mercoledì 26 aprile 2023

Festa della Liberazione e non festa della libertà

Giorgia Meloni, in una lettera inviata al “Corriere della Sera”, tra l’altro, ha sostenuto di essere d’accordo con chi, anche in passato, come Berlusconi, ha auspicato che la festa della Liberazione si trasformasse in festa della libertà. Io non sono d’accordo.

Il 25 aprile, infatti, deve restare la festa della Liberazione, dal nazifascismo, e quindi non può essere considerata semplicemente la festa della libertà o, almeno, non solamente la festa della libertà.

E questo perché non si deve mai dimenticare che il 25 aprile è, appunto, in primo luogo, la festa della Liberazione dal nazifascismo, a cui contribuirono gli antifascisti, oltre che le truppe dei cosiddetti Paesi alleati.

Sostenere, invece, che il 25 aprile è la festa della libertà, significa sminuire il suo significato ed anche trasformarla, non riconoscendo il ruolo che l’antifascismo ha svolta nella liberazione dell’Italia dal nazifascismo.

Non a caso Giorgia Meloni, nella lettera in questione, non ha mai citato il termine “antifascismo”. Forse perché lei non si ritiene antifascista?

Certo è importante che nella lettera, come del resto avvenuto in altre occasioni, Giorgia Meloni abbia esplicitamente criticato il fascismo.

Ma perché non dichiararsi antifascista? E’ forse troppo per lei e per una parte consistente del gruppo dirigente del partito che presiede? Ma così non rende meno credibile la sua critica al fascismo?

Per me, e per molti altri, è importante dichiararsi antifascisti, e non, ad esempio, afascisti. E’ importante considerare il 25 aprile la festa della Liberazione dal nazifascismo.

E’ importante ritenere la nostra Costituzione una Costituzione antifascista.

Anche per Giorgia Meloni, invece, come per La Russa, la Costituzione italiana non è antifascista?

Inoltre, Giorgia Meloni ha sbagliato, nel celebrare il 25 aprile, a recarsi solamente all’Altare della Patria. Non è andata, come ha fatto invece Mattarella, in uno dei luoghi simbolo della Resistenza o degli eccidi compiuti dal nazifascismo.

E non si pensi che discutere ancora di antifascismo, a circa 80 anni dalla Liberazione, sia ormai superato. Perché così, invece, si evidenzia uno dei tratti costitutivi, il principale forse, della nostra Repubblica.

mercoledì 19 aprile 2023

Accogliere i rifugiati con dignità


Gli ostacoli più incomprensibili e inattesi che i rifugiati incontrano in Italia sono quelli burocratici. Nel 2022 sono diverse le criticità rilevate: in particolare i ritardi nel primo rilascio e nel rinnovo dei permessi di soggiorno, causati dal notevole carico di lavoro che grava su Commissioni territoriali, Prefetture e Questure.

Questa è una delle considerazioni contenute nel rapporto 2023 del centro Astalli, una fotografia aggiornata sulle condizioni dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

Inoltre, i tempi di attesa possono arrivare a quasi un anno dalla presentazione della richiesta di asilo alla consegna del documento.

Molte persone assistite dal servizio di orientamento legale del centro  Astalli hanno riferito di non essere riusciti ad accedere in Questura per la formalizzazione della domanda di protezione internazionale. Ciò ha comportato la necessità di provare a entrare più volte, mettendosi in fila anche di notte.

Nel 2022 sono arrivati via mare in Italia 105.129 migranti, di cui 13.386 minori non accompagnati.

Il sistema di accoglienza nazionale ha registrato alla fine del 2022 un totale di presenze pari a 107.677 persone.

La maggior parte di questi posti però continua a essere offerta da centri di accoglienza straordinaria (Cas) che non sempre garantiscono servizi essenziali nei percorsi di accompagnamento, rimanendo spesso delle oasi nel deserto nelle periferie delle aree urbane.

Andrebbe estesa invece la rete Sai (sistema accoglienza e integrazione) - che alla fine del 2022 accoglieva solo 33.848 persone -, un sistema appunto da ampliare e su cui investire, affinché a tutti possa essere garantito un efficace supporto all’integrazione, secondo standard nazionali uniformi.

L’accoglienza diffusa, che porta con sé una quotidiana interazione tra cittadini e rifugiati, indica la strada per costruire un’Italia diversa.

