martedì 22 novembre 2022

Cosa succederà in Iran?

Da diverse settimane ormai in Iran si è sviluppata una vera e propria rivolta popolare, che ha avuto inizio con l’uccisione di Mahsa Amini arrestata dalla polizia locale con l’accusa di indossare in modo poco consono il velo.

La repressione è durissima, con oltre 300 morti tra cui una quarantina di bambini secondo gli attivisti per i diritti umani, oltre a 14.000 arresti e alle prime condanne a morte.

Con il passare del tempo la stretta del regime potrebbe prevalere come già accaduto in passato, ma finora non ha avuto alcun impatto.

Il movimento va avanti con slogan sempre più diretti, come “morte al dittatore” rivolto contro la guida suprema Ali Khamenei.

Quali potranno essere gli sviluppi futuri di questa situazione?

Non è certo facile rispondere a questa domanda, ma qualche ipotesi è già possibile formularla.

Pierre Haski in un suo scritto ha rilevato tra l’altro: “A questo punto si aprono diversi scenari.

Considerando le immagini che arrivano da Mahabad, le voci in merito a una spaccatura nel regime e la determinazione dei giovani ma anche dei falchi del governo, non possiamo escludere l’ipotesi di una guerra civile.

Già in passato l’Iran di Khomeini ha vissuto diversi periodi vicini alla guerra civile, e se una parte delle forze di sicurezza si schierasse con i manifestanti questa possibilità diventerebbe più concreta.

Ma c’è una seconda opzione.

Gli analisti ipotizzano infatti uno scenario ‘alla pachistana’, ovvero una militarizzazione del potere a scapito del dominio dei religiosi.

In questo caso i guardiani della rivoluzione, braccio armato della repubblica islamica, diventerebbero più nazionalisti che messianici, un vero potere ombra a immagine dei militari pachistani.

Questa svolta militare permetterebbe di fare concessioni sul piano sociale ai manifestanti, in particolare ai giovani delle città, preservando al contempo la realtà del potere politico.

Difficile immaginare uno sviluppo di questo tipo fino a quando l’imam Khamenei è in vita, ma un deterioramento della situazione potrebbe far precipitare gli eventi.

Infine bisogna lasciare aperto uno spiraglio, minimo per ragioni di realismo ma comunque esistente, a una vittoria del movimento di protesta.

Affinché ciò accada sarebbe indispensabile una profonda rottura degli equilibri attuali e dei rapporti di forze.

Ma l’Iran non smette di stupirci, e di sicuro continuerà a farlo”.

Io non mi avventuro nel formulare ipotesi alternative su quanto potrà avvenire in futuro in Iran.

Intendo però rilevare che, rispetto all’inizio delle manifestazioni, l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, nei Paesi occidentali, è andata riducendosi.

Inoltre, le prese di posizione dei governi e delle istituzioni internazionali sono state del tutto insufficienti.

Io credo, invece, che un maggiore interesse, soprattutto da parte dei governi e delle istituzioni internazionali, sarebbe necessario perché potrebbe agevolare gli artefici della rivolta popolare che sono, in primo luogo, giovani, ulteriore motivo che giustifica un sostegno aperto di vari soggetti, all’esterno dell’Iran.

Un sostegno molto utile quanto meno per limitare il numero dei morti che potrebbe anche accrescersi notevolmente, nel prossimo futuro.

 

 

 

martedì 15 novembre 2022

Il lavoro sempre più precario e poco remunerato

 

Sette su dieci nuovi contratti sono a tempo determinato. L’11,3% dei lavoratori in part time involontario (contro il 3,2% della media Ocse). Il 10,8% degli occupati sotto la soglia di rischio povertà (contro una media Ue dell’8,8%). Solo l’8,6% delle imprese ha adottato politiche in tema di sostenibilità. L’Italia unico Paese dell’area Ocse in cui il salario medio annuale è diminuito (-2,9%) nell’ultimo trentennio (1990-2020).

Questi dati sono contenuti nel rapporto  2022 dell’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche pubbliche). I dati si riferiscono al 2021.

