mercoledì 31 maggio 2023

Nel turismo prolifera il lavoro nero e irregolare

 

Nel settore turistico spesso si sostiene che non si trovano giovani che accettino di lavorarvi. Molti però ritengono che siano le condizioni di lavoro offerte che non stimolino ad accettare le richieste formulate dai proprietari di ristoranti, bar e alberghi. Quest’ultima considerazione sembra essere avvalorata dai risultati di un’operazione di vigilanza condotta dall’Ispettorato del lavoro.

Infatti da una rilevante operazione di vigilanza straordinaria, recentemente promossa e coordinata dall'Ispettorato nazionale del lavoro, che si è avvalso di ispettori del lavoro e carabinieri del comando tutela del lavoro è emerso un quadro non rassicurante.

Sono state riscontrate irregolarità nel 76% delle aziende dei settori del turismo e dei pubblici esercizi, con picchi del 95% al Sud e del 78% al Nord-Ovest.

I controlli hanno interessato 445 aziende, delle quali il appunto il 76% è risultato irregolare, con picchi del 95% al Sud e del 78% al Nord-Ovest.

Su 2.364 posizioni lavorative verificate, gli accertamenti hanno fatto emergere 809 situazioni di irregolarità e 458 lavoratori “in nero”, fra cui 16 minori e 101 lavoratori extra Ue (tra i quali 18 senza permesso di soggiorno).

Gli ispettori hanno poi disposto 330 prescrizioni per violazioni in materia di sicurezza e 253 provvedimenti di sospensione, di cui 180 per lavoro nero e 73 per gravi violazioni in materia di salute e sicurezza.

Le principali violazioni riconducibili ai rapporti di lavoro hanno riguardato, oltre al lavoro nero, soprattutto l’orario di lavoro, il mancato versamento dei contributi previdenziali, e l’errato inquadramento contrattuale.

I rilievi hanno riguardato anche l’indebito percepimento del reddito di cittadinanza, la mancata tracciabilità delle retribuzioni, e la videosorveglianza.

In materia di salute e sicurezza sono state prevalentemente riscontrate violazioni per mancata elaborazione dei documenti valutazione rischi (60%), mancata formazione e addestramento (12%), mancata costituzione del servizio di prevenzione e protezione e nomina del relativo responsabile (11%) e mancata elaborazione del piano di emergenza ed evacuazione (11%).

Anche secondo il sindacato Filcams Cgil le condizioni di lavoro nel settore turistico sono pessime.

Infatti molti sono i cuochi e camerieri che davanti a paghe troppo basse fuggono verso altri lidi professionali, numerose le violazioni nel lavoro alberghiero e i contratti non rispettati in tutta la filiera turistica.

Si moltiplicano le voci che si levano dai territori e il racconto - da Montecatini a Pordenone, da Savona a Treviso - è sempre lo stesso: la storia di una forza lavoro che sostiene un'industria turistica tornata a tutti gli effetti alla pienezza e all'iperattività che precedeva la pandemia, ma che di quel benessere e di quei fatturati non raccoglie alcun beneficio.

Sulle paghe si tratta al ribasso, il nero sommerge buona parte del lavoro, i contratti non vengono applicati: è come se gli stagionali fossero un'entità votata al sacrificio, che dovrebbe essere pronta a tutto pur di lavorare per qualche mese.

“Le offerte di lavoro nel settore turistico spesso non sono in linea con i contratti nazionali” racconta Alberto Irone, segretario generale della Filcams Cgil trevigiana e, al contempo, c'è più attenzione da parte dei lavoratori per le proposte contrattuali che ricevono.

“Gli straordinari non retribuiti o pagati fuori busta non sono più tollerati, come i turni massacranti, la mancanza del riposo, delle ferie e del riconoscimento della malattia. I lavoratori si rivolgono alle sedi sindacali, vogliono sapere esattamente quali sono i loro diritti”.

“Ci sono problemi legati in primo luogo alla tipologia di contratto - spiega Giovanni Tiglio, segretario generale Filcams Cgil Savona - perché nonostante il patto per il lavoro nel turismo siglato in Regione che agevola le imprese più virtuose, l'85% dei contratti è un tempo determinato che segue il picco stagionale.

Manca un'industria turistica che miri a un turismo attivo tutto l'anno”. Il risultato è una precarietà strutturale, alla quale si aggiungono le ben note irregolarità.

“E’ massiccio l'utilizzo del lavoro grigio, dietro i part-time si nascondono spesso impegni full time, senza riposo e con caratteristiche peggiorative, condizioni che, oltre a danneggiare i lavoratori, si riverberano negativamente nel tessuto economico e sociale del territorio”.

Marika Baio, segretaria generale Filcams Cgil Pordenone, parla di “flessibilità selvaggia” e di lavoratori assunti con contratti a 18, 20 e 24 ore, che devono essere sempre pronti a fare straordinari e a piegare gli orari alle esigenze del momento.

“I lavoratori per lo più non ci danno mandato per le vertenze, restano in attesa, nella speranza di un incremento orario che però se arriva è soltanto di mese in mese”,  spiega Baio. Così resta tutto fermo, fino a quando trovano un'occasione migliore.

“Migrano prevalentemente verso le fabbriche, perché lì riescono ad avere un full time, come operai generici. Ed è un peccato, perché in questo modo vanno perse le professionalità del settore turistico”. 

I problemi a Montecatini Terme riguardano prevalentemente il settore alberghiero, dove si registra una irregolarità diffusa.

“I lavoratori nella maggior parte dei casi si rivolgono a noi al momento della cessazione del rapporto di lavoro, lamentando violazioni contrattuali, mancati riposi e mancato pagamento degli straordinari" racconta Caterina Ballanti, segretaria generale Filcams Cgil Prato e Pistoia.

