indici che riassumono la capacità di uno Stato di creare le condizioni per sostenere l’attività d’impresa e quindi la ricettività rispetto agli investimenti esteri, come l’Ease of Doing Business (Edb) e il Global Competitiveness Index (Gci).

Si verifica una correlazione positiva e significativa tra l’Eqi e la facilità nel fare business nei 28 Stati Ue.

Per quanto riguarda la dimensione italiana, si è posto in relazione l’Eqi con il numero di multinazionali presenti nelle regioni italiane e con la quota di multinazionali sul totale delle imprese attive in ogni regione.

E’ il secondo dato a risultare maggiormente sensibile alla qualità delle istituzioni regionali.

In modo simile, si passa a verificare la relazione tra fenomeni corruttivi, per cui si ricorre al Cpi, e la ricezione di investimenti diretti esteri.

Si riscontra una correlazione negativa significativa tra il livello di corruzione percepito e il volume di investimenti diretti esteri per Stato.

Nel capitolo 3 si indaga la relazione tra corruzione e occupazione, in particolare quella giovanile, in Italia.

Si evince una correlazione positiva tra il tasso di occupazione giovanile per le regioni italiane e il rispettivo Eqi.

A un più alto livello di qualità dell’amministrazione e a un più basso livello di corruzione, pertanto, corrispondono tassi di occupazione giovanile più elevati.

In modo analogo, si riscontra una correlazione negativa a livello regionale tra l’Eqi e il tasso di disoccupazione, sia complessivo sia per la fascia d’età 25-34 anni, e tra l’Eqi e la quota di Neet nella fascia d’età 15-34 anni.

In conclusione del capitolo, si indaga il rapporto tra investimenti diretti esteri e disoccupazione. In quest’ambito, si ritrova una correlazione positiva tra la quota di multinazionali sul totale delle imprese attive nelle regioni italiane e il rispettivo tasso di occupazione, e una correlazione negativa tra la quota di multinazionali e il tasso di disoccupazione.

A una quota maggiore di multinazionali presenti in regione, pertanto, vengono associati un tasso di occupazione giovanile più alto e un tasso di disoccupazione giovanile più basso. 

Il capitolo 4 analizza il terzo tema oggetto dello studio: l’esistenza di una relazione tra corruzione e sviluppo digitale di un Paese.

Pur non essendo ancora del tutto chiaro il nesso di casualità, di sicuro appare ormai acclarato che più i Paesi possiedono sistemi digitali efficaci ed efficienti, meno subiscono il peso deleterio della corruzione, e viceversa.

La seconda sezione del capitolo propone un’analisi statistico-econometrica della relazione esistente tra corruzione e digitalizzazione.

La correlazione tra digitalizzazione di un Paese - misurata dal Desi (Digital Economy and Society Index), l’indice elaborato dalla Commissione Europea per valutare lo stato di avanzamento degli Stati membri dell’Ue verso un’economia e una società digitali - e corruzione – misurata dal Cpi (Corruption Perception Index), elaborato da Transparency International - appare forte e positiva (+88,6%).

Inoltre, l’analisi non esclude la possibilità di un legame inverso - per cui, cioè, la corruzione stessa limiti in qualche modo la capacità di un Paese di svilupparsi in maniera adeguata sul piano digitale.

Infine, si suggeriscono alcune misure di policy per contrastare la corruzione rispetto ai tre temi affrontati (investimenti esteri, occupazione con particolare riguardo a quella giovanile e digitalizzazione).

Riguardo gli investimenti esteri, si propone:

a. la stipula di un accordo tra la cabina di regia Ice-Invitalia e l’Anac perché sui progetti di investimento seguiti dalla prima ci sia una vigilanza continua utile non solo a prevenire episodi di corruzione ma anche a segnalarli efficacemente e con la massima urgenza qualora si presentino;

b. un fast track per denunce di corruzione da parte di imprese estere operanti in Italia, possibilmente con una linea dedicata presso l’Anac, che sia in grado di fornire consigli e suggerimenti in lingua inglese (oltre a raccogliere le segnalazioni);

c. in una cornice più macro, una semplificazione delle procedure di ingresso degli operatori esteri sul mercato italiano, tali da ridurre la base di possibili episodi di corruzione.

Rispetto all’occupazione giovanile e alle politiche del lavoro necessarie a contrastarla, vanno assicurati:

a. il ricorso generalizzato a procedure di call ad evidenza pubblica rivolte al bacino di iscritti nelle apposite liste presso le direzioni provinciali del lavoro;

b. l’uso di forme di alert, in base a caratteristiche chiave del cv, per i potenziali interessati alle differenti call, in modo tale da evitare che alcuni bandi siano appositamente nascosti o non adeguatamente pubblicizzati;

c. lo sviluppo il più possibile avanzato di forme elettroniche di marketplace, basate su algoritmi che consentano il miglior match possibile tra competenze offerte (e opportunità di lavoro ricercate) e bisogni delle aziende;

d. il divieto per le amministrazioni pubbliche di ogni livello e per le relative società in house di assumere personale per chiamata diretta (senza bando), anche mediante contratti non strutturati (es. co.co.co o partita IVA), nei 6 mesi che precedono le scadenze elettorali nonché nei 6 mesi successivi.

