domenica 30 aprile 2017

Con i robot la fine del lavoro e della festa dei lavoratori?



Sempre più spesso si ipotizza che con la diffusione dei robot, con l’intensificazione della cosiddetta rivoluzione digitale, se non si assisterà, come sostengono i più pessimisti, alla fine del lavoro, si potrà verificare una consistente riduzione del numero degli occupati e, di conseguenza, a un aumento di dimensioni molto rilevanti del numero dei disoccupati e di quello di coloro che non cercheranno più un lavoro, definiti dagli economisti inattivi.

Effetto di queste previsioni è l’elaborazione di proposte diverse, spesso poco credibili e talvolta anche fantasiose, quali una forte riduzione delle ore di lavoro, ben maggiore di quella ipotizzata in passato e cioè le 35 ore, l’iniziale svolgimento di un’attività lavorativa a titolo gratuito da parte dei giovani, lo stesso reddito di cittadinanza.

Al di là delle valutazioni esprimibili su queste ed altre proposte simili, al di là degli altri obiettivi, oltre quello prioritario connesso all’aumento degli occupati, che potrebbero anche essere considerati positivamente, a mio avviso non è possibile ritenere che con certezza nel breve e nel medio periodo si assisterà ad una riduzione strutturale degli occupati e quindi anche ad un inevitabile aumento dei disoccupati, sempre di natura strutturale.

Infatti già con la rivoluzione industriale, soprattutto, e con gli altri processi di innovazione tecnologica che si verificarono successivamente, le tesi secondo le quali sarebbe avvenuta una fortissima e definitiva crescita dei disoccupati,  furono sempre smentite.

Infatti, dopo un primo periodo più o meno lungo nel quale effettivamente si assistette ad un incremento della disoccupazione, poi si crearono nuove attività lavorative che determinarono un aumento consistente dell’occupazione.

Perché, con la rivoluzione digitale, con la diffusione dei robot, non dovrebbe essere possibile, se non probabile, il verificarsi della stessa situazione, quanto meno nel medio periodo?
Nel lungo periodo, come sosteneva Keynes, è meglio non avventurarsi, perché come affermò il grande economista inglese “saremo tutti morti”.

Peraltro, nel breve periodo, dopo la crisi economica che ebbe inizio nel 2007-2008, che ha determinato un considerevole aumento dei disoccupati, ora un po’ dappertutto il numero degli occupati è aumentato di nuovo, determinando così una riduzione della disoccupazione.

Certo, se si considerano i Paesi dell’Unione europea, la situazione del mercato del lavoro è piuttosto diversificata. Non posso che fare riferimento all’Italia, dove si è verificato sì un aumento degli occupati e una riduzione dei disoccupati, ma il numero dei disoccupati rimane più elevato rispetto a quanto avviene in altri Paesi, soprattutto per quanto riguarda la disoccupazione giovanile.

Ma questi problemi italiani non hanno niente a che fare con la rivoluzione digitale ma hanno altre cause, tra cui una delle più importanti è lo squilibrio economico territoriale tra Nord e Sud, insieme all’insufficiente crescita economica.

In conclusione, è possibile che anche dopo il grande processo di innovazione tecnologica a cui assistiamo e a cui assisteremo, si creeranno nuove attività lavorative che compenseranno quelle che scompariranno.

E’ comunque auspicabile che si promuovano politiche pubbliche che agevolino la creazione di nuovi lavori.


E, pertanto, è più che probabile che anche in futuro ci sia ancora la festa dei lavoratori, il 1° maggio di ogni anno.

mercoledì 26 aprile 2017

Le grandi responsabilità degli italiani nel genocidio degli ebrei


“Italiani brava gente”. Si utilizza spesso questa espressione, in contesti diversi, ed anche per sostenere che le responsabilità degli italiani nel genocidio degli ebrei, nella shoah, siano state pressocchè nulle. In realtà non sembra che sia stato così, le responsabilità degli italiani, in primo luogo ovviamente dei fascisti, sono state maggiori di quanto comunemente si crede.

Questa, peraltro, è la tesi credibile sostenuta nel libro dello storico Simon Levis Sullam “ I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945”, pubblicato da Feltrinelli nel 2015.

Per conoscere i principali contenuti del libro in questione, ho ritenuto opportuno fi riportare alcune delle risposte di Simon Levis  Sullam contenute in un intervista rilasciata a “Il fatto quotidiano”.

Chi furono i “carnefici italiani”? Chi operò materialmente gli arresti, avviando gli ebrei alla deportazione?