“Malgrado alcuni segnali confortanti - ha affermato Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp - alcune debolezze del nostro sistema produttivo sembrano essersi cronicizzate, con il lavoro che appare intrappolato tra bassi salari e scarsa produttività.

Per questo occorre pensare ad una ‘nuova stagione’ delle politiche del lavoro, che punti a migliorare la qualità dei posti di lavoro, soprattutto per i neoassunti e per i lavoratori a basso reddito, per le posizioni lavorative precarie e con poche possibilità di carriera, dove le donne e i giovani sono ancora maggiormente penalizzati.

Le politiche del lavoro devono integrarsi con le politiche industriali e con le politiche di sviluppo, in una strategia unitaria orientata al rafforzamento della struttura produttiva, alla crescita del capitale umano e dell’innovazione tecnologica, al rafforzamento della coesione e della sicurezza sociale. Una strategia che deve essere disegnata ed attuata a tutti i livelli territoriali con un coordinamento capace di rispondere alle sfide del profondo cambiamento strutturale in atto”.

Nel 2021 il 68,9% dei nuovi contratti sono stati a tempo determinato (il 14,8% a tempo indeterminato). Nell’insieme il lavoro atipico (ovvero tutte quelle forme di contratto diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato full time) rappresentava l’83% delle nuove assunzioni con un aumento del 34% negli ultimi 12 anni.

“Il tema del crescente aumento dei contratti non standard – ha precisato Fadda - rappresenta una costante del modello di sviluppo occupazionale italiano, che ha attraversato la prima crisi 2007-2008, sino a diventare requisito ‘strutturale’ della ripresa post Covid”.

Nel 2021 il part time involontario (la quota di lavoratori che svolgono un lavoro a tempo parziale non per scelta) rappresentava l’11,3% del totale dei lavoratori contro il solo 3,2% nell’area Ocse.

Ci sono poi quanti, pur lavorando (dipendente o autonomo) sono in una famiglia a rischio povertà, cioè con un reddito disponibile equivalente al di sotto della soglia di rischio povertà. Nell’ultimo decennio (2010-2020) il tasso di “lavoro povero” è stato pressoché costante con un valore medio pari all’11,3% e una distanza rispetto all’Unione europea superiore mediamente del 2,1%. 

L’8,7% dei lavoratori (subordinati e autonomi) percepisce una retribuzione annua lorda di meno di 10.000 euro mentre solo il 26% dichiara redditi annui superiori a 30.000 euro, valori molto bassi se comparati con quelli degli altri lavoratori europei.

Se consideriamo il 40% dei lavoratori con reddito più basso, il 12% non è in grado di provvedere autonomamente ad una spesa improvvisa, (quindi non ha risparmi o capacità di ottenere credito), il 20% riesce a fronteggiare spese fino a 300 euro e il 28% spese fino a 800 euro. Quasi uno su tre ha dovuto posticipare cure mediche.   

Tutto questo in un contesto generale in cui il nostro Paese nel corso degli ultimi 30 anni (1990 -2020) è l’unico ad aver registrato un calo dei salari (- 2,9%) a fronte di una crescita media dei Paesi Ocse del 38,5%.

Nello stesso periodo la produttività è cresciuta del 21,9%, non sembrano dunque aver funzionato i meccanismi di aggancio dei livelli salariali alla performance del lavoro. Nell’ultimo decennio (2010-2020), in particolare, i salari sono diminuiti dell’8,3%.

“Questa condizione di stagnazione dei salari è resa più preoccupante dalla ripresa dell’inflazione – ha concluso il presidente dell’Inapp - per cui si torna a porre il problema dei meccanismi idonei a contrastare la riduzione del potere d’acquisto di tutti i redditi fissi.

Le cause di una dinamica salariale così contenuta sono diverse, una di queste è il meccanismo di negoziazione dei salari. Resta bassa la quota di imprese che dichiarano di applicare entrambi i livelli di contrattazione (4%). Inoltre, in sette anni si è ridotto il numero di aziende che dichiarano di applicare un contratto nazionale di lavoro (-10%), mentre si è più che duplicata la quota di imprese che dichiarano di non applicare alcun contratto (dal 9% nel 2011 al 20% nel 2018)”.