Delle 145 strutture alberghiere presenti nella città termale 20 hanno chiuso i battenti, e dalle altre 125 sono arrivati alla Filcams locale una quarantina di lavoratori, riferisce la segretaria, a cercare assistenza per quella che appare una piaga diffusa.

domenica 28 maggio 2023

100 anni dalla nascita di don Milani

Il 27 maggio del 1923 nacque don Lorenzo Milani, il fondatore della scuola di Barbiana. Sono appena passati quindi 100 anni dalla nascita di don Milani, un grande innovatore rispetto ai metodi educativi che, quando diede vita alla scuola di Barbiana, erano prevalenti in Italia. Don Milani, comunque, resta ancora oggi un modello da seguire.

E’ molto probabile che non molti giovani conoscano don Milani e, soprattutto, il suo operato.

Ho ritenuto opportuno, quindi, riportare, una sua biografia, inserita nel sito di uno dei diversi istituti scolastici a lui intitolati, un istituto di Prato.

Chi era Don Milani  

Don Lorenzo Milani, sacerdote e maestro che, nel paese di Barbiana, nel Mugello, in provincia di Firenze, ha fondato dal nulla e nel nulla la sua scuola popolare per i ragazzi più poveri: giovani operai e contadini.

Le origini e la conversione

Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, questo il suo nome completo, nasce a Firenze il 27 maggio 1923. E’ il secondo dei tre figli di Albano Milani e Alice Weiss, (madre di origine ebrea). Lorenzo, fa parte di una laica e raffinata, ricca e colta famiglia fiorentina di scienziati e cattedratici; conosce bene il valore della cultura ed ha una passione: la pittura.

Dopo la maturità classica, mentre sta affrescando una cappella sconsacrata, Lorenzo scopre la sua vocazione. Si converte così al cattolicesimo. Nel 1943 entra in seminario, la famiglia non approva la sua scelta religiosa infatti, alla cerimonia della tonsura, l’atto d’ingresso alla vita ecclesiastica, nessuno dei parenti sarà presente. Il 13 luglio 1947 viene ordinato sacerdote.

La sua prima scuola popolare

Nell’ottobre 1947 viene nominato cappellano nella parrocchia di S. Donato a Calenzano, alle porte di Firenze. Si trova ad operare, insieme al vecchio parroco Daniele Pugi, in una realtà rurale arretratissima: i suoi parrocchiani sono braccianti, pastori ed operai, perlopiù analfabeti.

Don Milani si convince che sia dovere della Chiesa occuparsi dell’istruzione dei suoi fedeli, soprattutto dei più deboli.

Maestro, dunque, prima ancora che prete: è l’intuizione di don Milani. E’ qui che fonda la scuola popolare e che inizia il suo impegno: dare alla gente, di cui è spiritualmente responsabile, il massimo possibile di acculturazione nel senso di conoscenza, ma soprattutto di capacità critica. Don Milani decide di partire dalla lettura dei giornali in classe, analizzando i temi dell’attualità e soffermandosi a lungo sui termini difficili.

Egli è convinto che solo la cultura possa aiutare i contadini a superare la loro rassegnazione e che l’uso della parola equivalga a ricchezza e libertà. A S. Donato il sacerdote costruisce una comunità, dove ogni regola gerarchica viene sconvolta.

Il “confino” di Barbiana

E’ un uomo scomodo, esigente, provocatore e, per questo suo carattere, viene isolato e nominato priore di Barbiana, un piccolo paesino sui monti del Mugello: 124 abitanti in tutto, una chiesa, una canonica, un cimitero e una manciata di case sparse sui monti. Un angolo sperduto molto lontano dall’Italia del boom economico.

Appena arrivato don Milani fa un gesto simbolico: costruisce dal nulla e nel nulla la sua scuola popolare per giovani operai e contadini.

E’ proprio a Barbiana che don Milani fa la sua esperienza più forte: si occupa di ragazzi per vari motivi emarginati dalla istituzione scolastica ufficiale. Li aiuta a liberare la loro dignità e la loro cultura attraverso la parola per essere meglio in grado di affrontare le difficoltà della vita.

Per convincere i genitori a mandarvi i propri figli, il parroco utilizza ogni mezzo, persino lo sciopero della fame. Quella di Barbiana è una scuola all’avanguardia; si studiano le lingue straniere: l’inglese, il francese, il tedesco e persino l’arabo. Si organizzano viaggi di studio e lavoro all’estero. Egli spesso tiene lezioni di recitazione per far superare le timidezze dei più introversi e costruisce una piccola piscina per aiutare i montanari ad affrontare la paura dell’acqua.

Nella scuola di Don Milani si studia dodici ore al giorno, 365 giorni all’anno. L’insegnamento religioso non ha nulla di ortodosso; si legge il Vangelo, ma senza mai il tentativo di indottrinare i ragazzi.

Nel 1963 arriva nella scuola una giovane professoressa, Adele Corradi, incuriosita dai metodi del parroco di Barbiana. Don Milani la invita a rimanere ad insegnare nella scuola e la professoressa accetta.

“I care”

Il motto della scuola di Don Milani è: “I care”, ovvero mi riguarda, mi sta a cuore, mi prendo cura. Alle pareti è appeso un mosaico fatto dai ragazzi della scuola; raffigura un ragazzo con l’aureola intento a leggere un libro. E’ il nuovo santo di Barbiana, il santo scolaro.

L’esperienza della scuola di Barbiana attira sull’Appennino toscano insegnanti italiani e stranieri, gente della cultura e personalità della politica.

Lettera a una professoressa

Nel 1967 Don Lorenzo Milani scuote la Chiesa e tutta la società italiana con un libro: “Lettera a una professoressa”, scritto insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana.