I documenti dimostrano un largo coinvolgimento delle forze dell’ordine: polizia, carabinieri, guardia di finanza. E dei corpi politico-miltari del fascismo: la guardia nazionale repubblicana, la milizia, le bande (nel libro sono citate in particolare le famigerate bande Koch, Muti, Carità, ndr). Ma ci furono anche molti civili che denunciarono i vicini di casa. Poi i responsabili della burocrazia che faceva funzionare la macchina, Comuni compresi. Non tutti ebbero le stesse responsabilità, ma tutti erano consapevoli di partecipare a un progetto persecutorio e senza il loro contributo quel progetto non sarebbe stato possibile. La burocratizzazione dello sterminio è un concetto da applicare non soltanto alla Germania, ma anche all’Italia.

Che responsabilità possono essere attribuite direttamente, secondo lei, a Benito Mussolini?

Gli storici hanno dimostrato che ci fu una scelta personale di Mussolini, già nel 1938, di introdurre il razzismo come fondamento dello Stato fascista. E ancora, nel 1943-45 ogni decisione passava da lui. Già prima che nascesse la Repubblica sociale italiana, Mussolini era informato che si stava compiendo la Shoah. A Salò sapevano quale sarebbe stato il destino degli ebrei che venivano arrestati e deportati. I ministri come Guido Buffarini Guidi (sottosegretario all’Interno nel governo fascista e ministro nella Repubblica sociale, ndr) erano informati, e anche alcuni ideologi. In particolare Giovanni Preziosi, che era stato in Germania e parlava chiaramente, anche per l’Italia, di “soluzione alla tedesca” della questione ebraica. Più difficile dire quale fosse la consapevolezza ai livelli più bassi. Ma lo sfruttamento del lavoro coatto era previsto ufficialmente dal regime, quindi tutti potevano immaginare a quali condizioni di vita andassero incontro gli ebrei denunciati e arrestati. E comunque che fosse un’azione persecutoria era ben chiaro a tutti. Anche solo la concentrazione di migliaia di famiglie nei campi italiani, primo fra tutti Fossoli, poteva portare alla loro decimazione.

Il suo libro è ricco di nomi e casi. Chi furono secondo lei i maggiori responsabili della “via italiana” allo sterminio?

Giovanni Preziosi fu l’ideologo più radicale. Fin dagli anni Venti propugnava l’antisemitismo. Fu lui a far tradurre in italiano i “Protocolli dei Savi di Sion”. Poi tornò in voga con la Repubblica sociale, guidò l’ispettorato generale per la razza, elaborò nuove proposte più aspre e radicali. Cito poi figure meno note come Giovanni Martelloni, capo dell’ufficio affari ebraici di Firenze, che si occupò sia di arrestare ebrei e di sequestrare i loro beni sia di scrivere articoli e pamphlet antisemiti.

Nel libro affronta anche il tema del sequestro dei beni. Ci fu una molla economica nella complicità italiana allo sterminio?

Fu un passaggio fondamentale. Caratterizzò già la fase del 1938. Le leggi razziali ridussero le attività economiche di professionisti e docenti, per esempio. Poi dal ’43 si passò al sequestro dei beni, e questo ci dice qualcosa sulla consapevolezza che il destino degli ebrei arrestati fosse segnato. E’ una caratteristica di tutti i genocidi, la dimensione particolarmente meschina della ricerca del guadagno. Una parte dei persecutori era motivata da ambizioni di arricchimento, rappresentato da beni e taglie. La Repubblica sociale normò i sequestri, ma è dimostrato che parti consistenti furono incamerate da autorità locali. Il poliziotto che si intascava i gioielli, il federale che si insediava nell’appartamento, il prefetto che si prendeva mobilio, lenzuola, in un caso persino un pianoforte. Le persone che sono tornate hanno avuto restituito solo quello che era possibile, in prevalenza gli immobili. Chi non è tornato ha lasciato tutto ai suoi persecutori.

In più ci furono i delatori, che non avevano neppure la “giustificazione”, se così si può chiamare, degli “ordini da eseguire”.

Dietro ogni arresto c’era una denuncia. Il tardo autunno ’43 e le fasi successive furono segnate da denunce di famiglie che si nascondevano. Alla base c’erano incentivi economici, regolamenti di conti personali, vendette, possibilità di accaparrare beni. Gli imprenditori che denunciavano i loro soci in affari incameravano tutta l’azienda. Ci furono studenti che denunciarono i loro professori. Il fenomeno, secondo me, riguardò migliaia di italiani comuni, che tradirono loro concittadini ebrei.

Nel dopoguerra questi crimini restarono quasi del tutto impuniti. Perché?