A Roma, poi, nei soli centri d’accoglienza, il 50% dei beneficiari si è rivelato portatore di una o più vulnerabilità fisiche o psicologiche.

Una media stabile negli ultimi anni, ciò che però ha contraddistinto il 2022 è stata la gravità dei casi stessi.

L’ingresso di molti ospiti affetti da patologie croniche o degenerative ha reso particolarmente difficile pianificare progetti di inclusione finalizzati all’autonomia.

Ha portato inoltre a un ripensamento delle tipologie di interventi, scanditi da tempi diversi rispetto a quelli, spesso serrati, dell’accoglienza istituzionale, e a rimodulare i tradizionali strumenti di lavoro per adattarli alla gestione di casi complessi, che necessitano di particolari cure e sostegno.

Si sono infine riscontrate vulnerabilità, in alcuni casi estremamente gravi e non di rado multiple, che hanno imposto di avviare una riflessione sul tipo di accoglienza necessaria a persone con bisogni socio-sanitari specifici.

L’integrazione dei rifugiati è un processo che si innesca fin dalle prime fasi di inserimento ma che necessita, per essere efficace e duraturo, di orientamento e supporto.

In tal senso la scuola di italiano del centro Astalli nel 2022 ha rappresentato un presidio sociale per molti che oltre a trovarsi nella condizione di imparare una nuova lingua, hanno avuto bisogno di uno specifico accompagnamento formativo.

L’aumento di studentesse, solo in parte determinato dalla presenza di ucraine, è segno del desiderio di aumentare le possibilità di inserimento anche al di fuori del lavoro domestico e familiare.

Le opportunità di tirocini formativi, previste dal Sai, così come i contributi erogabili nell’ambito di progettualità specifiche, possono fare la differenza per i singoli rifugiati coinvolti, ma restano interventi episodici, buone prassi che andrebbero replicate e messe a sistema.

Inoltre, il “digital divide” che colpisce in generale le fasce più vulnerabili della popolazione, diventa un tema dirimente per molti migranti forzati che rischiano di non poter accedere a servizi pubblici e privati, di essere così discriminati e di non vedersi garantiti di conseguenza alcuni diritti o l’accesso a opportunità.

Le azioni di contrasto in tal senso si dimostrano essenziali, e per questo sempre più sono state le richieste per la riuscita dei percorsi di inclusione.

La questione dell’inserimento nel mondo del lavoro e dell’effettività dei percorsi di inclusione sociale non può essere risolta dal Terzo settore: richiede riflessione e impegno da parte di tutte le istituzioni competenti, attraverso una cabina di regia pubblica in grado di costruire soluzioni concrete e accessibili.

domenica 16 aprile 2023

Gli occupati aumentano ma troppo poco

 

Nel 2022, in Italia, l’occupazione è cresciuta dell’1,9%, rispetto all’anno precedente, un valore percentuale superiore al valore medio dei Paesi dell’Unione europea (+1,5) e ai valori percentuali di Paesi come la Germania (+1,7), la Francia (+0,9) e la Spagna (+1,7). Gli occupati, in valore assoluto, sono aumentati di 326.000 unità. Tutto bene quindi? Non proprio.

Certo è positivo che, nel nostro Paese, gli occupati siano aumentati.

Ma l’aumento degli occupati non è stato sufficiente a ridurre i problemi strutturali che contraddistinguono da tempo l’occupazione in Italia, problemi che si evidenziano chiaramente se si effettuano gli opportuni confronti con gli altri Paesi dell’Ue.

Infatti, nel 2022, il tasso di occupazione in Italia ha assunto il valore più basso tra quelli relativi al tasso di occupazione verificatisi nei 27 Paesi dell’Unione europea. Quindi in Italia il valore del tasso di occupazione, pari al 60,1% è risultato essere notevolmente inferiore al valore medio dell’Ue, pari al 69,9%.

Rispetto al 2011, il tasso di occupazione, nel nostro Paese, è sì aumentato, passando dal 58,2% al 60,1%, ma in misura insufficiente, tanto che l’Italia è diventato il “fanalino di coda” fra i Paesi Ue, nel 2022. Almeno nel 2011 la Grecia era l’ultimo Paese dell’Ue, quanto a tasso di occupazione. Nel 2022, invece, ci ha superato anche la Grecia.