Va infine accelerato il processo di digitalizzazione, in particolare della P.A., con misure che al contempo aiutino il contrasto alla corruzione, tra le quali:

a. la tracciabilità delle attività svolte dalle singole P.A. e la possibilità di poterla facilmente confrontare con la performance di altre amministrazioni comparabili, attraverso open data che consentano questo tipo di confronti;

b. sistemi di rating delle amministrazioni pubbliche, basati su giudizi di cittadini e imprese sull’efficienza ma anche sul livello di trasparenza e correttezza amministrativa;

c. inoltre, ogni amministrazione di dimensione adeguata (es. Governo nazionale, Regioni, Città metropolitane) dovrebbe avere l’obbligo di dotarsi di uno sportello per raccogliere (anche o esclusivamente attraverso lo strumento telematico) denunce di corruzione, alle quali garantire il pieno anonimato nonché un riscontro entro tempi certi;

d. mappatura e messa in trasparenza delle interazioni tra portatori di interesse e centri nevralgici delle amministrazioni (ministeri, uffici di gabinetto, uffici di diretta collaborazione), attraverso l’adozione del cosiddetto “legislative footprint”, che riporti la cronologia, gli attori e l’oggetto degli incontri in seno ai processi legislativi e regolamentari;

e. obbligo di disponibilità online dei bilanci dei partiti e delle fondazioni o associazioni legate a partiti o personalità politiche che ricoprono cariche pubbliche nel presente o le hanno ricoperte nel recente passato (negli ultimi cinque anni), insieme a una rendicontazione dettagliata dei finanziamenti ricevuti;

f. estensione della prassi consolidata, attualmente solo presso le autorità indipendenti, di procedere a consultazioni pubbliche, attraverso internet, in concomitanza con l’adozione di nuovi regolamenti.

Mense scolastiche, un diritto per tutti i bambini



L’accesso alle mense scolastiche dovrebbe essere un diritto per tutti i bambini. In realtà ciò non si verifica in Italia. Di qui la richiesta di Save the Children che con la nuova legge di bilancio quell’accesso diventi davvero un diritto per tutti i bambini.

“A tutti i bambini deve essere garantito senza differenziazioni e discriminazioni il servizio della mensa scolastica con standard alimentari di qualità.

Si colga l’occasione della proposta inserita nella legge di bilancio di estendere il tempo pieno fino a generalizzarlo, per porre finalmente mano al tema e assicurare il servizio almeno a tutti i bambini delle scuole primarie”.

Lo ha affermato Raffaela Milano, direttore dei programmi Italia-Europa di Save the Children.

Oggi due fatti importanti hanno messo in evidenza le criticità che ancora oggi un servizio fondamentale come la mensa scolastica vive nel nostro Paese.

Il Tribunale di Milano ha segnato un passo di civiltà con l’obbligo imposto al Comune di Lodi di riformare il regolamento che impediva di fatto l’accesso alle agevolazioni al servizio per le famiglie di origine straniera, ponendo in essere un grave discriminazione.

Al tempo stesso i risultati di un’indagine condotta dai Nas hanno rilevato le gravi carenze di qualità nell’offerta alimentare di molti istituti.

Save the Children si batte da anni affinchè il diritto alla mensa scolastica di qualità sia garantito a tutti i bambini e le bambine.

Nel 2017, solo il 51% degli alunni della scuola primaria in Italia ha avuto accesso ad una mensa, con disparità enormi nei sistemi di refezione scolastica e una distanza sempre maggiore tra Nord e Sud, dove si registra il numero più alto di alunni che non usufruiscono della refezione scolastica (81% in Sicilia, 80% in Molise, 74% in Puglia), come risulta dall’ultimo rapporto di Save the Children “(Non) Tutti a Mensa!”.

“La mensa svolge una funzione educativa ed è uno strumento efficace per combattere la dispersione scolastica – ha proseguito Milano -. 

Nel nostro Paese ci sono un milione e 200.000 bambini e adolescenti in condizioni di ‘povertà assoluta’, un’offerta alimentare di qualità in uno spazio adeguato permette di assicurare, almeno una volta al giorno, un pasto nutriente e bilanciato”.

“Accesso alle mense, qualità dell’offerta alimentare, costi per le famiglie, a parità di condizioni economiche, sono differenziati da un Comune all’altro, e dimostrano come sia diffusa la diseguaglianza e il mancato accesso ai diritti nel nostro Paese.