Alla base ci fu l’amnistia-colpo di spugna di Togliatti del 1946, ma il reato di persecuzione antiebraica non esisteva. In alcuni casi fu considerato come aggravante. Molti adottarono come linea difensiva il fatto che allora quelle azioni erano previste dalla legge. Allo stesso tempo, però, a Norimberga si elaborava il concetto di crimine contro l’umanità. Noi non lo recepimmo e le responsabilità, senza un riconoscimento giudiziario, rimasero nascoste. Inoltre la magistratura si era formata durante il fascismo ed era corresponsabile. Il presidente del tribunale della razza Gaetano Azzariti divenne negli anni Cinquanta presidente della Corte costituzionale. So di un recente appello per rimuovere il suo busto dalla sede della Corte.

Impunità giudiziaria a parte, lei parla di “colpevole oblio”. E addirittura di una sorta di corsa a riconoscere i “Giusti” che si prodigarono per salvare gli ebrei, dimenticandosi dei carnefici. 

Nell’immediato dopoguerra si comincia a costruire il mito del bravo italiano contrapposto ai cattivi tedeschi. Si voleva far dimenticare che l’Italia era entrata in guerra insieme ai nazisti per realizzare il nuovo ordine mondiale. E che l’Italia aveva inventato il fascismo in Europa e lo aveva insegnato ai tedeschi. L’oblio che ha colpito la complicità nella Shoah è simile a quello che ha riguardato il colonialismo, l’attività militare nei Balcani, la repressione della resistenza in Jugoslavia e i nostri campi in quel Paese. In parte è comprensibile, a volte l’oblio è necessario. Ma oggi si è diffusa un’immagine benevola del fascismo, e le sue colpe non sono riconosciute, non solo riguardo alla Shoah.

domenica 23 aprile 2017

Anche i magistrati sbagliano, troppo spesso


Chi critica l’operato dei magistrati italiani viene accusato, frequentemente, di farlo per mettere in discussione la loro necessaria indipendenza. Ma non sempre è così. Spesso le critiche sono più che giustificate e riguardano esclusivamente il merito delle loro decisioni.

La scelta di scrivere questo post l’ho compiuta dopo aver appreso di una sentenza del tribunale di Torino, apparentemente di rilievo secondario ma a mio avviso importante invece, con la quale l’Inail è stata condannato a corrispondere una rendita vitalizia ad un lavoratore perché l’uso eccessivo del cellulare, imposto di fatto dall’azienda presso cui svolgeva la propria attività, sarebbe stato la causa del tumore al cervello che lo ha colpito.

Ora, non è provato scientificamente che l’uso del cellulare può determinare il verificarsi di malattie anche molto gravi. Vi sono tesi contrastanti. E non è affatto detto quindi che la perizia, senz’altro utilizzata dal giudice per quella sentenza, sia affidabile.

Del resto in passato altri giudici hanno imposto che fossero adottate terapie mediche, del tutto prive di efficacia, da quelle di Di Bella, per la cura dei tumori, a quelle di Vannoni, il cosiddetto metodo Stamina.

In questi casi non si può che concludere che le decisioni dei magistrati siano state completamente sbagliate.

Passando ad altre problematiche oggetto di attenzione dei magistrati, non si può non rilevare, che alcuni di loro, più volte, hanno promosso inchieste che si sono, alla fine, rivelate del tutto infondate, e che a costoro è stato consentito di continuare ad operare nello stesso modo.

E’ poi inconcepibile che una procura di limitate dimensioni come quella di Trani abbia deciso di effettuare diverse indagini su problematiche finanziarie molto complesse, delle quali dovrebbero semmai occuparsi o procure di maggiori dimensioni o addirittura specializzate.

Spesso, inoltre, i magistrati si sono sostituiti al Parlamento, su argomenti molto importanti, non solamente quando il Parlamento non ha legiferato e o ha legiferato male su determinate questioni.

Talvolta i giudici, sulla stessa materia, prendono decisioni  non solo diverse ma addirittura opposte.

E’ vero, in Italia ci sono diversi gradi di giudizio, si può ricorrere in appello e poi presso la Cassazione, ma se si intende effettuare i ricorsi necessari si devono avere a disposizione molte risorse finanziarie, che non tutti hanno, e poi le decisioni finali si verificano anche dopo molti anni.

Aggiungo inoltre che in Italia già se si viene indagati, questo vale ovviamente per i personaggi pubblici, si viene ritenuti, generalmente, colpevoli, e quindi i magistrati dovrebbero essere più attenti nel promuovere delle inchieste le quali, oggettivamente, avranno delle conseguenze importanti, anche di natura politica.

Per non parlare delle intercettazioni telefoniche che, spesso, vengono diffuse anche prima di diventare atti pubblici. E, frequentemente, sono gli stessi magistrati a renderle note ai giornalisti.

Quindi, a mio avviso, i magistrati sbagliano, in misura eccessiva, soprattutto forse per un loro eccesso di protagonismo.