E in Italia, da tempo, il valore del tasso di occupazione complessivo è basso perché molto basso è il tasso di occupazione femminile, pari al 52,1%, contro una media Ue del 65%, e molto alto è il tasso di disoccupazione dei giovani under 25, pari al 22,1%, contro il 15% della media europea.

Pertanto, gli occupati, in Italia, dovrebbero aumentare in misura molto consistente, in misura decisamente maggiore rispetto a quanto avvenuto nel 2022, se si vuole, come necessario, che il tasso di occupazione cresca notevolmente.

Nel 2022 alcuni elementi positivi si sono verificati: gli occupati permanenti sono aumentati di 515.000 unità, mentre quelli temporanei sono diminuiti di 143.000 unità.

Ma, ripeto, nel 2022, sono rimasti inalterati i problemi strutturali del mercato del lavoro italiano.

Sarebbe necessaria una politica del lavoro all’altezza di quei problemi, politica di cui però non si avverte nemmeno l’inizio.

mercoledì 12 aprile 2023

Sempre meno le nascite

Nel 2022 i nati sono scesi, per la prima volta dall’unità d’Italia, sotto la soglia delle 400.000 unità, attestandosi a 393.000. Dal 2008, ultimo anno in cui si registrò un aumento delle nascite, il calo è stato di circa 184.000 nati, di cui 27.000 concentrati dal 2019 in avanti.

Questi e altri dati sono stati recentemente resi noti dall’Istat

La diminuzione delle nascite è dovuta solo in parte alla spontanea o indotta rinuncia ad avere figli da parte delle coppie.

In realtà, tra le cause pesano molto tanto il calo dimensionale quanto il progressivo invecchiamento della popolazione femminile nelle età convenzionalmente considerate riproduttive (dai 15 ai 49 anni).

Dopo il lieve aumento del numero medio di figli per donna verificatosi tra il 2020 e il 2021, è ripreso il calo dell’indicatore congiunturale di fecondità, il cui valore si è attestato nel 2022 a 1,24, tornando così al livello registrato nel 2020.

E’ proseguita quindi la tendenza alla riduzione dei progetti riproduttivi, già in atto da diversi anni nel nostro Paese, con un’età media al parto, stabile rispetto al 2021, pari a 32,4 anni.

La riduzione delle nascite è stata pertanto una delle cause della diminuzione della popolazione.

Infatti, la popolazione residente in Italia al 1° gennaio 2023 era di 58 milioni e 851.000 unità, 179.000 in meno rispetto all’anno precedente, per una riduzione pari all’0,30%.

E’ proseguita, dunque, la tendenza alla diminuzione della popolazione, ma con un’intensità minore rispetto sia al 2021 (-0,35%), sia soprattutto al 2020 (-0,67%), anni durante i quali gli effetti della pandemia avevano accelerato un processo iniziato già nel 2014.

Il calo della popolazione è stato il frutto di una dinamica demografica sfavorevole che ha visto un eccesso dei decessi sulle nascite, non compensato dai movimenti migratori con l’estero.

I decessi sono stati 713.000, le nascite 393.000, toccando un nuovo minimo storico, con un saldo naturale quindi di -320.000 unità. Le iscrizioni dall’estero sono state pari a 361.000 mentre 132.000 sono state le cancellazioni per l’estero. Ne è derivato un saldo migratorio con l’estero positivo per 229.000 unità, in grado di compensare solo in parte l’effetto negativo del pesante bilancio della dinamica naturale.

Inoltre, è proseguito il processo di invecchiamento della popolazione.

Infatti l’età media della popolazione è passata da 45,7 anni a 46,4 anni tra l’inizio del 2020 e l’inizio del 2023. Dunque, in questo periodo la popolazione residente è mediamente invecchiata almeno di ulteriori otto mesi.

La popolazione ultrasessantacinquenne, che nell’insieme è risultata essere pari a 14 milioni e 177.000 individui a inizio 2023, costituiva il 24,1% della popolazione totale contro il 23,8% dell’anno precedente.

Nel caso specifico delle persone molto anziane, ovvero gli ultraottantenni, si è riscontrato un incremento che li ha portati a 4 milioni e 530.000 e a rappresentare il 7,7% della popolazione totale, contro il 7,6% dell’anno precedente.