Nel rapporto si parla anche di fabbisogni di professioni e competenze. Nel 2021 solo 22,8% delle imprese italiane ha segnalato la necessita di adeguare le conoscenze e le competenze di specifiche figure professionali, nel 2017 erano un terzo.

Sono le realtà produttive medio-grandi a registrare con maggiore frequenza la necessità di aggiornare le conoscenze e le competenze del personale (37,1% per le imprese con 50-249 addetti e 40,2% per quelle con 250 addetti e oltre). Tra le professioni ad alta qualificazione quelle tecniche sono il segmento per il quale emerge una maggior esigenza di aggiornamento in presenza di processi di innovazione di impresa. In particolare, per il 16,7% delle professioni tecniche viene indicato un fabbisogno professionale laddove sono stati avviati interventi volti a potenziare la competitività di impresa.

Rispetto agli interventi attuati, si segnala come nel sistema produttivo italiano sussistano ancora significative difficoltà e ritardi nello sviluppo di politiche in tema di sostenibilità, adottate tra il 2018 e il 2020 solo dall’8,6% delle imprese (in misura maggiore da quelle medio-grandi).

I principali interventi in media hanno infatti riguardato il miglioramento della gestione dei rifiuti (25%), l’efficienza e il risparmio energetico (14,2%) e la prevenzione/riduzione dell’inquinamento ambientale (12,4%). Il 10,2% delle imprese italiane ha, invece, introdotto innovazioni in tema di competitività (in particolare le imprese medio-grandi, 20% circa). Oltre un quarto (35%) ha introdotto modifiche nell’organizzazione del lavoro, anche in risposta alla pandemia.

E io ritengo che affrontare con decisione i problemi rappresentati dal lavoro precario e dall’insufficiente livello delle retribuzioni dovrebbe essere il principale obiettivo del centro sinistra, e in primo luogo del Pd, per poter accrescere i propri consensi.

mercoledì 9 novembre 2022

Molti giovani italiani emigrano all'estero

 

Si era soliti affermare che l’Italia da Paese di emigrazione si è trasformato negli anni in Paese di immigrazione: questa frase non è mai stata vera e, a maggior ragione, non lo è adesso perché smentita dai dati e dai fatti. Lo dimostra un rapporto redatto dalla fondazione Migrantes.

Dall’Italia non si è mai smesso di partire e negli ultimi difficili anni di limitazione negli spostamenti a causa della pandemia, di recessione economica e sociale, di permanenza di una legge nazionale per l’immigrazione sorda alle necessità del tessuto lavorativo e sociodemografico italiano, la comunità dei cittadini italiani ufficialmente iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) ha superato la popolazione di stranieri regolarmente residenti sul territorio nazionale.

Una Italia interculturale in cui l’8,8% dei cittadini regolarmente residenti sono stranieri (in valore assoluto quasi 5,2 milioni), mentre il 9,8% dei cittadini italiani risiedono all’estero (oltre 5,8 milioni).

Fino a quando l’estero rimane per i giovani e i giovanissimi attualmente residenti in Italia un desiderio, il problema, per il nostro Paese, resta poco grave e circoscritto; la storia nazionale, però, insegna che la mobilità è qualcosa di strutturale per l’Italia e il passato più recente ha visto e vede proprio le nuove generazioni sempre più protagoniste delle ultime partenze. D’altronde non potrebbe essere altrimenti considerando quanto la mobilità sia entrata a far parte pienamente dello stile di vita, tanto nel contesto formativo e lavorativo quanto in quello esperienziale e identitario.

L’attuale comunità italiana all’estero è costituita da oltre 841.000 minori (il 14,5% dei connazionali complessivamente iscritti all’Aire) moltissimi di questi nati all’estero, ma tanti altri partiti al seguito delle proprie famiglie in questi ultimi anni. Ai minori occorre aggiungere gli oltre 1,2 milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni (il 21,8% della popolazione complessiva Aire, che arriva a incidere per il 42% circa sul totale delle partenze annuali per solo espatrio).

