lunedì 25 marzo 2024

In forte crescita gli imprenditori stranieri

Negli ultimi dieci anni il numero degli imprenditori stranieri è notevolmente cresciuto. Le persone fisiche nate all’estero che hanno il ruolo di amministratori, soci o titolari di imprese attive in Italia sono 775.559 (dato al 31 dicembre 2023). Erano poco più di 609.000 nel 2013: la crescita è stata dunque del 27,3% in dieci anni.

Nel 2003 gli imprenditori immigrati erano 313.352: in 20 anni, dunque, sono più che raddoppiati.

Questi dati sono forniti dalla fondazione Leone Moressa.

Invece gli imprenditori nati in Italia sono diminuiti, nel decennio 2013-2023, del 6,4%: erano 7,14 milioni nel 2013, e 6,68 milioni nel 2023.

La maggior parte degli imprenditori stranieri in Italia sono nati in Romania, Cina e Marocco.

Nel 2023 si è registrato anzi il sorpasso della Romania (78.258) rispetto alla Cina (78.114) come primo Paese d’origine. Queste due nazionalità, insieme, rappresentano oltre il 20% degli imprenditori immigrati in Italia.

Confrontando gli imprenditori per ciascun Paese con la popolazione in età lavorativa nata nella stessa nazione e residente in Italia, la fondazione Leone Moressa calcola il “tasso di imprenditorialità” per ciascuna comunità.

Tra i nati in Italia, gli imprenditori rappresentano il 12,4% della popolazione. Fra gli stranieri, il tasso di imprenditorialità è lievemente più alto (15,1%).

Quattro Paesi stranieri presentano un tasso di imprenditorialità superiore al 20%: si tratta di Cina (25,4%), Bangladesh (21,2%), Egitto (21,1%) e Brasile (20,9%).

Si attestano sopra la media del 15,1% anche Pakistan, Marocco e Tunisia. I valori più bassi si registrano invece tra gli immigrati provenienti da Sri Lanka (4,5%), Ucraina (4,3%) e Filippine (1,3%): in queste comunità è molto più rilevante il lavoro dipendente, soprattutto nel comparto domestico.

Le donne rappresentano il 27,6% degli imprenditori immigrati in Italia. L’incidenza della componente femminile è nettamente maggiore per alcune comunità, come quella ucraina (57,6%), del Brasile (48,4%) e della Cina (45,6%).

Considerando le imprese, non più gli imprenditori, si può rilevare che quelle a conduzione straniera sono 586.584, con un’incidenza dell’11,5% sul totale  (il numero di imprese a conduzione straniera è inferiore a quello degli imprenditori perché nella stessa azienda ci possono essere più persone fisiche nate all’estero con il ruolo di amministratore, socio o titolare).

Quasi un’impresa straniera su cinque si trova in Lombardia (19,2%), seguita da Lazio (11,3%), Toscana (9,7%) ed Emilia Romagna (9,3%).

E’ interessante, oltre alla distribuzione territoriale, il dato sull’incidenza delle imprese straniere sul totale delle imprese di ciascuna regione.

In alcuni territori il peso delle imprese straniere è infatti superiore alla media nazionale: è del 17,2% in Liguria, del 16,6% in Toscana, del 14% in Friuli Venezia Giulia, del 13,9% in Emilia Romagna.

Quanto ai settori di attività, un terzo delle imprese a conduzione straniera si concentra nel commercio. Complessivamente, quasi il 60% delle imprese straniere è dedita al commercio o alle costruzioni.

Anche in questo caso, è interessante analizzare l’incidenza rispetto al totale delle imprese di ciascun settore.

Questo valore raggiunge il picco massimo nell’edilizia (dove le imprese a conduzione straniera rappresentano il 20,6% del totale) e nel commercio (15,2%).

Nell’agricoltura e nei servizi sono invece molto più rappresentate le imprese italiane: l’incidenza di quelle a conduzione straniera sul totale è infatti rispettivamente del 2,9% e del 7,9%.

Risulta evidente che, attualmente, il peso dell’imprenditoria straniera, nell’economia italiana, è rilevante. Non sono numerosi solamente i lavoratori dipendenti stranieri.

E’ piuttosto significativo il fatto che il tasso di imprenditorialità sia maggiore fra gli stranieri che fra gli italiani.

Pertanto occorrerebbe una maggiore attenzione, e politiche specifiche, nei confronti dell’imprenditoria straniera, soprattutto al fine di aumentare il suo contributo al Pil nazionale.

lunedì 18 marzo 2024

Le attività speculative delle banche

Le banche italiane da quando la Bce ha adottato una politica monetaria restrittiva, caratterizzata da un aumento dei tassi di interesse, sono state contraddistinte, tutte, da attività che non possono non essere definite speculative.