Il libro denuncia l’arretratezza e la disuguaglianza presenti nella scuola italiana che, scoraggiando i più deboli e spingendo avanti i più forti, sembra essere ispirata da un principio classista e non di solidarietà; un atto d’accusa verso l’intero sistema scolastico.

È scritto in un italiano semplice; la prima stesura viene fatta leggere da un contadino che sottolinea le parole che non capisce affinché l’autore possa apportare al testo tutte le modifiche necessarie e renderlo accessibile a tutti.

Il libro, però, riceve un’accoglienza fredda. Un’unica eccezione illustre: Pier Paolo Pasolini. Soltanto dopo la morte del priore il libro diventa un caso letterario, diventando uno dei testi sacri del ’68 italiano. “Lettera a una professoressa” diviene così simbolo di cambiamento per una scuola veramente per tutti.

La morte prematura

A causa di una grave malattia, il morbo di Hodgkin, di cui soffre da anni, don Lorenzo, si spegne, a soli 44 anni. Era il 26 giugno del 1967. Così come aveva chiesto, viene seppellito nel piccolo cimitero di Barbiana con i paramenti sacri e gli scarponi da montagna.

Le ultime parole del suo testamento sono ancora una volta per i suoi ragazzi: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho la speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”. La firma di questa ultima lettera solo il suo nome: Lorenzo. 

Don Lorenzo, lascia, attraverso le opere sue e dei suoi collaboratori, testimonianza viva di una eccezionale esperienza umana, religiosa, educativa.

mercoledì 24 maggio 2023

In Sudan 25 milioni di persone hanno bisogno di assistenza

In Sudan, i gruppi armati che occupano le strutture sanitarie e che saccheggiano le forniture mediche, stanno privando milioni di bambini e le loro famiglie di cure salvavita, tanto che il numero di persone bisognose di assistenza sanitaria è aumentato di circa il 57% (sono 24,7 milioni).

Questo è l’allarme lanciato da Save the Children.  

Save the Children ha esortato le parti in conflitto a rispettare gli impegni sulla protezione dei civili contenute nella dichiarazione di Gedda, firmata la scorsa settimana, in linea con il diritto internazionale umanitario, che prevede la protezione delle infrastrutture civili, come quelle sanitarie e scolastiche, nonché degli operatori umanitari e dei beni utilizzati a supporto della popolazione.

I nuovi dati pubblicati dalle Nazioni Unite  mostrano che il numero di persone bisognose di assistenza in Sudan è ora di 24,7 milioni, con un aumento del 57% rispetto ai 15,8 milioni previsti alla fine dello scorso anno.

Ciò significa che più della metà della popolazione, che ammonta a 46 milioni di persone, ha bisogno di assistenza umanitaria in seguito all’escalation di violenze scoppiata poco più di un mese fa, che ha provocato la morte di almeno 700 civili, tra cui 190 bambini, ferito oltre 5.200 persone e costretto più di un milione di persone ad abbandonare le proprie case.

L'assistenza sanitaria in tutto il Paese è sull'orlo del collasso: meno del 20% delle strutture sanitarie nello Stato di Khartoum sono ancora completamente funzionanti, mentre il 60% non è operativo del tutto. I medici che lavorano con Save the Children raccontano che i pazienti arrivano dopo lunghi viaggi solo per scoprire che non hanno nemmeno il paracetamolo di base.

“I combattimenti sono scoppiati venerdì dalle 6 del mattino alle 18 e sono continuati nei due giorni successivi. Ora tutte le strade sono bloccate, non c'è accesso e non ci sono servizi di base. Tutto si è fermato”, racconta Ibrahim , membro dello staff di Save the Children che lavora nel Darfur occidentale.

“Non si possono trasportare i feriti, perché il sistema sanitario locale è completamente distrutto. Tutti gli ospedali e le strutture sanitarie sono stati bruciati o saccheggiati. A Geneina non ne funziona nessuno e le persone con malattie croniche, come il diabete, non possono ricevere alcun trattamento”.

Save the Children ha avviato una risposta d'emergenza a sostegno degli sfollati nello Stato di Gezira e prevede di potenziarla nelle prossime settimane, ma le richieste continuano ad aumentare.

Circa 3 milioni di bambine e bambini sotto i cinque anni soffrono di malnutrizione: anche prima dello scoppio dei combattimenti, il Paese aveva uno dei peggiori tassi di malnutrizione infantile al mondo, con circa 610.000 bambini che soffrivano di malnutrizione acuta grave. 

Nell'ultimo mese la già grave crisi alimentare è andata ulteriormente fuori controllo, a causa della chiusura della maggior parte dei negozi e della difficoltà di accesso ai rifornimenti di cibo, mentre la violenza ha distrutto le scorte di cibo salvavita. La scorsa settimana è stata incendiata una fabbrica che produceva integratori contro la malnutrizione, utilizzati da Save the Children, Unicef e World Food Programme e forniture vitali per 14.500 bambini sono state distrutte.

“I conflitti danneggiano l'intero mondo di un bambino e questi nuovi dati mostrano quanto rapidamente la situazione sia peggiorata in Sudan nell'arco di un solo mese”, ha dichiarato Arif Noor, direttore di Save the Children in Sudan.

“Il Paese era già teatro di una delle peggiori crisi umanitarie del mondo, con tassi di malnutrizione e fame altissimi.

Quando il conflitto scoppia e distrugge l'ancora di salvezza dei bambini - le strutture sanitarie, le scorte alimentari e le scorte per il trattamento della malnutrizione - allora che possibilità hanno di vivere?