Sono risultati al contrario in diminuzione tanto gli individui in età attiva quanto i più giovani: i 15-64enni sono scesi da 37 milioni e 489.000 (63,5%) a 37 milioni e 339.000 (63,4%), mentre i ragazzi fino a 14 anni di età sono scesi da 7 milioni e 490.000 (12,7%) a 7 milioni e 334.000 (12,5%).

Il numero stimato di ultracentenari (100 anni di età e più) ha raggiunto nel 2022 il suo più alto livello storico, sfiorando la soglia delle 22.000 unità, oltre 2.000 in più rispetto all’anno precedente.

Quindi, nel 2022, è stato confermato che in Italia uno dei principali problemi demografici, se non il principale, è rappresentato dall’insufficiente numero delle nascite.

Sono bene note le conseguenze negative determinate da un basso di natalità, accoppiato soprattutto a un elevato invecchiamento della popolazione.

E’ sufficiente citare la tendenza alla difficile sostenibilità economica del sistema pensionistico.

E’ possibile però operare per accrescere il tasso di natalità, come dimostra quanto avvenuto in altri Paesi, come ad esempio la Francia. Ma, fino ad ora, gli interventi che in Italia sono stati realizzati per favorire le nascite sono da considerare del tutto insufficienti.

Occorre aggiungere, peraltro, che, anche se si ottenesse un aumento del tasso di natalità in tempi brevi, gli effetti positivi a livello economico, ad esempio sulla sostenibilità economica del sistema pensionistico, si determinerebbero solamente nel medio-lungo periodo.

Quindi nel breve periodo sarebbe comunque necessario favorire un incremento dei flussi migratori dall’estero finalizzati però ad aumentare l’occupazione, cosa che sarebbe auspicabile anche perché nel nostro Paese sono carenti alcune figure professionali, soprattutto perché i giovani italiani non sono interessati ad esse.

mercoledì 5 aprile 2023

300.000 minori lavorano illegalmente

 

Si stima che in Italia 336.000 minorenni tra i 7 e i 15 anni abbiano avuto esperienze di lavoro, continuative, saltuarie o occasionali - il 6,8% della popolazione di quell’età, quasi 1 minore su 15. Lavorano in nero, ovviamente, in modo illegale perché i minori di 16 anni non potrebbero lavorare.

Questi dati sono contenuti in “Non è un gioco”, la nuova indagine sul lavoro minorile nel nostro Paese, realizzata da Save the Children.

Tra i 14-15enni che dichiarano di svolgere o di aver svolto un’attività lavorativa, un gruppo consistente (27,8%) ha svolto lavori particolarmente dannosi per i percorsi educativi e per il benessere psicofisico, perché svolti in maniera continuativa durante il periodo scolastico, oppure svolti in orari notturni o, ancora, perché percepiti dagli stessi intervistati come pericolosi. Dalle stime effettuate si tratta di circa 58.000 adolescenti.

I settori prevalentemente interessati dal fenomeno del lavoro minorile sono la ristorazione (25,9%) e la vendita al dettaglio nei negozi e attività commerciali (16,2%), seguiti dalle attività in campagna (9,1%), in cantiere (7,8%), dalle attività di cura con continuità di fratelli, sorelle o parenti (7,3%). 

Ma emergono anche nuove forme di lavoro online (5,7%), come la realizzazione di contenuti per social o videogiochi, o ancora il reselling di sneakers, smartphone e pods per sigarette elettroniche.

Nel periodo in cui lavorano, più della metà degli intervistati lo fa tutti i giorni o qualche volta a settimana e circa 1 su 2 lavora più di 4 ore al giorno.

Nello studio in questione è stata indagata anche la relazione tra lavoro e giustizia minorile, mettendo in luce un forte legame tra esperienze lavorative troppo precoci e coinvolgimento nel circuito penale. 

Quasi il 40% dei minori e giovani adulti presi in carico dai servizi della giustizia minorile - più di uno su tre – ha affermato di aver svolto attività lavorative prima dell’età legale consentita.

Tra questi, più di un minore su dieci ha iniziato a lavorare all’età di 11 anni o prima e più del 60% ha svolto attività lavorative dannose per lo sviluppo e il benessere psicofisico.