Non si deve avere alcun timore a sostenerlo.

Sarebbe opportuno attuare maggiori e più efficaci controlli, da parte dei loro superiori, da parte del loro organo di autogoverno, il Csm (Consiglio superiore della magistratura), al cui interno però hanno un notevole peso i rappresentanti dei magistrati, o meglio i rappresentanti delle varie “correnti” presenti fra i magistrati, e per questo motivo non sempre disponibili a sanzionarli.

Una cosa è comunque certa: sarebbe necessario che il numero degli errori compiuti dai magistrati italiani si riducesse, considerevolmente.

Dubito però che questo avvenga in tempi brevi.

mercoledì 19 aprile 2017

La produttività del lavoro in forte diminuzione

Recentemente l’Istat ha fornito i dati sull’andamento della produttività del lavoro nel 2016. Si è verificata una forte riduzione pari all’1,2%, mentre nell’anno precedente la diminuzione era stata dello 0,2%. Fra i Paesi dell’Unione europea solo la Grecia ha fatto peggio dell’Italia. E tale notevole riduzione deve essere valutata in modo fortemente negativo.

Negli ultimi 20 anni la produttività del lavoro ha avuto in Italia un andamento quasi stabile. Infatti il tasso medio di crescita è stato pari allo 0,3%.

Sarebbe stato necessario che nel 2016 la produttività del lavoro fosse aumentata e in misura consistente.

Invece è avvenuto il contrario.

Ora se la produttività del lavoro si riduce, e in misura notevole, non è possibile che il Pil aumenti considerevolmente, e infatti nel 2016 l’incremento del Pil è stato molto lieve.

E di conseguenza, con una riduzione della produttività del lavoro, è impossibile che l’occupazione aumenti notevolmente.

Quindi un forte aumento della produttività del lavoro dovrebbe essere uno degli obiettivi prioritari della politica economica del governo, nonché dell’azione degli operatori privati.

E per realizzare un rilevante incremento della produttività del lavoro sarebbero necessari interventi volti ad intensificare il processo di innovazione tecnologica, a migliorare la qualità del capitale umano - soprattutto tramite interventi sul sistema formativo -, ad adeguare le regole contrattuali e le relazioni industriali.

Peraltro sarebbe opportuno accrescere anche la produttività totale dei fattori (che considera sia il lavoro che il capitale), riducendo il peso del fisco sull’economia e della burocrazia, aumentando il tasso di concorrenza, l’efficienza della giustizia e il livello degli investimenti pubblici e privati.

Di questi interventi per aumentare la produttività si parla da anni e, per la verità, anche recentemente, il governo ha varato alcuni provvedimenti senz’altro utili, ma insufficienti, mentre sarebbero indispensabili provvedimenti molto più incisivi.

E’ necessario riconoscere, peraltro, che parte di questi provvedimenti auspicati possono esercitare effetti sulla crescita economica non nel breve periodo. Ma alcuni sì e, comunque, quelli che produrranno effetti nel medio periodo vanno ugualmente realizzati, in quanto la politica economica deve avere anche un’ottica di medio periodo.

E, ribadisco, se nei prossimi anni, la produttività del lavoro continuerà a diminuire, sarà impossibile che la crescita economica si intensifichi e che la disoccupazione si riduca considerevolmente.

domenica 16 aprile 2017

Il testamento di Davide che ha scelto l'eutanasia in Svizzera


Davide Trentini ha scelto il suicidio assistito, l’eutanasia, in Svizzera come Fabo e come Fabo è stato accompagnato da alcuni rappresentanti dell’associazione Luca Coscioni, in questo caso da Mina Welby, insieme a Marco Cappato. Trentini era malato di sclerosi multipla dal 1993. Ritengo opportuno riportare la lettera di addio di Davide, di fatto il suo testamento, senza ulteriori considerazioni. Mi sembra più che sufficiente.
“Mi chiamo Davide T., ho 52 anni, sono malato di sclerosi multipla dal 1993, per i primi anni in forma più tollerabile, poi, la ‘stronza’ si è trasformata nella forma ‘più stronza’: la secondaria progressiva.
Negli anni, le ho provate veramente tutte, dagli interferone, prima quello settimanale, poi quello che mi auto iniettavo (allora le mani funzionavano!) ogni due giorni, poi è cominciato l’orribile periodo della chemio!!! Insomma, le ho provate proprio tutte.
Ora da 1,92 sono diventato uno sgorbio con le gambe lunghe, gobbo fino quasi in terra, ma soprattutto dolori lancinanti e veramente insopportabili h24. Ormai passo tutti i giorni, ma proprio tutti, o in bagno sul water, o sul letto in qualche maniera, con la pasticca all’oppio per cercare di calmare i dolori.
Non ce la faccio proprio più senza nessuna prospettiva, ogni giorno sto sicuramente peggio del giorno prima, e dopo una lunghissima riflessione ho deciso di andare in Svizzera per il suicidio assistito, devo ringraziare enormemente l’associazione Luca Coscioni, che ha fatto una raccolta fondi per aiutarmi nella spesa, e soprattutto Marco Cappato, sempre pronto ad aiutarmi anche dal punto di vista umano.
Spero tanto che l’Italia diventi un paese più civile, facendo finalmente una legge che permetta di porre fine a sofferenze enormi, senza fine, senza rimedio, a casa propria, vicino ai propri cari, senza dover andare all’estero, con tutte le difficoltà del caso, senza spese eccessive.
Spero anche che in Italia si arrivi presto alla legalizzazione, o almeno all’uso terapeutico della marijuana. Io sono, abitando in Toscana, tra i pochi in Italia a ricevere puntualmente le mie cartine di marijuana tramite l’Asl, con ricetta del medico, e conosco molto bene i suoi benefici, per fortuna sono quasi 20 anni che conosco molto bene le grandi ‘doti’ della Maria.