Anche mentre i combattimenti sono in corso, le parti in conflitto devono rispettare il diritto internazionale umanitario. La distruzione delle strutture sanitarie che forniscono cure salvavita deve essere fermata immediatamente. Abbiamo però bisogno di una cessazione immediata delle ostilità. Chiediamo che la comunità internazionale risponda ai gravi bisogni delineati nell'odierno piano di risposta umanitaria delle Nazioni Unite”.

mercoledì 17 maggio 2023

Pena di morte, in forte aumento le esecuzioni

 

Il numero delle esecuzioni registrate nel 2022 è il più alto da cinque anni, a causa dell’aumento delle condanne a morte eseguite nell’area Medio Oriente-Africa del Nord: lo ha reso noto Amnesty International nel suo consueto rapporto annuale sulla pena di morte nel mondo.

Amnesty International ha registrato 883 esecuzioni in 20 Stati, con un aumento del 53% rispetto al 2021. Il notevole incremento, che non tiene conto delle migliaia di condanne a morte presumibilmente eseguite in Cina, dipende dagli Stati dell’area Medio Oriente-Africa del Nord, il cui totale è salito da 520 nel 2021 a 825 nel 2022.

“Aumentando il numero delle esecuzioni, gli Stati dell’area Medio Oriente-Africa del Nord hanno violato il diritto internazionale e mostrato un profondo disprezzo per la vita umana.

Il numero delle persone private della loro vita è enormemente cresciuto: l’Arabia Saudita ha incredibilmente messo a morte 81 prigionieri in un solo giorno.

Nella seconda parte dell’anno, nel disperato tentativo di stroncare le proteste popolari, l’Iran ha messo a morte persone che avevano solo esercitato il loro diritto di protesta”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

Il dato più preoccupante è che il 90% delle esecuzioni registrate, dunque esclusa la Cina, ha avuto luogo in soli tre Paesi dell’area Medio Oriente-Africa del Nord: in Iran sono salite da 314 nel 2021 a 576 nel 2022; in Arabia Saudita sono triplicate, da 65 nel 2021 a 196 nel 2022, il più alto numero registrato da Amnesty International in 30 anni e in Egitto, dove sono stati messi a morte 24 prigionieri.

L’uso della pena di morte è rimasto circondato dal segreto in diversi Stati - come Cina, Corea del Nord e Vietnam - comunque noti per l’ampio uso della pena capitale: il numero reale delle esecuzioni è dunque assai più alto.

Sebbene non sia chiaro quante volte sia stata applicata la pena di morte in Cina, è evidente che questa sia rimasta in testa alla lista delle esecuzioni, seguita da Iran, Arabia Saudita, Egitto e Stati Uniti d’America.

Nel 2022 sono riprese le esecuzioni in cinque Stati: Afghanistan, Kuwait, Myanmar, Palestina e Singapore.

Un aumento delle esecuzioni, rispetto al 2021, è stato registrato in Iran (da 314 a 576), Arabia Saudita (da 65 a 196) e Stati Uniti d’America (da 11 a 18).

Il numero delle persone messe a morte per reati di droga è più che raddoppiato rispetto al 2021. Le esecuzioni per reati di droga violano il diritto internazionale dei diritti umani, secondo il quale le esecuzioni dovrebbero limitarsi ai “reati più gravi”, come l’omicidio intenzionale.

Esecuzioni per reati di droga sono state registrate in Cina (sebbene non se ne conosca il numero), Arabia Saudita (57), Iran (255) e Singapore (11) e hanno costituito il 37% del totale delle esecuzioni registrate da Amnesty International nel 2022. È probabile che esecuzioni del genere siano avvenute anche in Vietnam, dove però i dati sulla pena di morte rimangono un segreto di stato.

“In un crudele mutamento di scenario, quasi il 40% delle esecuzioni registrate ha riguardato reati di droga. È importante sottolineare che queste esecuzioni colpiscono in modo sproporzionato persone svantaggiate”, ha commentato Callamard.

“E’ giunto il momento che i governi e le Nazioni Unite aumentino le pressioni nei confronti di chi si rende responsabile di queste clamorose violazioni dei diritti umani e assicurino la messa in essere di garanzie internazionali”, ha sottolineato Callamard.

Mentre le esecuzioni sono aumentate, il numero delle condanne a morte inflitte nel 2022 è rimasto sostanzialmente invariato: 2016 rispetto alle 2052 dell’anno precedente.

Di fronte a questa situazione, un po’ di speranza arriva dai Sei stati che, nel 2022, hanno abolito in tutto o in parte la pena di morte.

Kazakistan, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana e Sierra Leone hanno abolito la pena di morte per tutti i reati, Guinea Equatoriale e Zimbabwe per i reati comuni.

Alla fine del 2022, 112 Stati avevano abolito la pena di morte per tutti i reati e altri nove stati l’avevano abolita per i reati comuni.

Questa tendenza positiva sta proseguendo nel 2023.

In Liberia e Ghana sono state avviate iniziative di legge abolizioniste. I governi delle isole Maldive e dello Sri Lanka hanno annunciato che non verrà dato seguito alle condanne a morte, nel parlamento della Malesia sono in discussione proposte di legge per annullare l’obbligatorietà della pena capitale.

“Molti Stati continuano a consegnare la pena di morte alla discarica della storia ed è tempo che altri seguano l’esempio. Gli atti di brutalità in Iran, Arabia Saudita, Cina, Corea del Nord e Vietnam appartengono ormai a una minoranza di Stati. Ma sono proprio questi Stati che devono mettersi al passo coi tempi, proteggere i diritti umani e assicurare giustizia invece di mettere a morte persone”, ha aggiunto Callamard.

