mercoledì 30 marzo 2022

Importanti le multinazionali in Italia

In dieci anni l’apporto delle multinazionali all’economia italiana ha registrato un netto aumento. Infatti, nel periodo 2009-2019 il numero dei loro occupati è cresciuto del 23,6% (+289.000 addetti), raggiungendo 1,5 milioni di dipendenti nel 2019, a fronte di una perdita complessiva di circa 176.000 unità registrata dal nostro Paese nello stesso arco temporale.

Questo è quanto emerge del rapporto “Le imprese estere in Italia e i nuovi paradigmi della competitività”, realizzato dall’Osservatorio imprese estere della Confindustria e dalla Luiss , il primo a fornire un quadro completo delle multinazionali in Italia, con un’analisi del loro peso sull’economia italiana, le loro caratteristiche strutturali, il posizionamento all’interno delle catene globali del valore e la loro sensibilità sui temi inerenti alla sostenibilità ambientale.

Dall’analisi emerge come attraverso modelli organizzativi improntati alla gestione managerialeuna corporate governance snella ed efficiente, le grandi dimensioni e l’appartenenza alle catene del valore globali, le multinazionali estere riescano a reagire in maniera più tempestiva alle nuove sfide.

Infatti, queste realtà si sono dimostrate particolarmente resilienti rispetto alla crisi pandemica, durante la quale hanno addirittura aumentato la quota di investimenti immateriali.

Le imprese estere in Italia sono 15.779, lo 0,4% del totale, ma occupano l’8,7% degli occupati (più di 1,5 milioni) per un fatturato pari al 19,3% (624 miliardi di euro) e un valore aggiunto pari al 16,3% (134 miliardi) del totale. 

Hanno una spiccata organizzazione manageriale: solo una piccola quota (20,2%) è a conduzione familiare.

Hanno una forte vocazione all’export (anche se pesano molto gli scambi transfrontalieri infragruppo), con quasi un terzo (32,1%) delle vendite all’estero e oltre il 46% delle importazioni italiane.

Prestano una forte attenzione al capitale umano: il 59,6% ha dichiarato di aver effettuato attività formative non obbligatorie.

In dieci anni, è aumentato il valore aggiunto generato dalle multinazionali: con +55 miliardi di euro è passato, appunto, a 134 miliardi di euro, una cifra che corrisponde a quasi il 30% dell’incremento del valore aggiunto sul totale della quota paese.

Ma anche il loro fatturato è cresciuto sensibilmente, passando nel 2019 a 624 miliardi di euro: un aumento del 40,4% che rappresenta il 31% dell’incremento totale del fatturato delle imprese residenti.

Molto rilevante risulta anche il loro contributo per la ricerca e sviluppo che, con 4,3 miliardi di euro nel 2019, rappresenta il 26% del totale della ricerca privata realizzata in Italia e imprime un forte impulso all’innovazione.

Dal rapporto risulta inoltre che i profili delle multinazionali estere presenti in Italia sono coerenti con il nuovo paradigma economicoche coniuga crescita, sviluppo sociale e attenzione all’ambiente.

Obiettivi ben integrati nelle loro strategie di business e di tutte le funzioni aziendali, che portano le imprese estere a svolgere anche un’importante funzione di traino per le piccole e medie imprese e i territori in cui operano.

Le realtà a capitale estero risultano infine particolarmente inclini all’adozione di azioni e comportamenti improntati alla sostenibilità ambientale, determinando un livello di impatto di quasi l’8% in più rispetto alle  altre imprese.

Dal rapporto emerge una valutazione completamente positiva del ruolo svolto dalle multinazionali estere in Italia, in contrasto con l’opinione di molti osservatori che invece spesso sono critici soprattutto nei confronti dell’acquisizione di imprese italiane da parte di soggetti esteri.

Probabilmente l’opinione di questi osservatori è in parte sbagliata, come dimostrato soprattutto alcuni dati contenuti nel rapporto, ma potrebbe assumere una valenza positiva se la presenza di imprese estere si verifica in settori considerati strategici, dove non sempre è opportuno, per il perseguimento di obiettivi generali relativi al nostro Paese, che decisioni molto importanti siano prese da soggetti esteri.