Tra poco partirò per la mia tanto sognata ‘vacanza’!!! Evviva, salute per tutti e soprattutto tanta ma tanta serenità per tutti”.

mercoledì 12 aprile 2017

No alla pena di morte, soprattutto in Cina


E’ stato reso pubblico il rapporto sulla pena di morte relativo al 2016, redatto da Amnesty International. Tale rapporto è ancora un lungo elenco di dati e accuse che dimostra la drammatica attualità di un fenomeno globale e scioccante. E’ bene ricordare che Amnesty International si oppone alla pena di morte in tutti i casi senza eccezioni riguardo la natura o le circostanze del reato, la colpevolezza, l’innocenza o altre caratteristiche dell’imputato, il metodo usato per eseguire la condanna a morte. Attraverso una campagna permanente, Amnesty International lavora per l’abolizione della pena capitale in tutto il mondo.

Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty, commentando il rapporto, ha scritto: “In occasione del lancio del suo rapporto sulla pena di morte nel 2016, Amnesty International ha accusato la Cina, il Paese che si presume metta a morte migliaia di prigionieri ogni anno, di fare di tutto per tenere segreto il numero effettivo delle esecuzioni.

Negli anni passati, le autorità di Pechino hanno più volte proclamato di aver fatto passi avanti verso la trasparenza.

Le ricerche di Amnesty International sulla Cina hanno messo in luce che centinaia di casi documentati di pena di morte non sono presenti nel tanto pubblicizzato registro giudiziario online, regolarmente citato come prova che il sistema giudiziario cinese non ha nulla da nascondere.

Ad esempio, delle 931 esecuzioni di cui hanno parlato fonti pubbliche cinesi tra il 2014 e il 2016, nel registro ne sono riportate solo 85. Se questa è la proporzione, a malapena un’esecuzione riportata su 10 avvenute, il problema si presenta enorme.

Il registro, inoltre, non contiene i nomi dei cittadini stranieri condannati a morte per reati di droga, sebbene i mezzi d’informazione locali abbiano dato notizia di almeno 11 esecuzioni del genere. Sono assenti anche numerosi casi relativi a reati di terrorismo”.

La stessa situazione, l’inattendibilità dei dati forniti dalle autorità locali cioè, si verifica in Vietnam e Malesia.

Il Vietnam sarebbe il terzo paese per numero di esecuzioni se si tenesse conto degli ultimi tre anni: ben 429 tra agosto 2013 e giugno 2016. Solo Cina e Iran hanno saputo fare peggio.

Ma sono numeri probabilmente incompleti. Basti pensare al fatto che il ministero per la Pubblica Sicurezza non ha reso note le cifre relative al 2016.

La Malesia ha messo a morte nove persone lo scorso anno, più di quante si pensasse, e oltre 1000 detenuti sono in attesa nei bracci della morte.

Quali sono i principali dati contenuti nel rapporto, tenendo presente quanto rilevato per la Cina, la Malesia e il Vietnam?

Nel 2016 Amnesty International ha registrato, nel rapporto, 1.032 esecuzioni in 23 paesi, 37% di meno rispetto alle 1.634 del 2015 in 25 Paesi.

La marcata diminuzione delle esecuzioni note è dovuta principalmente al minor numero registrato in Iran (almeno 567 contro le almeno 977 del 2015, ossia il 42% in meno) e in Pakistan (87 contro le 326 del 2016, ossia il 73% in meno).