“Di fronte a 125 Stati membri delle Nazioni Unite, un numero mai così elevato, in favore di una moratoria sulle esecuzioni, non ci siamo mai sentiti così fiduciosi che quell’orrenda punizione possa essere e sarà consegnata agli annali della storia. Ma i tragici dati nel 2022 ci ricordano che non dobbiamo rimanere indifferenti e inoperosi. La nostra campagna continuerà fino a quando la pena di morte non sarà abolita a livello globale”, ha concluso Callamard.

domenica 14 maggio 2023

Le mamme sempre...equilibriste

1 famiglia su 4 con figli a rischio povertà, il numero di neonati e neomamme in picchiata. Primo parto a 32 anni. Nonostante il sentimento di gioia per la maternità sia quello prevalente nella grandissima maggioranza delle madri, il 43% delle stesse dichiara di non desiderare altri figli. Tra le cause segnalate fatica (40%), difficile conciliazione lavoro-famiglia (33%), mancanza di supporto (26%), scarsità dei servizi (26%).

Questi alcuni dei contenuti del rapporto, realizzato da Save the Children, “Le Equilibriste - La maternità in Italia 2023”.

Il 2022 ha sancito il minimo storico delle nascite in Italia, -1,9% per 392.598 registrazioni all’anagrafe.

Una contrazione della natalità che accompagna l’Italia da decenni e che ormai coinvolge anche la componente straniera della popolazione. Le donne hanno meno figli o non ne hanno affatto: i primi figli nati nel 2021 sono il 34,5% in meno di quelli che nascevano nel 2008, con una contrazione anche del numero di figli nati da entrambi i genitori stranieri, che si è fermato a quota 56.926 nel 2021 (era 79.894 nel 2012.

Il 12,1% delle famiglie con minori nel nostro Paese  (762.000 famiglie) sono in condizione di povertà assoluta, e una coppia con figli su 4 è a rischio povertà, in uno scenario generale nel quale il numero di nuovi nati e di neomamme sono in picchiata, ma non c’è da stupirsi. 

In Italia, infatti, la coorte di donne in età fertile è diminuita nei decenni e si diventa madri sempre più tardi: l’età media al parto è di circa 32 anni, una delle più alte in Europa, e già nel 2019 l’8,9% dei primi parti riguardava madri ultraquarantenni.

Il mercato del lavoro sconta ancora un gap di genere fortissimo. Nel 2022, pur segnando una leggera decrescita, il divario lavorativo tra uomini e donne si è attestato al 17,5%, ma è ben più ampio in presenza di bambini: nella fascia di età 25-54 anni  se c’è un figlio minore, il tasso di occupazione per le mamme si ferma al 63%, contro il 90,4% di quello dei papà, e con due figli minori scende fino al 56,1%, mentre i padri che lavorano sono ancora di più (90,8%), con un divario che sale a 34 punti percentuali.

Le madri laureate lavorano nell’83,2% dei casi, ma le lavoratrici sono molte meno tra chi ha il diploma della scuola superiore (60,8%) e precipitano al 37,4% se c’è solo la licenza media.

Quando il lavoro per le donne c’è, un terzo delle occupate ha un contratto part-time (32% dei casi contro il 7% degli uomini). Se ci sono figli minorenni la quota sale al 37%, a fronte del 5,3% dei padri, e con una metà quasi di queste mamme (15%) che si è vista costretta ad un part-time involontario, che non ha scelto.

Il gap lavorativo per le donne legato a genere e genitorialità è ancora più marcato nel nostro Paese, se si considerano le famiglie monogenitoriali (2,9 milioni nel 2021, il 17% del totale dei nuclei, nell’80% dei casi composte da madri single). Madri che si stima nel 44% dei casi vivano in una condizione di povertà, più diffusa tra chi ha un basso livello di istruzione (65%), rispetto a chi ha conseguito un livello di istruzione medio (37%) o alto (13%).

“Sappiamo che dove le donne lavorano di più nascono anche più bambini, con un legame tra  maggiore fecondità e posizione lavorativa stabile di entrambi i partner.

Tuttavia, la condizione lavorativa delle donne, e in particolare delle madri, nel nostro Paese è ancora ampiamente caratterizzata da instabilità e precarietà, a cui si aggiungono la carenza strutturale di servizi per l’infanzia, a partire dalla rete di asili nido sul territorio, e la mancanza di politiche per la promozione dell’equità nel carico di cura familiare…

L’Italia è un Paese a rischio futuro, e se è vero che il trend di denatalità non può essere invertito velocemente, è ancor più vero che è quanto mai urgente invertire il trend delle politiche a sostegno della genitorialità per non perdere altro tempo prezioso.” ha dichiarato Antonella Inverno, responsabile politiche infanzia e adolescenza di Save the Children Italia.

Se, come dimostrano i dati, il tema del gap lavorativo è cruciale nella vita delle “mamme equilibriste”, anche l’esperienza della maternità in sé mostra tutti i limiti di un Paese, come il nostro, che fatica ad evolversi verso un modello paritario a tutti gli effetti, intorno e dentro alla famiglia. 

In una indagine realizzata da Ipsos per Save the Children e contenuta nel rapporto “Le Equilibriste”, le mamme di bambine e bambini tra 0 e 2 anni testimoniano infatti un chiaro vissuto di solitudine e fatica, dall’evento del parto alla ricerca di un nuovo equilibrio nella vita familiare e lavorativa. 

Nella quotidianità, poi, sono le madri a dedicare gran parte del loro tempo alla cura del figlio/a, 16 ore contro le 7 del partner.

Il 40% delle mamme intervistate fatica a ritagliarsi del tempo per sé. Il 40% delle donne riporta anche vissuti di crisi o conflittualità nella coppia dopo la nascita del figlio/a, e 1 donna su 5 segnala l’emergere di una maggiore aggressività del partner o dichiara di averne avuto paura.