L’obiettivo è quello di intraprendere un percorso che porti a considerare il servizio di mensa scolastica non come un’offerta accessoria a domanda individuale ma come un servizio pubblico essenziale” ha concluso Raffaela Milano.

giovedì 13 dicembre 2018

Gli orribili primi 200 giorni del governo per l'economia



I dati Istat sul terzo trimestre certificano che il Pil italiano scende per il calo di consumi e investimenti causato dal peggioramento delle aspettative, mente l’export ha ripreso a tirare. E’ ora che il governo smetta di fare danni e dia invece una mano, correggendo la manovra in senso più prudente.

Questa è l’opinione dell’economista Francesco Daveri espressa in un articolo pubblicato su www.lavoce.info.

Così continua Daveri:

“Tre mesi fa, dopo i primi cento giorni del governo del cambiamento scrissi su questo sito un pezzo che era già tutto contenuto nel suo titolo: ‘Cento giorni senza fare niente per l’economia sono troppi’.

Osservavo che con segnali di rallentamento dell’economia evidenti già a inizio anno i vice premier e i loro ‘consiglieri economici’ avevano preferito baloccarsi con chiacchiere estive da social network sull’uscita dall’euro e altre idee futuribili piuttosto che provare a riflettere su come sostenere l’economia in modo pratico senza scassare i conti e far ripartire lo spread.

Il pezzo coglieva necessariamente solo una parte delle conseguenze del governo attuale per l’economia. D’altronde dopo 100 giorni come giudicare già un governo che arrivava dopo - si diceva - decenni di malgoverno?

Ora di giorni ne sono passati duecento e qualcosa di più si è visto. In particolare è diventato più chiaro che il nuovo governo non si è limitato a non fare nulla ma ha anche già fatto molti danni.

Ci sarà tempo per valutare con attenzione gli effetti sul mercato del lavoro del cosiddetto ‘decreto dignità’ (per non rassegnarsi alla rifondazione del vocabolario effettuata in questi mesi bisogna sempre aggiungere un ‘cosiddetto’ prima di riportare la denominazione delle politiche in via di attuazione) così come dell’ottovolante dello spread di queste settimane sul costo del credito per le aziende e sul costo e sulla disponibilità di mutui per le famiglie.

Ma l’economia intanto sta già mandando segnali chiari e forti.

I dati del terzo trimestre di quest’anno dicono che il Pil è leggermente diminuito rispetto al trimestre precedente.

Quando era uscita la stima preliminare dell’Istat sul terzo trimestre il premier Giuseppe Conte si era affrettato a precisare che l’Italia stava rallentando ‘ma non per colpa nostra’. E’ l’Europa che rallenta, diceva l’autoproclamato ‘avvocato difensore del popolo’.

I dati definitivi del terzo trimestre raccontano una storia differente. Il calo del Pil viene dal calo della domanda interna privata, cioè dal calo degli investimenti e dal calo dei consumi, sia di quelli durevoli che di quelli non durevoli, mentre la componente estera è tornata a crescere (+1% circa rispetto al trimestre precedente, dopo due trimestri molto negativi).

Questi pochi numeri contraddicono le affermazioni del premier Conte.

Non è proprio tutta l’Europa che rallenta, ma solo l’Italia e la Germania, mentre ad esempio Francia e Spagna - come il resto del mondo - continuano a marciare, il che non descrive un quadro di un’Europa o di un mondo che sta entrando in recessione.

Chi rischia di entrare in recessione è l’Italia.

I brutti numeri della Germania (-0,2% rispetto al trimestre precedente per il Pil tedesco) frenano sicuramente il nostro export. Ma rimane che l’export italiano del terzo trimestre è andato bene. Mentre ad andare male sono consumi e investimenti, ad alimentare i quali sono le aspettative.

E le aspettative delle imprese e dei manager che fanno gli acquisti (nel grafico sotto) sono negative da mesi e il loro segno meno si è appuntito nel mese di ottobre. Il che non promette niente di buono per il quarto trimestre dell’anno.

Se è la domanda interna che va male (a differenza che negli anni passati), mentre la domanda estera è tornata a riprendersi viene il sospetto che ci sia qualcosa che è stato fatto in questi mesi che non è stato ben accolto da famiglie e imprese quando prendono le loro decisioni.

Un segno che la proposta di legge di bilancio non è stata un macigno solo sullo stomaco dell’Europa e dei mercati ma anche su quello del popolo italiano che si vuole tutelare a parole ma non nei fatti.

Non è troppo tardi però per scrivere una vera ‘manovra del popolo’.

Bisogna prima di tutto tornare indietro sui numeri del deficit mandati in Europa, riducendo al 2% quello per il 2019 e indicando un rapido ritorno a un sentiero di riduzione del deficit strutturale.

Nel farlo bisogna poi scrivere numeri più credibili per la crescita che si può plausibilmente ottenere con gli attuali chiari di luna.

Con una politica di bilancio più prudentemente espansiva per il 2019 scenderebbe un po’ lo spread e soprattutto la borsa potrebbe recuperare.