Per la prima volta dal 2006, gli Usa non sono nella lista dei primi cinque Paesi al mondo per numero di esecuzioni (oltre alla Cina, all’Iran e al Pakistan già menzionati, ne fanno parte Arabia Saudita e Iraq).

Il numero di esecuzioni nel 2016, 20, è il più basso dal 1991 ed è inferiore della metà rispetto al 1996 e di cinque volte rispetto al 1999. Con l’eccezione del 2012, quando è rimasto uguale, il numero delle esecuzioni continua a diminuire di anno in anno dal 2009.

Il numero delle nuove condanne a morte, 32, è stato il più basso dal 1973: un chiaro segnale che i giudici, i procuratori e le giurie stanno cambiando idea sulla pena di morte come strumento di giustizia. Tuttavia, alla fine del 2016, nei bracci della morte si trovavano ancora 2.832 detenuti in attesa dell’esecuzione.

Se da un lato il dibattito sulla pena di morte sta chiaramente cambiando direzione, la diminuzione delle esecuzioni si deve anche alle dispute legali sui protocolli d’esecuzione e ai ricorsi sull’origine delle sostanze usate nell’iniezione letale. L’esito di questi ricorsi potrebbe però produrre un nuovo picco di esecuzioni, a partire dall’Arkansas nel mese di aprile, con una serie di esecuzioni previste in 10 giorni. 

Per quanto riguarda il numero complessivo dei paesi abolizionisti, lo scorso anno è salito a 142. Due paesi, Benin e Nauru, hanno abolito la pena di morte per tutti i reati, mentre la Guinea l’ha abolita solo per i reati ordinari.

Quindi la situazione relativa alla diffusione della pena di morte nel mondo è molto diversa nei vari Paesi.

Infatti, nel 2016, può essere valutato positivamente quanto avvenuto negli Stati Uniti, mentre desta molta preoccupazione quanto verificatosi in Cina.

Quest’ultimo Paese è ormai diventato una potenza economica di primaria grandezza. E pertanto i governi delle più importanti nazioni del mondo hanno intensificato i rapporti, anche politici, con la Cina. Ma hanno, quasi completamente, trascurato la pessima situazione dei diritti umani, compreso l’elevato utilizzo della pena di morte.

Sarebbe invece necessario che i governi dei principali Paesi, ed anche le istituzioni internazionali, facessero adeguate pressioni sulle autorità cinesi affinchè la situazione dei diritti umani migliorasse, sensibilmente.


Non sarà facile che ciò avvenga, Infatti, anche per i governi dei Paesi più importanti nel mondo, “pecunia non olet”.

domenica 9 aprile 2017

Un milione i bambini poveri in Italia


In Italia i minori in povertà assoluta sono 1.100.000. La percentuale di questi minori sul totale della popolazione di riferimento è triplicata negli ultimi 10 anni, passando dal 3,9% nel 2005 al 10,9% nel 2015. Inoltre, nonostante il numero di ragazzi che abbandonano precocemente gli studi si sia più che dimezzato negli ultimi 23 anni (passando dal 38% del 1992 al 15% del 2015), tale percentuale rimane superiore rispetto alla media dell’Unione europea, pari all’11% e fa sì che l’Italia si posizioni al quartultimo posto fra i Paesi dell’Ue. Percentuali più elevate di quella del nostro Paese si verificano solo in Romania (19%), in Spagna e a Malta (entrambe con il 20%).

Questi e altri dati sono contenuti nel nuovo rapporto “Futuro in partenza? L’impatto delle povertà educative sull’infanzia in Italia”, presentato da Save the Children, in occasione del rilancio della campagna per il contrasto alla povertà educativa.

Dal rapporto emerge un quadro dell’Italia che dopo anni stenta a far decollare il futuro dei propri ragazzi e che, nonostante alcuni miglioramenti negli ultimi anni, risulta ancora lontana dal resto dell’Europa e in cui le maggiori privazioni educative per i minori si registrano soprattutto al Sud, con ritardi importanti che non risparmiano tuttavia le regioni del Centro e del Nord.

Sono soprattutto i minori che provengono dalle famiglie svantaggiate dal punto di vista socio-economico a subìre le più gravi conseguenze della povertà educativa e si tratta di un fenomeno in forte crescita, in considerazione che anche la percentuale di minori che vivono in povertà relativa - più di 2 milioni di bambini e adolescenti - è quasi raddoppiata dal 2005, passando dal 12,6% della popolazione di riferimento al 20,2% nel 2015 e in particolare ha subìto un’impennata di quasi 8 punti percentuali dal 2011 al 2015.