Ben 6 mamme su 10 non hanno accesso al nido, risorsa chiave per la loro partecipazione al mercato del lavoro. In più di 1 caso su 4 ciò è dovuto a carenze del servizio pubblico.

“In Italia si parla molto della crisi delle nascite ma si dedica poca attenzione alle condizioni concrete di vita delle mamme, le ‘equilibriste’ sulle quali grava la quasi totalità del lavoro di cura.

Per sostenere la genitorialità occorre intervenire in modo integrato su più livelli. Occorre potenziare il sostegno economico alle famiglie con minori, a partire da tutte quelle che vivono in condizioni di difficoltà, considerando che la nascita di un bambino rappresenta in Italia uno dei principali fattori di impoverimento…

I pochi bambini che nascono oggi dovrebbero poi vedere assicurato l’accesso ai servizi educativi per la prima infanzia così come alle cure pediatriche. Eppure sappiamo che questi diritti fondamentali non sono assicurati in tutto il Paese dove permangono gravissime disuguaglianze territoriali.

Accanto ad una solida rete di welfare che accompagni i primi mille giorni di vita di un bambino è necessario un deciso impegno per assicurare alle donne - e in particolare alle mamme - la possibilità di sviluppare il proprio percorso lavorativo, riequilibrando i carichi di cura e trasformando un mondo del lavoro ancora oggi in molti casi ostile.

Questo significa sanzionare ogni forma di discriminazione legata alla maternità, promuovere l’applicazione piena della legge sulla parità di retribuzione e rendere effettivi tutti gli interventi sulla parità di genere a partire da quelli previsti nel Pnrr” ha dichiarato Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children.

mercoledì 10 maggio 2023

In forte ripresa il turismo

In Italia, nel 2022, il turismo dei residenti è stato contraddistinto da una netta ripresa. I viaggi con pernottamento sono aumentati del 31,6% rispetto al 2021, salendo a 54,8 milioni e riavvicinandosi ai valori del 2019, anno precedente la pandemia, pur rimanendo ancora inferiori (-23%). Questi i principali dati forniti, recentemente, dall’Istat.

I viaggi all’estero, non più ostacolati dalle restrizioni alla mobilità internazionale, sono aumentati in modo marcato (+143%, circa 48 milioni di notti in più) ma anch’essi non hanno raggiunto ancora i livelli precedenti la pandemia (-36,4% rispetto al 2019).

Anche i viaggi in Italia hanno ripreso a crescere (+18,3% sul 2021, 17,6 milioni le notti recuperate), seppur inferiori di circa il 19% rispetto al 2019.

Le vacanze hanno superato i 51 milioni (+32% sul 2021) e sono state circa il 93% del totale (quasi il 96% delle notti).

Hanno prevalso le vacanze “lunghe”, di 4 o più notti (55% dei viaggi e circa 83% delle notti), che nel 2022 sono salite a 30,1 milioni (+23,2%; +20,5% in termini di notti) e si sono riportate sostanzialmente ai livelli pre-pandemia.

Le vacanze brevi, invece, pur registrando un notevole aumento (+47% di viaggi, +56% di notti sul 2021) sono rimaste il 26% in meno di quelle registrate nel 2019.

Solo il 6,9% dei viaggi si è svolto per motivi di lavoro (3,8 milioni), senza sostanziali variazioni in termini di viaggi e di notti rispetto al 2021. Gli spostamenti per lavoro non hanno mosttato quindi segnali di ripresa, attestandosi a circa la metà di quelli registrati nel 2019, con una durata media inferiore rispetto al 2021 (3,8 notti, oltre una notte in meno).

Le riunioni d’affari sono state le motivazioni più frequenti (17,1%), seguite dai congressi, convegni e seminari (16,1%) e dalle attività di rappresentanza, installazione o vendita (9,7%).

I viaggi di vacanza sono state mediamente più brevi rispetto al 2021 (da 6,9 a 6,5 notti), con effetto sulla durata media dei viaggi nel loro complesso, che è diminuita lievemente e si è attestata a 6,3 notti (era 6,8 nel 2021).

Le escursioni (visite in giornata) nel 2022 sono state 46,8 milioni (+29,3% sul 2021) e sono tornate ad essere diffuse durante tutto l’anno, con una lieve prevalenza nel periodo primaverile (26,9%).

La percentuale di residenti che, in media, hanno effettuato almeno un viaggio in un trimestre è aumentata decisamente, passando dal 14,9% del 2021 al 19,3% del 2022 (24,2% nel 2019).

La media nazionale dei viaggi pro-capite è aumentata (0,9) e si è avvicinata a quella precedente alla pandemia (1,2 nel 2019), con il valore più elevato nel Nord-Ovest (1,3) e più basso al Sud (0,4).

Le vacanze al mare continuano a essere le preferite dai residenti (52,5% sul totale delle vacanze).

Come per le vacanze in città, rispetto al 2019 si è recuperato quasi completamente l’ammontare delle vacanze al mare in Italia (-6,7%), mentre all’estero il recupero è inferiore (-15,8%) e solo durante i mesi estivi (luglio-settembre) si sono raggiunti di nuovo i livelli pre-pandemici.

Le vacanze in montagna e campagna sono rimaste stabili sul 2021 e sono state, rispettivamente, il 24,5% e il 14,1% del totale delle vacanze.

Durante l’estate del 2022 le visite alle bellezze naturali (54,9% dei viaggi estivi) sono tornate ai livelli pre-pandemici ed è continuata la ripresa dei viaggi con almeno un’attività culturale (60,8%), che tuttavia non hanno recuperato completamente rispetto al 2019 (-10,7%).