Infatti hanno aumentato i tassi di interesse sui prestiti concessi alle imprese e alle famiglie e hanno aumentato di poco, e in alcuni casi non hanno fatto nemmeno questo, i tassi sui depositi.

Il cosiddetto margine di interesse, la differenza cioè tra tassi attivi e passivi, principale fonte dei ricavi bancari, è quindi aumentato, determinando una crescita degli utili, e quindi anche dei dividendi, delle banche, eccessiva.

E questo comportamento non può che essere definito speculativo.

Tale comportamento non è certo una novità. In altre occasioni si è determinata la stessa situazione.

Ma non per questo non deve essere, ancora una volta, criticato, in quanto ha causato una riduzione consistente de reddito disponibile dei clienti delle banche e ciò ha favorito anche un rallentamento della crescita del Pil.

Stupisce che la Banca d’Italia, a cui spetta la vigilanza sull’azione delle banche, non abbia fatto nulla.

E stupisce anche che l’autorità antitrust non abbia battuto ciglio perché si è oggettivamente verificato un accordo, più o meno tacito, tra tutti gli istituti di credito.

Quanto avvenuto giustifica la misura del governo che voleva tassare i cosiddetti extraprofitti delle banche, ma che poi ha fatto marcia indietro, anche perché la misura in questione era stata mal concepita, lasciando alle banche stesse la scelta di destinare quanto potevano pagare sotto forma di tasse al rafforzamento del proprio capitale.

E tutte le banche ovviamente si sono orientate verso la seconda alternativa.

Mi sembra necessario che quanto prima la Banca d’Italia modifichi il suo orientamento e costringa le banche a ridurre i tassi sui prestiti e ad aumentare i tassi sui depositi.

lunedì 4 marzo 2024

2 milioni le famiglie in povertà energetica

In Italia, nel 2022, erano 2 milioni le famiglie in povertà energetica, pari al 7,5% del totale. Nel nostro Paese la povertà energetica è definita come “difficoltà di acquistare un paniere minimo di beni e servizi energetici o, in alternativa, un accesso ai servizi energetici che implica una distrazione di risorse, in termini di spesa o di reddito, superiore a un ‘valore normale’”.

I dati in questione sono contenuti nello studio “Evoluzione della povertà energetica in Italia” realizzato dall’Osservatorio italiano sulla povertà energetica (Oipe), presentato in collaborazione con la fondazione banco dell’energia, - l’Ente senza scopo di lucro che sostiene le famiglie in situazione di vulnerabilità economica e sociale.

Nel 2022 è aumentata la povertà energetica delle famiglie tra le fasce medie mentre è diminuita tra quelle delle fasce più deboli.

Lo studio Oipe rileva che tutte le famiglie hanno risentito dell’aumento dei prezzi energetici ma in modo diverso: quelle vulnerabili, grazie alle misure di sostegno e di contenimento dei prezzi, hanno subito meno gli aumenti.

Nel 2022 c’è stato un rincaro di 500 euro rispetto al 2021, che ha spinto la spesa annua media per energia elettrica e riscaldamento delle famiglie a 1.915 euro. Un +32%, secondo l’analisi Oipe, a fronte di prezzi al consumo cresciuti del 50% e del 34,7%, rispettivamente per energia elettrica e gas.

Per il solo riscaldamento, invece, la spesa è salita del 29%, moderata anche dall’aumento generale delle temperature.

Le famiglie in povertà energetica sono diminuite nelle Isole e nel Centro, sono rimaste stabili al Nord e si sono concentrate di più nei piccoli centri e nelle aree suburbane.

La Toscana e le Marche hanno registrato  la percentuale più bassa con il 4,5%, la Calabria quella più alta, con il 22,4%, di famiglie in povertà energetica. Quest’ultima è anche la regione con l’incremento maggiore (+5,7 punti percentuali).

“La riduzione della povertà energetica nel 2022 va interpretata in un contesto di ingenti sussidi concessi dal Governo e di interventi transitori su fiscalità e componenti tariffarie dei prodotti energetici.

Non è una politica sostenibile nel medio termine ed è necessario che si organizzi, al più presto, una strategia di contrasto al fenomeno che si basi su analisi rigorose e su strumenti mirati per contemperare i vincoli di finanza pubblica e l’efficacia degli interventi che devono essere destinati solo alle famiglie vulnerabili” ha commentato Paola Valbonesi, presidente dell’Oipe.

Mi sembra condivisibile quanto rilevato dalla presidente dell’Oipe, anche perché molte famiglie, soprattutto per quanto concerne il riscaldamento, lo hanno utilizzato in misura inferiore a quanto necessario, proprio per l’aumento dei prezzi.

Occorre aggiungere che, attualmente, il prezzo mondiale del gas e del petrolio è diminuito, ritornando ai livelli precedenti all’inizio della guerra in Ucraìna, ma i prezzi energetici che le famiglie italiane sono costrette a pagare non sono diminuite nella stessa misura.