Non bisogna dimenticare, infine, tutti quelli che partono per progetti di mobilità di studio e formazione - che non hanno obbligo di registrazione all’Aire - e chi è in situazione di irregolarità perché non ha ottemperato all’obbligo di legge di iscriversi in questa Anagrafe.

Una popolazione giovane, dunque, che parte e non ritorna, spinta da un tasso di occupazione dei giovani in Italia tra i 15 e i 29 anni pari, nel 2020, al 29,8% e quindi molto lontano dai livelli degli altri Paesi europei (46,1% nel 2020 per l’Ue-27) e con un divario, rispetto agli adulti di 45-54 anni, di 43 punti percentuali. I giovani occupati al Nord, peraltro, sono il 37,8% rispetto al 30,6% del Centro e al 20,1% del Mezzogiorno. Al divario territoriale si aggiunge quello di genere: se i ragazzi residenti al Nord risultano i più occupati con il 42,2%, le ragazze della stessa fascia di età ma residenti nel Mezzogiorno non superano il 14,7%.

Il triplice rifiuto percepito dai giovani italiani - anagrafico, territoriale e di genere - incentiva il desiderio di estero e soprattutto lo fa mettere in pratica. Dal 2006 al 2022 la mobilità italiana è cresciuta dell’87% in generale, del 94,8% quella femminile, del 75,4% quella dei minori e del 44,6% quella per la sola motivazione “espatrio”.

Una mobilità giovanile che cresce sempre più perché l’Italia ristagna nelle sue fragilità; ha definitivamente messo da parte la possibilità per un individuo di migliorare il proprio status durante il corso della propria vita accedendo a un lavoro certo, qualificato e abilitante (ascensore sociale); continua a mantenere i giovani confinati per anni in “riserve di qualità e competenza” a cui poter attingere, ma il momento non arriva mai. Il tempo scorre, le nuove generazioni diventano mature e vengono sostituite da nuove e poi nuovissime altre generazioni, in un circolo vizioso che dura da ormai troppo tempo.

E’ da tempo che i giovani italiani non si sentono ben voluti dal proprio Paese e dai propri territori di origine, sempre più spinti a cercar fortuna altrove. La via per l’estero si presenta loro quale unica scelta da adottare per la risoluzione di tutti i problemi esistenziali (autonomia, serenità, lavoro, genitorialità, ecc.). E così ci si trova di fronte a una Italia demograficamente in caduta libera se risiede e opera all’interno dei confini nazionali e un’altra Italia, sempre più attiva e dinamica, che però guarda quegli stessi confini da lontano.

Al 1° gennaio 2022 i cittadini italiani iscritti all’Aire erano 5.806.068, il 9,8% degli oltre 58,9 milioni di italiani residenti in Italia.

Mentre l’Italia ha perso in un anno lo 0,5% di popolazione residente (-1,1% dal 2020), all’estero è cresciuta negli ultimi 12 mesi del 2,7% che diventa il 5,8% dal 2020.

Non c’è nessuna eccezione: tutte le regioni italiane perdono residenti aumentando, però, la loro presenza all’estero.

Il 48,2% degli oltre 5,8 milioni di cittadini italiani residenti all’estero è donna (2,8 milioni circa in valore assoluto). Si tratta, soprattutto, di celibi/nubili (57,9%) o coniugati/e (35,6%). I/le divorziati/e (2,7%) hanno superato i/le vedovi/e (2,2%). Da qualche anno si registrano anche le unioni civili (circa 3.000).

I dati sul tempo di residenza all’estero indicano che il revival delle partenze degli italiani non è recentissimo, ma risale alla profonda crisi vissuta nel 2008-2009 dal nostro Paese. Infatti, il 50,3% dei cittadini oggi iscritti all’Aire lo è da oltre 15 anni e “solo” il 19,7% è iscritto da meno di 5 anni. Il resto si divide tra chi è all’estero da più di 5 anni ma meno di 10 (16,1%), e chi lo è da più di 10 anni ma meno di 15 (14,3%).