Nel 2022 gli alloggi privati si sono confermati come la sistemazione prevalente per gli spostamenti turistici (53,7%, 62,1% in termini di pernottamenti), soprattutto in Italia (54,6%, 63,2% di notti).

Nel 2022 sono stati proprio gli alberghi a beneficiare in misura maggiore rispetto ad altri tipi di alloggio della decisa ripresa della domanda turistica (+51,8% di viaggi e +45,4% di pernottamenti rispetto al 2021).

Le distanze dai livelli pre-Covid si sono progressivamente ridotte, ma nel 2022 i viaggi in albergo sono stati ancora circa il 73% di quelli registrati nel 2019, con una perdita di quasi 28 milioni di pernottamenti (-13,5% in Italia, -38,9% all’estero).

domenica 7 maggio 2023

Prosegue la strage dei morti sul lavoro

 

Nel 2022 si sono verificati 1.090 infortuni mortali sul lavoro, in diminuzione rispetto al 2021, anno in cui i morti erano stati 1.221, ma tale riduzione è stata determinata dalla quasi assenza di vittime Covid tra gli infortuni mortali avvenuti nel 2022.

Comunque, al di là della diminuzione, i morti sul lavoro nel 2022 sono stati ancora molti, troppi.

Dei 1.090 infortuni mortali verificatisi nel corso del 2022, sono stati 790 gli infortuni mortali in occasione di lavoro, mentre sono stati 300 quelli rilevati in itinere.

Questi ultimi sono risultati in significativo aumento (+21%) rispetto al 2021. Una delle cause è probabilmente la riduzione del lavoro in smart working.

Numeri alla mano, gli infortuni mortali “non Covid” sono cresciuti nell’ultimo anno del +17% (da 927 a 1.080), mentre quelli “Covid” sono quasi scomparsi dalle statistiche: da 294 nel 2021 a 10 casi nel 2022, con una diminuzione del -96,6 %.

Con la scomparsa tra gli infortuni mortali delle morti per “Covid”, i dati del 2022 sono del tutto analoghi a quelli del 2019, epoca pre-Covid, a dimostrazione che il tragico fenomeno delle morti sul lavoro sostanzialmente non subisce diminuzioni da anni.

Le denunce di infortunio sul lavoro (mortali e non mortali) sono cresciute del +25,7% rispetto al 2021, arrivando a quota 697.773, con il settore della sanità sempre in testa alla graduatoria degli infortuni in occasione di lavoro (84.327 denunce). Seguono, attività manifatturiere (75.295) e trasporti (53.932).

Resta purtroppo importante in questi dati anche la lettura sull’evoluzione delle denunce totali di infortunio per Covid: a fine dicembre 2021 erano 48.876, mentre a fine dicembre 2022 sono diventate 117.154, a dimostrazione che il virus è meno pericoloso, ma è ancora presente nei luoghi di lavoro.

Nel 2022 le regioni che hanno segnato i più alti indici infortunistici di mortalità, ovvero l’indice che stabilisce il rapporto tra gli infortuni mortali e la popolazione lavorativa presente in regione, sono state Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Basilicata, Marche, Umbria e Campania.

La media dell’indice di incidenza della mortalità in Italia alla fine del 2022 è stato di 35 decessi ogni milione di occupati.

Tra i dati più rilevanti ci sono quelli dei lavoratori stranieri.  

Gli stranieri deceduti in occasione di lavoro sono stati 150, cioè il 19% del totale. Anche qui l’analisi sull’incidenza infortunistica svela chiaramente come gli stranieri abbiano un rischio di morte sul lavoro più che doppio rispetto agli italiani. Gli stranieri infatti hanno registrato 66,5 morti ogni milione di occupati, contro 31,5 italiani che hanno perso la vita durante il lavoro ogni milione di occupati.

Le donne che hanno perso la vita in occasione di lavoro nel 2022 sono state 60 su 790. Altre 60 donne, invece, hanno perso la vita in itinere, cioè nel percorso casa-lavoro.

La fascia d’età più colpita dagli infortuni mortali sul lavoro è stata sempre quella tra i 55 e i 64 anni (303 su un totale di 790), ma stando all’incidenza di mortalità il dato più alto rapportato all’età degli occupati lo si è rilevato tra gli ultrasessantacinquenni, che hanno registrato 93,6 infortuni mortali ogni milione di occupati.

L’incidenza di mortalità minima è rimasta ancora nella fascia di età tra 25 e 34 anni, (pari a 17,1), mentre nella fascia dei più giovani, ossia tra 15 e 24 anni, l’incidenza è stata di 25,7 morti ogni milione di occupati.

Si è confermato, quindi, che anche nel 2022 la maggior frequenza di infortuni mortali si è riscontrata tra i lavoratori più anziani.

Mauro Rossato, presidente dell’osservatorio sicurezza sul lavoro Vega Engineering di Mestre, osservatorio che ha fornito i dati citati, ha così commentato questi dati:

“Purtroppo siamo consapevoli di come in questo drammatico bilancio restino fuori molti altri decessi. Quelli che appartengono all’economia sommersa e a tutti i lavoratori che non sono assicurati Inail.

Ci auguriamo, dunque, che il nostro impegno quotidiano nell’elaborazione di questi studi possa sostenere un concreto percorso di prevenzione sugli infortuni sul lavoro.

L’obiettivo del nostro osservatorio è e sarà sempre di diffondere i dati dell’emergenza per spronare tutti coloro che si occupano di tutelare la salute dei lavoratori a riflettere e a rispondere quanto prima in modo efficace a questa strage.

Perché è chiaro che in un Paese come il nostro, in cui ci sono tutti gli strumenti normativi per proteggere i lavoratori dagli infortuni, non si può arrivare ad ogni fine anno con un bollettino di morti che parla sempre di oltre 1.000 vittime.