“Il nostro è un Paese in cui non sono le pari opportunità a determinare i percorsi educativi e di vita dei ragazzi, ma lo svantaggio ereditato dalle famiglie. La povertà economica ed educativa dei genitori viene trasmessa ai figli, che a loro volta, da adulti, potrebbero essere a rischio povertà ed esclusione sociale. E’ un circolo vizioso che coinvolge e compromette il futuro di oltre un milione di bambini e che va immediatamente spezzato” - ha affermato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children.

“Serve un impegno urgente e concreto da parte delle istituzioni: non è accettabile che vi siano bambini costretti a vivere gravi deprivazioni materiali ed educative, che non solo non hanno la possibilità di costruirsi un domani, ma che non possono neanche sognarlo. Dobbiamo dare ad ogni bambino la possibilità di far decollare le proprie aspirazioni e i propri sogni”, ha aggiunto Neri.

Dal 3 al 9 aprile Save the Children ha rilanciato la campagna “Illuminiamo il futuro” per il contrasto alla povertà educativa, ormai giunta al suo quarto anno. Una settimana di mobilitazione, con oltre 650 eventi e iniziative in tutta Italia in cui sono state coinvolte centinaia di associazioni, enti, scuole, realtà locali e istituzioni culturali che hanno scelto di essere al fianco dell’associazione per sensibilizzare e informare sull’importanza delle opportunità educative per la crescita dei più piccoli.
Io credo che quanto auspicato da Save the Children, per contrastare la povertà dei minori, si debba realizzare.

Il governo Renzi varò alcuni interventi per combattere la povertà.


Ma tali interventi devono essere assolutamente intensificati, destinandovi un ammontare di risorse finanziare ben più consistente.

mercoledì 5 aprile 2017

Senza una forte crescita economica si riduce poco la disoccupazione


Sono stati diffusi dall’Istat i dati riguardanti il mercato del lavoro, relativi al mese di febbraio. La disoccupazione è diminuita, anche quella giovanile. Ma a parte il fatto che il principale motivo della riduzione della disoccupazione è stato l’aumento degli inattivi, sono aumentati cioè coloro che non cercano lavoro, soprattutto perché sono “scoraggiati”, cioè non cercano lavoro perché sanno che non lo possono trovare, occorre aggiungere che sia il tasso di disoccupazione generale, sia quello giovanile, è ancora piuttosto alto, e assume poi un valore più elevato rispetto ai valori assunti in molti altri Paesi europei.

E non stupisce che la disoccupazione in Italia risulti ancora elevata.

Infatti se si intende davvero ridurla in misura notevole, sarebbe necessario che si realizzasse una crescita economica molto più consistente.

Invece, il Pil in Italia non cresce più dell’1% annuo. In molti altri Paesi europei questa grandezza economica è contraddistinta da un aumento decisamente più rilevante.

Interventi rivolti a migliorare il funzionamento del mercato del lavoro, che pur sono stati attuati in Italia negli ultimi anni, a partire dal jobs act, non possono che determinare un lieve aumento del numero degli occupati, ottenendo quindi una diminuzione della disoccupazione molto limitata.

Sul fatto che sia necessaria in Italia una forte crescita economica per ridurre considerevolmente la disoccupazione, c’è una diffusa consapevolezza.

Vi sono però opinioni diverse sugli interventi da realizzare per promuovere una notevole accelerazione del processo di crescita ed, inoltre, l’attuazione di alcuni interventi richiederebbe l’effettuazione di decisioni non facili, parte delle quali peraltro non produrrebbero effetti nel breve periodo.

Per conseguire una forte crescita economica dovrebbe aumentare considerevolmente la produttività che in Italia, da molti anni ormai, cresce poco.

Ma per aumentare la produttività sono necessarie azioni anche in ambiti non strettamente economici, delle vere e proprie riforme strutturali, della pubblica amministrazione, del sistema formativo e di quello giudiziario, ad esempio, e gli effetti di queste riforme sulla produttività e quindi sulla crescita non si manifestano nel breve periodo.

Per ottenere un’intensificazione della crescita economica nel breve periodo risulta, quindi, indispensabile promuovere un aumento della domanda, soprattutto di quelle sue componenti che hanno un effetto moltiplicatore sulla produzione più elevato.

Le esportazioni possono sì crescere ulteriormente, ma già la loro dinamica è piuttosto soddisfacente e poi un loro consistente aumento, nei prossimi anni, difficilmente potrebbe verificarsi, considerando che, soprattutto a causa delle politiche che intende portare avanti Trump, dovrebbe intensificarsi il protezionismo.

Quindi dovrebbe essere soprattutto la domanda interna ad aumentare, anche quella per consumi, ma prevalentemente gli investimenti sia privati che pubblici.

E per far crescere adeguatamente gli investimenti, anche quelli privati tramite degli specifici incentivi, sono necessarie consistenti risorse pubbliche.