Non ci sarebbe bisogno di predisporre muscolari piani di salvataggio per le banche. Certo bisognerebbe rinviare il ‘vaste programme’ della cancellazione della povertà a un’altra data, ma almeno famiglie e imprese potrebbero guardare al Natale e alla fine del Qe della Bce con maggiore serenità.

Sarà una missione impossibile?”.

Gli obiettivi che il governo, secondo Daveri, si dovrebbe proporre, potrebbero realizzarsi. Infatti, il governo ha recentemente promesso all’Unione europea di contenere il deficit al 2% del Pil.

Ma non credo proprio che in questo modo il nostro Paese nel 2019 riuscirà a crescere ad un tasso più elevato di quanto viene previsto da varie istituzioni e autorità, nonché centri di ricerca, autonomi e autorevoli, raggiungendo almeno un tasso pressocchè uguale al tasso medio dell’Ue.

Sarebbe infatti necessario cambiare notevolmente la qualità della manovra, contenendo l’aumento della spesa pubblica corrente (e ciò significherebbe non realizzare sia il reddito di cittadinanza che la quota 100 per le pensioni) e accrescendo notevolmente gli investimenti.

E gli azionisti di maggioranza del governo, cioè Salvini e Di Maio, non intendono affatto modificare nel senso da me indicato la manovra.

mercoledì 12 dicembre 2018

Amnesty International, il governo italiano viola i diritti umani



Secondo Amnesty International, in base a quanto rilevato da Elisa De Pieri e Matteo De Bellis, ricercatori dell’ufficio regionale per l’Europa dell’associazione, il governo italiano si è reso colpevole di gravi violazioni dei diritti umani, relativamente alle politiche portate avanti nei confronti dei migranti.

Infatti, per chi da anni osserva la situazione nel Mediterraneo centrale, rotta che decine di migliaia di donne, uomini e bambini hanno percorso a bordo di barche fatiscenti, in particolare dal 2013 al 2017, per sfuggire a guerre e persecuzioni o alla ricerca di un futuro più dignitoso, il 2018 si è contraddistinto come “l’anno della Diciotti”.

Oltre ai drammatici incidenti in mare, purtroppo già accaduti in passato, nel 2018 il nuovo governo italiano insediatosi a giugno ha infatti deciso di assicurare e spettacolarizzare il blocco di nuovi arrivi di persone straniere via mare, fino a impedire a una nave della guardia costiera italiana, la Diciotti, di sbarcare in Italia persone soccorse in mare, trattenendole per giorni senza una base legale o un ordine della magistratura.

Oltre a violare la proibizione di detenzione arbitraria ai danni di 177 persone, l’incidente della Diciotti ad agosto ha rappresentato il culmine della politica dei “porti chiusi”, che il governo ha attuato senza averla deliberata né formalmente comunicata alle autorità competenti e senza riguardo né per la salute e la sicurezza delle persone coinvolte, né per i propri obblighi internazionali.

Dopo il rifiuto di sbarcare imposto alle navi di diverse Ong e a navi commerciali e militari straniere, col caso Diciotti si è arrivati al paradosso del rifiuto allo sbarco nei confronti di una nave militare italiana, il cui personale aveva adempiuto ai propri obblighi di soccorso dettati da leggi nazionali e internazionali.

Ma c’è di più.

Col caso Diciotti si è chiuso il cerchio di una strategia, efficacemente riattivata dal governo precedente ma originariamente intrapresa (benché con mezzi parzialmente diversi) già dal governo Berlusconi, che si poneva il medesimo obiettivo finale: la riduzione degli approdi di rifugiati e migranti in Italia mediante la delega del controllo delle frontiere marittime italiane ed europee alle autorità libiche.

Dieci anni fa, con la firma di un trattato di amicizia tra Italia e Libia, il governo Berlusconi diede inizio a una politica di cooperazione per il controllo delle frontiere che, sorretta da argomenti politici molto simili agli attuali, prevedeva la cessione di imbarcazioni dall’Italia alla Libia e culminò con lo scempio dei respingimenti verso la Libia, ossia lo sbarco in un luogo pericoloso di persone intercettate in mare.

Tale politica, che violava palesemente il diritto internazionale, fu interrotta a seguito del conflitto in Libia ma questo non esonerò l’Italia nel 2012 da una pesantissima condanna da parte della Corte europea dei diritti umani, proprio per quei respingimenti le cui vittime erano state riconsegnate alla Libia e dunque esposte al rischio di subire nuove violenze e abusi.

Cinque anni fa, in reazione all’orrore per le 368 vittime del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e soltanto otto giorni dopo per le oltre 200 vittime del così detto “naufragio dei bambini”, che mostrò come i rimpalli di competenze con Malta potevano costare la vita a centinaia di persone, il governo Letta scelse di lanciare una grande operazione umanitaria, Mare Nostrum, per soccorrere in mare quante più persone possibile.