Il punto è che, con un serio programma di formazione e aggiornamento dei lavoratori, attuando azioni di efficace controllo preventivo e di sospensione delle attività in aziende che presentano gravi violazioni delle norme antinfortunistiche, tutti gli incidenti potrebbero essere evitati. Tutti, da quelli meno gravi a quelli più gravi, fino a quelli mortali”.

Non posso che concordare con le considerazioni formulate da Rossato.

Ma non mi sembra che, per il momento, ci siano le condizioni affinchè quelle azioni di controllo preventivo e di sospensione delle attività, evocate da Rossato, possano effettivamente aumentare in misura considerevole, come sarebbe invece necessario.

mercoledì 3 maggio 2023

Come rilanciare la sanità pubblica

 

La fondazione Gimbe ha elaborato un piano per rilanciare la sanità pubblica ormai in “codice rosso” per la coesistenza di varie “patologie”: imponente sotto-finanziamento, drammatica carenza di personale sanitario, crescenti diseguaglianze, modelli organizzativi obsoleti e inesorabile avanzata del privato.

Secondo la fondazione Gimbe, una crisi di sostenibilità senza precedenti  caratterizza il servizio sanitario nazionale, vicino al punto di non ritorno, tanto che il diritto costituzionale alla tutela della salute nell’indifferenza di tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 15 anni si sta trasformando in un privilegio per pochi, lasciando indietro le persone più fragili e svantaggiate, in particolare nel Sud del Paese.

Di qui la necessità di elaborare un piano di rilancio della sanità pubblica, in quattordici punti.

La salute in tutte le politiche

Mettere la salute e il benessere delle persone al centro di tutte le decisioni politiche: non solo sanitarie, ma anche ambientali, industriali, sociali, economiche e fiscali, oltre che di istruzione, formazione e ricerca.

Prevenzione e promozione della salute

Diffondere la cultura e potenziare gli investimenti per la prevenzione e la promozione della salute e attuare l’approccio integrato “One health”, perché la salute delle persone, degli animali, delle piante e dell’ambiente sono strettamente interdipendenti.

Governance Stato-Regioni

Potenziare le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni, nel rispetto dei loro poteri, per ridurre diseguaglianze, iniquità e sprechi e garantire il diritto costituzionale alla tutela della salute su tutto il territorio nazionale.

Finanziamento pubblico

Aumentare il finanziamento pubblico per la sanità in maniera consistente e stabile, allineandolo entro il 2030 alla media dei Paesi europei, al fine di garantire l’erogazione uniforme dei Lea (livelli essenziali di assistenza), l’accesso equo alle innovazioni e il rilancio delle politiche del personale sanitario.

Livelli essenziali di assistenza

Garantire l’aggiornamento continuo dei Lea per rendere rapidamente accessibili le innovazioni e potenziare gli strumenti per monitorare le Regioni, al fine di ridurre le diseguaglianze e garantire l’uniforme esigibilità dei Lea in tutto il territorio nazionale.

Programmazione, organizzazione e integrazione dei servizi sanitari e socio-sanitari

Programmare l’offerta di servizi sanitari in relazione ai bisogni di salute e renderla disponibile tramite reti integrate, che condividono percorsi assistenziali, tecnologie e risorse umane, al fine di ridurre la frammentazione dell’assistenza, superare la dicotomia ospedale-territorio e integrare assistenza sanitaria e sociale.

Personale sanitario

Rilanciare le politiche sul capitale umano in sanità al fine di valorizzare e (ri)motivare la colonna portante del servizio sanitario nazionale: investire sul personale sanitario, programmare adeguatamente il fabbisogno di tutti i professionisti sanitari, riformare i processi di formazione, valutazione e valorizzazione delle competenze secondo un approccio multi-professionale.

Sprechi e inefficienze

Ridurre sprechi e inefficienze che si annidano a livello politico, organizzativo e professionale e riallocare le risorse in servizi essenziali e innovazioni, aumentando il valore della spesa sanitaria.

Rapporto pubblico-privato

Normare l’integrazione pubblico-privato secondo i reali bisogni di salute della popolazione e disciplinare la libera professione, al fine di ridurre le diseguaglianze d’accesso ai servizi sanitari e arginare l’espansione della sanità privata accreditata.

Sanità integrativa

Riordinare la normativa sui fondi sanitari al fine di renderli esclusivamente integrativi rispetto a quanto già incluso nei Lea, arginando diseguaglianze, fenomeni di privatizzazione, erosione di risorse pubbliche e derive consumistiche.

Ticket e detrazioni fiscali

Rimodulare ticket e detrazioni fiscali per le spese sanitarie, secondo princìpi di equità sociale ed evidenze scientifiche, al fine di ridurre lo spreco di denaro pubblico e il consumismo sanitario.

Trasformazione digitale

Promuovere cultura e competenze digitali nella popolazione e tra professionisti della sanità e “caregiver” e rimuovere gli ostacoli infrastrutturali, tecnologici e organizzativi, al fine di minimizzare le diseguaglianze e migliorare l’accessibilità ai servizi e l’efficienza in sanità.

Informazione alla popolazione

Potenziare l’informazione istituzionale basata sulle evidenze scientifiche e migliorare l’alfabetizzazione sanitaria delle persone, al fine di favorire decisioni informate sulla salute, ridurre il consumismo sanitario e contrastare le fake news, oltre che aumentare la consapevolezza del valore del servizio sanitario nazionale.

Ricerca

Destinare alla ricerca clinica indipendente e alla ricerca sui servizi sanitari almeno il 2% del finanziamento pubblico per la sanità, al fine di produrre evidenze scientifiche per informare scelte e investimenti del servizio sanitario nazionale.