Tale esigenza si scontra con i problemi del bilancio pubblico, soprattutto con la necessità di contenere il deficit della pubblica amministrazione.

Certo, ci si potrà battere per un’attenuazione o addirittura per l’abolizione del “fiscal compact” da parte dell’Unione europea, per intensificare la lotta all’evasione fiscale, ma l’obiettivo prioritario dovrebbe essere rappresentato da un’efficace azione di revisione della spesa pubblica, un’efficace politica di “spending review”, contraddistinta da una consistente riduzione degli sprechi, da un minore rilievo delle spese correnti accompagnato da un peso maggiore assunto dagli investimenti pubblici. 


domenica 2 aprile 2017

Morbillo, Italia e Romania a rischio epidemia


Romania e Italia sono a rischio epidemia di morbillo. L’allarme arriva dall’Oms (organizzazione mondiale della sanità) che identifica in questi 2 Paesi i maggiori focolai attuali di quella patologia. In Romania ci sono stati oltre 3.400 casi e 17 morti dal gennaio 2016 a marzo 2017. In Italia si è registrato un forte aumento dei casi nelle prime settimane del 2017, con 238 casi segnalati a gennaio e almeno altrettanti a febbraio. E il numero totale dei casi rilevati nel 2016 (circa 850) è stato già superato, come evidenziano gli ultimi dati del ministero della Salute e dell’Iss (Istituto superiore di sanità), 1.010 casi dal 1° gennaio al 26 marzo 2017.

Secondo l’Oms per eliminare il morbillo serve una copertura vaccinale di almeno il 95%, ma in Europa si è scesi ben al di sotto.

La malattia in questo modo continua a diffondersi, con la possibilità di causare epidemie. E questo anche se due terzi dei 53 Paesi europei hanno bloccato la trasmissione endemica che resta tale però in altri 14 Paesi.

“Con il progresso costante fatto negli ultimi anni verso l'eliminazione della malattia, è preoccupante che in due anni si stia assistendo a una sua ripresa”, ha affermato Zsuzsanna Jakab, direttore regionale per l'Europa dell’Oms.

Nel gennaio 2017 sono stati segnalati 559 casi di morbillo in Europa. Di questi, 474 casi sono stati segnalati in 7 dei 14 paesi endemici (Francia, Germania, Italia, Polonia, Romania, Svizzera e Ucraina).

Le informazioni preliminari per il mese di febbraio indicano che il numero di nuove infezioni è nettamente in aumento. In tutti questi Paesi l’Oms stima che la copertura di immunizzazione con la seconda dose di vaccino sia inferiore alla soglia del 95%.

“Esorto tutti i Paesi endemici ad adottare misure urgenti per fermare la trasmissione del morbillo e tutti i Paesi che hanno già raggiunto questo traguardo a mantenere alta la guardia e sostenere la copertura dell’immunizzazione. Insieme dobbiamo fare in modo che i progressi raggiunti finora non vadano perduti”, ha aggiunto Jakab.

Secondo l’Oms le autorità sanitarie nazionali dovrebbero massimizzare i lori sforzi per raggiungere e/o mantenere una copertura di almeno il 95% e con 2 dosi di vaccino.

E l’ufficio regionale per l’Europa sta lavorando a stretto contatto con le autorità sanitarie nazionali dei Paesi a rischio per pianificare e attuare misure di risposta adeguate che includano migliore sorveglianza e l'identificazione e l’immunizzazione delle persone a rischio elevato di infezione, di quelle particolarmente sensibili che possono venire a contatto con soggetti infetti e per coinvolgere le comunità e incoraggiare la vaccinazione.

Per quanto riguarda l’Italia, si può rilevare che dei 1.010 casi di morbillo segnalati dal 1° gennaio al 26 marzo del 2017 l’86% proviene da cinque regioni: Piemonte, Lombardia, Lazio, Toscana, e Abruzzo.

Il 90% dei soggetti colpiti da questa malattia non era vaccinato.

La maggior parte dei casi è stata segnalata in persone di età maggiore o uguale a 15 anni (57% nella fascia 15-39 anni e 17% negli adulti con più di 39 anni), con un’età media dei casi pari a 27 anni.
Il 26% dei casi è stato segnalato in bambini nella fascia di età 0-14 anni; di questi, 50 avevano meno di un anno di età.

Infine sono stati segnalati 113 casi tra operatori sanitari.

Non si può che concludere rilevando che la situazione riguardante la diffusione del morbillo in Italia sia davvero preoccupante e auspicando che nel nostro Paese siano quanto prima rispettate le indicazioni sollecitate dall’ufficio europeo dell’Oms.

Non si deve assolutamente sottovalutare il problema.