“Per molti ragazzi e ragazze in Italia l’ingresso troppo precoce nel mondo del lavoro, prima dell’età consentita, incide negativamente sulla crescita e sulla continuità educativa, alimentando il fenomeno della dispersione scolastica. Sono ragazzi che rischiano di rimanere ingabbiati nel circolo vizioso della povertà educativa, bloccando di fatto le aspirazioni per il futuro, anche sul piano della formazione e dello sviluppo professionale, con pesanti ricadute anche sull’età adulta” ha dichiarato Claudio Tesauro, presidente di Save the Children. 

I minori che lavorano prima dell’età legale consentita rischiano di compromettere i loro percorsi educativi e di crescita.

Come certifica l’Istat, la quota dei giovani 18-24enni “dispersi”, ovvero che escono dal sistema di istruzione e formazione senza aver conseguito un diploma o una qualifica, nel 2021 era pari al 12,7% contro una media europea del 9,7%. 

Il lavoro minorile può anche influenzare la condizione futura di giovani “Neet” - Not in education, employment, or training -, cioè che non studiano e non lavorano, alimentando la trasmissione intergenerazionale della povertà e dell’esclusione sociale.

I ragazzi e le ragazze di età compresa tra 15 e 29 anni in questa situazione in Italia sono più di 1 milione e 500.000 nel 2022, il 19 % della popolazione di riferimento, con un valore in Europa secondo solo a quello osservato in Romania.

La crisi economica e l’aumento della povertà in Italia - sono 1 milione e 382.000 i minori che vivono in povertà, il 14,2% del totale - rischiano di far crescere il numero di minori costretti a lavorare prima del tempo, spingendone molti verso le forme di sfruttamento più intense.

Dall’indagine è emerso, inoltre, che tra i 14-15enni intervistati che lavorano o hanno lavorato durante l’anno precedente la rilevazione, quasi 1 su 3 (29,9%) lo fa durante i giorni di scuola, tra questi il 4,9% salta le lezioni per lavorare.

Dai dati si evince che la percentuale di minori bocciata durante la scuola secondaria di I o di II grado è quasi doppia tra chi ha lavorato prima dei 16 anni rispetto a chi non ha mai lavorato.

Più che doppia la percentuale di minori con esperienze lavorative prima dell’età legale consentita che hanno interrotto temporaneamente la scuola secondaria di I o II grado, rispetto ai pari senza esperienze lavorative.

“La ricerca mette in luce come molti ragazzi oggi in Italia entrano nel mondo del lavoro dalla porta sbagliata: troppo presto, senza un contratto, nessuna forma di tutela, protezione e conoscenza dei loro diritti e questo incide negativamente sulla loro crescita e sul loro percorso educativo.

Il lavoro minorile precoce è infatti l’altra faccia della medaglia della dispersione scolastica.

In una stagione di crisi economica e di forte crescita della povertà minorile il rischio è che, in assenza di interventi, il quadro possa ancora peggiorare.

Per questo motivo chiediamo un’azione istituzionale coordinata che innanzitutto rilevi in modo sistematico la consistenza del fenomeno nei diversi territori e metta in atto misure volte a prevenirlo.

Auspicando la rapida istituzione della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia attualmente in via di approvazione, chiediamo inoltre che la Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza - che deve ancora essere ricostituita - promuova una indagine conoscitiva sul lavoro minorile e le sue connessioni con la dispersione scolastica.

Allo stesso tempo, è necessario un intervento diretto a partire dai territori più deprivati per rafforzare le reti di monitoraggio, il sostegno ai percorsi educativi e formativi e il contrasto alla povertà economica ed educativa, con un’azione sinergica delle istituzioni e di tutti gli attori sociali ed economici” ha aggiunto Raffaela Milano, direttrice del programma Italia-Ue di Save the Children. 

domenica 2 aprile 2023

Cambiare il nuovo codice degli appalti

Il governo ha recentemente approvato il decreto legislativo di riforma del Codice degli appalti. Tale decreto ha suscitato numerose critiche. Alcune associazioni, Libera, Avviso pubblico, Legambiente e Cgil,  hanno presentato alcune proposte di modifica, contro i rischi di infiltrazione mafiosa e di diffusione di fenomeni corruttivi, rischi che si manifesterebbero se il decreto in questione non subisse alcun cambiamento.

Si tratta di garantire legalità, trasparenza, concorrenza, tutela effettiva della salute e della sicurezza di lavoratrici e lavoratori, obbligatorietà delle clausole sociali, partecipazione dei cittadini attraverso un vero dibattito pubblico, in un quadro di semplificazione delle norme e delle procedure.