Gli oltre 5,8 milioni di italiani iscritti all’Aire hanno un profilo complesso: sono giovani (il 21,8% ha tra i 18 e i 34 anni), giovani adulti (il 23,2% ha tra i 35 e i 49 anni), adulti maturi (il 19,4% ha tra i 50 e i 64 anni), anziani (il 21% ha più di 65 anni, ma di questi l’11,4% ha più di 75 anni) o minori (il 14,5% ha meno di 18 anni).

Oltre 2,7 milioni (il 47,0%) sono partiti dal Meridione (di questi, 936.000 circa, il 16%, dalla Sicilia o dalla Sardegna); più di 2,1 milioni (il 37,2%) sono partiti dal Nord Italia e il 15,7% è, invece, originario del Centro Italia.

Il 54,9% degli italiani (quasi 3,2 milioni) sono in Europa, il 39,8% (oltre 2,3 milioni) in America, centro-meridionale soprattutto (32,2%, più di 1,8 milioni).

Gli italiani sono presenti in tutti i Paesi del mondo. Le comunità più numerose sono, ad oggi, quella argentina (903.081), la tedesca (813.650), la svizzera (648.320), la brasiliana (527.901) e la francese (457.138).

domenica 6 novembre 2022

Pericoloso il decreto anti rave party

 

Come è noto, il governo, tra i primi provvedimenti presi, ha approvato un decreto, apparentemente solo contro i rave party, ma che in realtà potrebbe essere utilizzato anche in molti altri casi, determinando di fatto una forte limitazione delle libertà dei cittadini, in contrasto con quanto prevede la Costituzione.

Infatti il decreto in questione non è chiaro nella sua formulazione e il nuovo reato che istituisce potrebbe colpire, ad esempio, anche gli studenti che occupano una scuola o i partecipanti ad una manifestazione di critica alle decisioni del governo.

Peraltro, quanto avvenuto recentemente in provincia di Modena, dimostra che è possibile sciogliere un rave party anche utilizzando la normativa già esistente, senza la necessità di prevedere un nuovo reato, punibile addirittura con una pena fino a 6 anni di reclusione.

La prima domanda che ci si può porre è la seguente: quel decreto, così come formulato, è il frutto di un errore nella formulazione oppure volutamente si è varato un decreto che limitasse, appunto, le libertà dei cittadini?

Difficile rispondere a questa domanda.

Quello che è certo, considerando che quel decreto riguarda anche altre questioni, come l’anticipo del reintegro nel lavoro dei medici e degli infermieri no vax, che cioè non si sono vaccinati, i provvedimenti presi nella prima riunione effettiva del Consiglio dei Ministri, rappresentano una sorta di norme-manifesto, che indicano come il nuovo governo vorrà muoversi, soprattutto sul tema dei diritti, con un atteggiamento autoritario e che lo connotano come un governo di estrema destra, quanto meno appunto sul tema dei diritti.

E’ vero che, ritornando al provvedimento anti rave party, sembra possibile che la maggioranza in Parlamento intenda modificare il provvedimento in questione, ma intanto quel decreto è già in vigore e poi occorrerà verificare se effettivamente sarà modificato e come sarà modificato.

Che il nuovo governo voglia assumere una connotazione di natura autoritaria, quanto meno su certe questioni, è inoltre dimostrato dal tentativo di impedire lo sbarco delle navi delle Ong che, nel Mediterraneo, hanno soccorso circa un migliaio di migranti, tra i quali molti minori non accompagnati.

E pertanto è necessario che in Parlamento e fuori di esso si manifesti un’opposizione forte nei confronti del governo che, certamente, approvi i suoi provvedimenti quando li ritenga positivi, ma che, nel caso in cui le decisioni governative abbiano le caratteristiche del decreto fino ad ora esaminato, contrasti duramente la loro approvazione in Parlamento, anche ricorrendo ad iniziative che si svolgano all’ esterno del Parlamento stesso.

mercoledì 2 novembre 2022

Ma i ministri e gli imprenditori non hanno figlie?