Mare Nostrum, andando a rafforzare il costante impegno della guardia costiera italiana, garantì il salvataggio di decine di migliaia di vite, abbassando notevolmente il tasso di mortalità in mare e ridando onore a corpi dello stato ancora feriti dall’onta dei respingimenti e della relativa condanna.

Per fare fronte all’aggravarsi della crisi dei rifugiati siriani e al collasso dello stato libico, l’Italia e l’Unione europea avrebbero dovuto accompagnare questo primo passo, di tipo umanitario, con riforme strutturali delle loro politiche migratorie, che comprendessero l’apertura di canali sicuri e regolari per rifugiati e migranti, in misura adeguata alla gravità della situazione.

Ciò avrebbe potuto limitare il numero di persone che, nella pressoché totale assenza di opportunità di ottenere un visto per entrare in Europa regolarmente, rischiavano la vita nella pericolosissima traversata del Mediterraneo centrale.

Purtroppo, le continue richieste in questo senso da parte del mondo non-governativo e dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, rimasero inascoltate.

L’Italia, spalleggiata dagli altri governi europei, preferì investire su politiche di chiusura. Alla fine del 2014, Mare Nostrum fu sostituita con operazioni europee di carattere securitario e militare (Triton e, dall’estate 2015, EunavForMed Sophia), per le quali il salvataggio in mare, pur rimanendo tra i compiti necessari perché imposti dal diritto internazionale, non costituiva più la finalità principale della missione.

Dal 2016, Italia ed Europa iniziarono a investire nel rafforzamento della capacità delle autorità marittime libiche di pattugliare le loro coste, intercettare in mare rifugiati e migranti diretti verso l’Europa e riportarli in Libia, oltre che a stringere accordi informali con milizie coinvolte nel traffico dei rifugiati e migranti.

Questa strategia ha prodotto i risultati che si prefiggeva, riducendo partenze e arrivi: da luglio 2017, il numero di rifugiati e migranti approdati in Italia è diminuito drasticamente, passando dai 182.877 registrati nei 12 mesi precedenti (agosto 2016 – luglio 2017), ai 42.700 dei 12 mesi successivi (agosto 2017 – luglio 2018). Al minor numero di partenze è corrisposto anche, logicamente, un numero minore di vittime in mare.

Gli effetti di questa politica sono però stati drammatici per le persone riportate in Libia, non solo perché le autorità libiche non sono ancora in grado di tutelare le persone che intercettano in mare e spesso le maltrattano (come nel caso di Josefa, la donna ritrovata in mare dalla Ong Proactiva Open Arms lo scorso luglio) ma soprattutto perché quelle persone vengono sbarcate in Libia e immediatamente trasferite in centri di detenzione, dove vengono trattenute arbitrariamente e a tempo indefinito, in assenza di un ordine e di qualunque controllo giurisdizionale, e dove sono sistematicamente esposte a condizioni agghiaccianti oltre che a torture, stupri, maltrattamenti e sfruttamenti di ogni tipo.

Violazioni dei diritti umani, queste, di cui l’Italia si è resa complice perché, pur conoscendo la situazione, ha continuato a offrire aiuto materiale a chi le perpetra e non ha richiesto alle autorità libiche di porre fine agli abusi, come condizione previa per la fornitura di tale assistenza.

A partire dal 2017, la guardia costiera libica, forte del decisivo supporto italiano e dell’Unione europea, è stata in grado di intercettare in mare una fetta crescente di coloro che partivano. Migliaia di donne, uomini e bambini sono stati poi riportati nei centri di detenzione in Libia e sottoposti a maltrattamenti spietati.

Di fronte a questa situazione, nel 2018, il governo Conte avrebbe potuto fare la cosa giusta, usando l’influenza italiana in Libia per promuovere un’agenda di riforme focalizzata sulla protezione dei diritti umani nel paese, a partire dalla chiusura dei centri di detenzione per rifugiati e migranti, e investendo nella riforma delle politiche migratorie italiane ed europee e nell’apertura di canali sicuri e regolari per rifugiati e migranti, compresi quelli imprigionati in Libia.

Purtroppo, la decisione è stata invece quella di continuare a ergere muri per fermare una “crisi migratoria” che, visto il netto calo degli approdi in Italia già dal 2017, ormai esiste solo nelle dichiarazioni di politici disonesti e sulle colonne di giornali di propaganda.

Le conseguenze della politica dei “porti chiusi” e della complementare strategia di criminalizzazione e denigrazione delle Ong, sono ormai evidenti: con l’annichilimento delle flotte non governative votate al soccorso in mare, nei mesi estivi si è registrato uno spaventoso aumento del tasso di mortalità in mare, che ha addirittura superato il 20% a settembre, oltre che delle persone trattenute arbitrariamente nei centri di detenzione in Libia, passate dalle 4.400 di marzo alle 10.000 di agosto.