Questi sono gli obiettivi delle associazioni citate, che hanno diffuso una nota in cui si può leggere, tra l’altro:

“A seguito dell’approvazione da parte del Consiglio dei ministri della proposta di nuovo Codice degli appalti e dell’esame del testo in Parlamento, le seguenti associazioni e organizzazioni sindacali hanno avviato un confronto interno volto ad analizzare nel merito le proposte di modifica rispetto alla legislazione vigente.

L’origine di questa lettura sistemica da parte di realtà che sono ciascuna portatrice di valori, contenuti e sensibilità proprie in materia di prevenzione e contrasto a mafie e corruzione, tutela dei diritti dei lavoratori, ambiente e sviluppo sostenibile, si fonda sull’esperienza maturata durante il Covid, denominata ‘Giusta Italia’.

In quei mesi terribili per il nostro Paese è nato un patto per far uscire l’Italia dalla cultura dell’emergenza, fondato sull’etica della responsabilità e finalizzato a far ripartire il Paese nella legalità, mettendo al centro valori come la partecipazione dei cittadini, la trasparenza della pubblica amministrazione, la tutela dei diritti sociali e ambientali.

Un patto per andare oltre gli errori del passato e che guarda con preoccupazione a come mafie, corruzione, criminalità economica e ambientale sappiano sfruttare l’allentarsi delle regole, conquistando consenso sociale e riciclando capitali accumulati illegalmente, a detrimento dell'economia legale, di un lavoro sicuro e giustamente retribuito, della qualità dell’ambiente in cui viviamo. 

Sono preoccupazioni a cui è fondamentale rispondere anche grazie ai  principi che ispirano quello che diventerà il nuovo Codice degli appalti, ovvero la massima tempestività e il miglior rapporto tra qualità e prezzo; l'importanza di garantire legalità, trasparenza, concorrenza e tutela effettiva, non subordinata ai costi, della salute e della sicurezza di lavoratrici e lavoratori; la necessità di costruire fiducia nella pubblica amministrazione e negli operatori economici per gestire in maniera efficace le risorse pubbliche disponibili, a partire da quelle previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, in un quadro generale di semplificazione delle norme e delle procedure.  

Ogni sforzo deve essere compiuto per migliorare il sistema nel suo complesso.

Perciò è necessario garantire le condizioni di lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori, in particolare dei sub appalti, quelli più ‘deboli’ degli appalti di servizi e le imprese più strutturate che più hanno investito in questi anni in professionalità, mezzi, innovazione e che rischiano ora di subìre concorrenze sleali o dinamiche poco ‘trasparenti’.

Per queste ragioni è fondamentale inserire nei bandi di gara l'obbligatorietà delle clausole sociali per garantire la stabilità occupazionale del personale impiegato, nonché l'applicazione dei contratti collettivi nazionali e territoriali di settore. 

La modernizzazione del sistema dei contratti pubblici è un obiettivo da raggiungere attraverso un importante investimento su piattaforme, procedure e strumenti che migliorino la trasparenza, facilitino l’accesso civico e rendano più facile per stazioni appaltanti e imprese i processi di gestione. 

A partire da queste considerazioni e dalla disponibilità dichiarata dal Governo di utilizzare questa fase di ascolto e confronto per migliorare il testo del decreto legislativo nel rispetto dei principi sopra indicati, abbiamo raccolto alcune criticità puntuali nel testo attualmente all’esame delle commissioni parlamentari competenti in materia, perché possano esprimere il loro parere. 

Abbiamo ritenuto opportuno evidenziarle, indicando anche ipotesi di emendamento in modo da accompagnare alla critica anche le proposte che, sulla base della nostra esperienza assolutamente trasversale, possono migliorare il nuovo Codice e renderlo maggiormente rispondente agli obiettivi per cui è stato redatto”. 

Le questioni di maggiore rilievo evidenziate dalle associazioni riguardano: il conflitto di interessi, il dibattito pubblico, la necessità di intervento sulle stazioni appaltanti in termini di qualificazioni e soglie, la riduzione degli ambiti di affidamento diretto, la delimitazione dell’appalto integrato a contratti con importo e complessità rilevanti, l’eliminazione del subappalto a cascata e la programmazione di infrastrutture prioritarie.