 

Il tasso di fecondità delle giovani con meno di 30 anni è in Italia tra i più bassi in Europa e lo stesso accade per il tasso di occupazione femminile per chi ha un’età compresa tra i 25 e i 29 anni. E fino ad ora non è stata attuata una politica organica tendente a migliorare la situazione esistente.

Mi sembra legittimo quindi porsi una domanda: ma coloro che sono al vertice degli organismi di governo e i gli imprenditori non hanno figlie?

E comunque se non si cambia in breve tempo ciò che avviene ora, è inevitabile che il tasso di natalità resti molto basso, provocando una costante e notevole riduzione della popolazione, un processo di invecchiamento ancora maggiore dell’attuale, e pertanto notevoli problemi per la sostenibilità del sistema previdenziale fin dai prossimi anni.

L’Italia, è noto, non è un Paese per i giovani e tanto meno lo è per le giovani donne.

Cosa si potrebbe fare quindi affinchè si verifichi un’inversione di tendenza?

Alcune proposte sono contenute in un articolo scritto dal demografo Alessandro Rosina:

“…richiedono che venga favorito un processo di convergenza parallela tra donne e uomini…Agire solo sulla convergenza è come pretendere che le donne possano eccellere solo se adottano un ‘avatar’ maschile esterno. La conseguenza è una carenza di donne al vertice o la possibilità di arrivarci solo se si rinuncia ad avere figli e si adottano schemi maschili, spesso accentuandoli..

In questa prospettiva il primo fronte su cui agire è la formazione. Le giovani donne presentano una più bassa dispersione scolastica e raggiungono titoli di studio più elevati dei coetanei. Sono però molto meno messe nelle condizioni di combinare le sensibilità e le modalità di apprendimento che le caratterizzano con competenze tecniche ed informatiche avanzate…

Come le donne non sono meno predisposte alle materie tecniche, ma vanno aiutate a trovare la declinazione più adatta per appassionarsi a esse e metterle in coerenza con proprie sensibilità, così gli uomini  non sono meno predisposti all’attività sociale e di cura…

Questo è il secondo cruciale fronte su cui agire. La combinazione tra sovraccarico di accadimento materno con rinuncia al lavoro e sovraccarico di lavoro paterno con rinuncia al rapporto di attaccamento, è parte di un modello che pone vincoli anziché promuovere benessere.

E’ necessario, allora, superare persistenti stereo tipi anche attraverso nuovi modelli culturali favoriti da politiche mirate, in grado di rendere la scelta e l’esperienza di un figlio condivisa tra i genitori, ma anche armonizzata con le altre scelte nei percorsi paralleli di carriera.

A ben vedere, quindi, l’aumento dell’occupazione femminile (o ancor, meglio, la valorizzazione dello specifico capitale femminile in ogni ambito), inserita nella giusta prospettiva, non è solo una questione di rivendicazioni e diritti, verso il quale l’attuale governo appare tiepido, ma aiuta, pragmaticamente, tutto il Paese a funzionare meglio…

Consente, inoltre, di contenere gli squilibri demografici di una popolazione che invecchia, ma anche di ridurre le diseguaglianze sociali e territoriali, dato che la bassa occupazione femminile penalizza soprattutto le regioni del Sud e l’accesso a un secondo reddito delle famiglie con figli. Favorisce, per essere più espliciti, la natalità e riduce la dipendenza passiva dal reddito di cittadinanza….)”.

Aggiungo alle considerazioni già svolte da Rosina, la necessità che il sistema di welfare si estenda, aumentando considerevolmente il numero degli asili nido, che si estenda il tempo pieno per quanto concerne il sistema scolastico e che siano varati provvedimenti di natura fiscale che favoriscano le famiglie con figli.

Ma tutti questi interventi devono essere varati il prima possibile, prima che sia troppo tardi per consentire un’inversione di tendenza relativamente al progressivo decremento della popolazione italiana.