Nel frattempo, il governo Conte si è ben guardato dal portare avanti anche quelle minime misure positive per alleviare le sofferenze dei rifugiati intrappolati in Libia, che il governo precedente aveva tentato, in particolare con l’evacuazione di 312 rifugiati dalla Libia in Italia tra dicembre 2017 e febbraio 2018. Negli otto mesi successivi alle elezioni di marzo, il governo italiano non ha realizzato alcuna evacuazione, fino a quella di 44 rifugiati, avvenuta il 7 novembre.

L’ostilità del governo verso i diritti delle persone straniere si è manifestata anche con l’adozione del così detto decreto sicurezza a settembre e degli emendamenti allo stesso presentati dal governo durante la sua successiva conversione in legge.

La drastica riduzione della possibilità di offrire uno status regolare temporaneo a persone che non possono essere rimpatriate, pur non essendo giuridicamente qualificabili come rifugiate, significa che queste si trovano ad affrontare lunghi periodi di irregolarità e inevitabilmente di deprivazione materiale ed esclusione sociale.

La riduzione dell’accoglienza dignitosa dei richiedenti asilo nei centri Sprar si tradurrà probabilmente in maggiori ostacoli all’inclusione di queste persone e in un rafforzamento dell’immagine di rifugiati e richiedenti asilo come problema da contenere in centri separati dalla comunità ospitante.

Il linguaggio istituzionale, poi, nel 2018 si è incattivito, in particolare attraverso la vera e propria crociata fatta sui social network del ministro dell’Interno nei confronti di rifugiati e migranti, delle associazioni che li assistono e financo di rappresentanti istituzionali che hanno cercato di suggerire forme per la loro migliore integrazione, come il sindaco di Riace, o di tutelarne i diritti contro gli abusi dello stato, come il procuratore di Agrigento.

Questa continua diffusione d’odio ha contribuito a creare condizioni propizie per la preoccupante serie di crimini d’odio contro persone di colore, quali la tentata strage di Macerata a febbraio e altri crimini violenti riportati dalla stampa durante l’anno, da Sassari a Brindisi, da Aprilia a Morbegno, da Castel Volturno a Moncalieri.

venerdì 7 dicembre 2018

Quanto costano i rifiuti...



302 euro, a tanto ammonta in media nel 2018 la tassa dei rifiuti nel nostro Paese, con differenze territoriali molto marcate: tra la regione più economica e quella più costosa si registra uno scarto di oltre il 120% e fra la provincia meno cara e quella più cara addirittura di oltre il 270%. Campania la regione più costosa (422 €), Trentino Alto Adige la più economica (188 €). Questi alcuni dati forniti dall’osservatorio prezzi e tariffe di Cittadinanzattiva.

Analizzando le tariffe a livello regionale, si evidenzia un aumento in ben 10 regioni, con la Basilicata che registra l’incremento più elevato (+13,5% nella sola città di Matera) e una diminuzione in 6 regioni, in particolare in Molise (-4,9%) e in Trentino Alto Adige (-4,5%).

A livello di aree geografiche, i rifiuti costano meno al Nord (in media 256 euro), segue il Centro (301 euro), infine il Sud (357 euro).

Il Trentino Alto Adige si conferma la regione più economica, con una tassa rifiuti media di 188 euro, la Campania la più costosa con 422 euro annuali.

Confrontando i singoli capoluoghi di provincia, Belluno, seppur con un piccolo incremento, si conferma la città più economica (153 euro all’anno), mentre a Trapani, che registra un aumento del 49% rispetto all’anno passato, spetta il primato di più costosa (571 euro).

“Ancora una volta la nostra indagine restituisce la fotografia di un Paese con marcate differenze territoriali in termini di produzione di rifiuti, raccolta differenziata e costi sostenuti dalla cittadinanza. I nostri dati concordano con l’indagine Istat secondo la quale il 70% delle famiglie italiane ritiene eccessiva la spesa per la raccolta dei rifiuti, percentuale che supera l’80% relativamente alle regioni del Sud e delle isole”, ha commentato i dati in questione Antonio Gaudioso segretario generale di Cittadinanzattiva.

Inoltre, secondo il rapporto rifiuti urbani 2017 dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) in Italia nel 2016 sono state prodotte 30,1 milioni di tonnellate di rifiuti urbani con un aumento del 2% rispetto all’anno precedente. La regione che ha una produzione pro capite di rifiuti urbani più alta è l’Emilia Romagna (653 kg l’anno) mentre la più bassa è la Basilicata (354 kg).

La maggioranza dei rifiuti urbani in Italia è prodotta nel Nord (47%) seguito dal Sud con il 31% e infine dal Centro (22%). L’incremento più alto della produzione pro capite rispetto alla precedente rilevazione è quello registrato nel Veneto (+9,2%) mentre in Liguria si assiste alla diminuzione più significativa (-2,7%).

Buone notizie per la raccolta differenziata: nel 2016 (ultimo anno disponibile) secondo dati Ispra,  siamo arrivati a livello nazionale al 52,5% (+5% rispetto al 2015), mentre un quarto dei rifiuti finisce in discarica.

La differenziata aumenta in tutte le Regioni; le più virtuose sono Veneto e Trentino Alto Adige con oltre il 70%, Lombardia e Friuli Venezia Giulia con poco meno del 70%. Le regioni fanalino di coda sono invece la Sicilia, l’unica a non raggiungere la soglia del 20%, e il Molise (28%). In Calabria e Basilicata invece è aumentata di oltre l’8% la percentuale di raccolta differenziata.

giovedì 6 dicembre 2018

Empori solidali, cosa e quanti sono


Nel 1° rapporto di Caritas Italiana e Csvnet sugli empori solidali è contenuta la mappatura di 178 “negozi” attivi e almeno 20 in avvio: più della metà aperti nell’ultimo triennio. Nel 2017 servite 30.000 famiglie e 105.000 persone, per un quarto sotto i 15 anni. Oltre 100.000 le ore annuali di servizio, garantite finora da 5.200 volontari. Sono 178 gli empori solidali attivi in Italia, distribuiti in 19 regioni; e almeno altri 20 sono pronti ad aprire entro il 2019.

Sono questi i dati principali contenuti nel primo rapporto sul fenomeno realizzato da Caritas Italiana e Csvnet, l’associazione dei centri di servizio per il volontariato.

Gli empori sono una forma avanzata di aiuto alle famiglie che vivono situazioni temporanee di povertà; spesso costituiscono un’evoluzione delle tradizionali e ancora molto diffuse (e indispensabili) distribuzioni di “borse-spesa”.

Si tratta di un modello che ha conosciuto una crescita impressionante nell’ultimo triennio: il 57% degli empori (102) ha aperto tra il 2016 e il 2018, quota che sale al 72% se si considera anche l’anno precedente.

Il primo è nato nel 1997 a Genova, mentre è dal 2008, con le aperture degli empori Caritas a Roma, Prato e Pescara, che il modello ha cominciato ad affermarsi.

Nel realizzare questa prima mappatura - che servirà ad aprire la strada a diversi approfondimenti futuri - Caritas Italiana e Csvnet hanno circoscritto i servizi da indagare in base a quattro caratteristiche comuni, pur nella varietà delle esperienze:

l’aspetto e il funzionamento simile a negozi o piccoli market;

la distribuzione gratuita di beni di prima necessità, resi disponibili da donazioni o acquisti, tra i quali i beneficiari possono liberamente scegliere in base ai propri bisogni e gusti;

l’essere in rete con altre realtà del territorio per l’approvvigionamento e/o l’individuazione dei beneficiari;

il proporre, insieme al sostegno materiale, altri servizi di orientamento, formazione, inclusione e socializzazione.

Nella quasi totalità dei casi gli empori sono gestiti da organizzazioni non profit, spesso in rete fra loro: per il 52% sono associazioni (in maggioranza di volontariato), per il 10% cooperative sociali, per il 35% enti ecclesiastici diocesani o parrocchie, per il 3% enti pubblici.

Il ruolo di questi ultimi, quasi sempre Comuni (300 quelli coinvolti), è riconosciuto da quasi tutti gli empori in ordine all’accesso e l’accompagnamento dei beneficiari. Le Caritas diocesane hanno un ruolo in 137 empori (in 65 casi come promotrici dirette); i Csv lo hanno in 79 empori, offrendo prevalentemente supporti al funzionamento.

Gli empori sono aperti per 1.860 ore alla settimana per un totale di oltre 100.000 ore all’anno. La maggioranza apre 2 o 3 giorni alla settimana (non consecutivi); privilegiati i giorni infrasettimanali, mentre 37 sono aperti anche il sabato.

Dall’apertura al 30 giugno 2018 tutti gli empori attivi hanno servito più di 99.000 famiglie e 325.000 persone, di cui il 44% straniere. Una utenza anagraficamente molto giovane: il 27,4% (di cui un quinto neonati) ha meno di 15 anni, appena il 6,4% supera i 65.

Prendendo in considerazione solo il 2017, le famiglie beneficiarie sono state oltre 30.000 e le persone 105.000.

L’accesso agli empori avviene in base alla verifica delle condizioni di difficoltà utilizzando combinazioni di documenti (soglia Isee, Irpef) e colloqui individuali.

Le famiglie fanno la spesa gratis utilizzando in più di 150 una tessera (elettronica o manuale) a punti da scalare; in altri empori si utilizzano sistemi simili. Più dei tre quarti degli empori pongono un limite temporale di accesso, rinnovabile per almeno una volta, con l’obiettivo di sostenere le famiglie in difficoltà economica.

A questo scopo, l’86% degli empori presta ulteriori servizi ai beneficiari: come accoglienza e ascolto, orientamento al volontariato e alla ricerca di lavoro, terapia familiare, educativa alimentare o alla gestione del proprio bilancio, consulenza legale ecc.

Inoltre, il 55% delle strutture propone ai beneficiari lo svolgimento di attività di volontariato, sia all’interno che presso altre realtà fuori.

Le dimensioni e le caratteristiche degli empori sono piuttosto disomogenee.

Il costo mensile per la gestione oscilla tra 0 e 28.000 euro, tuttavia più del 70% si attesta nella fascia tra 1.000 e 4.500 euro. A pesare maggiormente sono le voci di costo relative all’acquisto diretto dei beni (circa 40%) e personale (per il 22%).

Sono più di 1.200 (soprattutto supermercati e piccola distribuzione alimentare) le imprese che collaborano direttamente con gli empori. Da esse proviene il volume maggiore dei beni che verranno messi a disposizione sugli scaffali, anche se non tutti ne usufruiscono: il “fornitore” che accomuna la quasi totalità delle strutture è infatti il terzo settore, anche se questa voce è spesso correlata a raccolte di beni negli esercizi privati da parte di organizzazioni non profit del territorio, in particolare il Banco Alimentare. Da registrare che sono 134 gli empori che dichiarano una quota più o meno alta di acquisto diretto.

Notevole la varietà dei beni in distribuzione. Accanto agli alimenti non deteriorabili, già presenti nei “pacchi” distribuiti sul territorio, gli empori riescono a disporre e hanno la capacità di gestire, mantenendo tutti i requisiti di igiene e sicurezza del prodotto: alimenti freschi e ortofrutta (in 124 servizi), alimenti cotti (in 30) e surgelati. Ma anche prodotti per l’igiene e la cura della persona e della casa (in 146 empori), indumenti (in 50), fino ai prodotti farmaceutici, ai piccoli arredi e agli alimenti per gli animali. Molto presenti infine prodotti per bambini e ragazzi: giocattoli (disponibili in 62 realtà), articoli per la scuola e prodotti di cancelleria (in 92) e soprattutto alimenti per neonati (in 150).

Infine i dati sulle risorse umane.

Quella degli empori è una storia di volontari, che sono presenti in tutte le strutture. Sono stati 5.200 (32 in media) quelli dichiarati nell’attività di questi anni e 3.700 (21) quelli attivi al momento della rilevazione.

I volontari svolgono tutte le mansioni:  dall’approvvigionamento alla distribuzione, dall’amministrazione al coordinamento e naturalmente alla governance. Interessante la partecipazione di volontari stranieri, presenti fino ad oggi in quasi la metà degli empori ed oggi in un terzo, con una media di 4 per servizio.

Sono 178 gli operatori retribuiti al momento della rilevazione, dichiarati da 83 empori: 54 di questi ha solo personale part-time; le persone a tempo pieno sono 49 distribuite nei restanti 29 empori, mentre sono 44 i giovani in servizio civile.

“La complessità della povertà esclude a priori la presunzione di chiunque di disporre di una soluzione epocale”, affermano nelle riflessioni conclusive il direttore di Caritas Italiana don Francesco Soddu e il presidente di Csvnet Stefano Tabò.

Tuttavia il rapporto mette in luce tre punti di forza del “modello” empori solidali.

Il primo è il suo essere “nato dalla capacità di mettere in discussione prassi consolidate di aiuto materiale”: di fronte a persone e bisogni diversi da quelli tradizionali ci sono state “comunità capaci di scegliere alleanze inedite per costruire un servizio nuovo”. E ad attivare questa capacità “c’è sempre, come protagonista, un volontariato che sa costantemente cambiare e adattarsi”, insieme a imprese, professionisti, associazionismo non esclusivamente sociale, scuola, fino ai privati cittadini.

Il secondo è la caratteristica degli empori di essere un servizio non solo “benefico”, ma anche rigoroso e competente: negli iter di accesso, nei sistemi di attribuzione del punteggio, nel definire “patti di accompagnamento” delle persone. Caratteri che li distinguono dai servizi “mordi e fuggi” di pura assistenza materiale, qualificandoli come tessere di percorsi più stabili di contrasto all’esclusione sociale.

Gli empori infine costituiscono il “terminale di un sistema che provvede all’aiuto materiale nell’ambito di interventi fortemente relazionali e promozionali. Al collegamento pressoché costante ad un servizio di ascolto, si aggiungono le proposte di laboratori, percorsi formativi e culturali, non di rado aperti a tutta la cittadinanza: dalla cucina con gli avanzi alla gestione del bilancio familiare; dal risparmio energetico al piccolo artigianato; dalle riparazioni al cucito e al bricolage; fino al sostegno allo studio e all’educazione alimentare di cui beneficiano - anche in termini di possibilità di riscatto - soprattutto i bambini”.

Sarà ora importante investire su alcune linee cruciali di approfondimento del fenomeno, su cui Soddu e Tabò confermano l’impegno dei due soggetti. Le prime quattro che vengono indicate sono: le caratteristiche dei beneficiari e la loro permanenza del servizio; la sostenibilità economica degli empori; il contrasto allo spreco, non solo alimentare; le dinamiche e il ruolo svolto.