Quindi il giudizio sulla presenza di imprese estere in Italia va espresso caso per caso, e il governo se ne deve occupare quanto avviene o dovrebbe avvenire in settori strategici, e non può esimersi dalla necessità che venga garantita anche la presenza di imprese italiane all’estero, talvolta ostacolata.

giovedì 24 marzo 2022

Il 21 marzo l'associazione Libera contro le mafie

 

Come ogni anno il 21 marzo scorso si è svolta, promossa dall’associazione Libera presieduta da don Ciotti, la ventisettesima edizione della giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Quest’anno la manifestazione nazionale si è tenuta a Napoli.

Questo è il significato della giornata secondo l’associazione Libera:

“Il 21 marzo è un momento di riflessione, approfondimento e di incontro, di relazioni vive e di testimonianze attorno ai familiari delle vittime innocenti delle mafie, persone che hanno subìto una grande lacerazione che noi tutti possiamo contribuire a ricucire, costruendo insieme una memoria comune a partire dalle storie di quelle persone.

E’ una giornata di arrivo e ripartenza per il nostro agire, al fine di porre al centro della riflessione collettiva la vittima come persona e il diritto fondamentale e primario alla verità, diritto che appartiene alla persona vittima, ai familiari della stessa, ma anche a noi tutti.

Siamo certi vi sia un diritto-dovere alla verità: la verità ha un valore pubblico fondamentale per uno Stato che voglia dirsi democratico

E’ altresì il momento in cui dare spazio alla denuncia della presenza delle organizzazioni criminali mafiose e delle connivenze con politica, economia e massoneria deviate.

Leggere i nomi delle vittime, scandirli con cura, è un modo per far rivivere quegli uomini e quelle donne, bambini e bambine, per non far morire le idee testimoniate, l’esempio di chi ha combattuto le mafie a viso aperto e non ha ceduto alle minacce e ai ricatti che gli imponevano di derogare dal proprio dovere professionale e civile, ma anche le vite di chi, suo malgrado, si è ritrovato nella traiettoria di una pallottola o vittima di potenti esplosivi diretti ad altri.

Storie pulsanti di vita, di passioni, di sacrifici, di amore per il bene comune e di affermazione di diritti e di libertà negate”.

La manifestazione nazionale si è svolta a Napoli, luogo di cultura e di accoglienza, capace di rispondere all’emergenza criminale con iniziative sociali di ogni tipo, città generatrice di speranza. La u accogli

La domenica 20 marzo, con il raccoglimento accanto ai familiari delle vittime e la veglia interreligiosa di preghiera. Lunedì 21 marzo, con la lettura dei nomi in piazza. 

Replicando la “formula” adottata negli ultimi anni a causa dell’emergenza, Napoli è stata la “piazza” principale, ma simultaneamente, in centinaia di luoghi in Italia, Europa, Africa e America Latina, la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie è stata vissuta attraverso la lettura dei nomi delle vittime, sono state ascoltate le testimonianze dei familiari e approfondite le questioni relative alle mafie e corruzione, nel segno di una memoria che non vuole essere celebrazioni ma strumento di verità e giustizia. 

L'obiettivo è stato un coinvolgimento ampio di tutto il territorio nazionale con collegamenti internazionali: per le istituzioni e per la società civile è stata un’occasione per lanciare un segnale concreto di impegno comune contro le mafie e la corruzione.

Lo slogan è stato “Terra mia. Coltura-CulturaTerra”

E’uno slogan che vuole unire due dimensioni di impegno, oggi fondamentali, dalle quali ripartire.

Terra mia. Per prendersi cura delle comunità locali e reinterpretare l’essere cittadini globali a partire dall’attenzione al contesto nel quale viviamo, alla nostra quotidianità.

Coltura-CulturaTerra. La coltura nella terra, la cultura nelle coscienze. Due parole che si differenziano solo per una vocale, che restituiscono la necessità di un lavoro che prosegue in parallelo e tiene insieme l’impegno per il nutrimento della Terra con l’impegno per il nutrimento delle coscienze.

Perché è stata scelta Napoli per la manifestazione nazionale?

Napoli e la sua area metropolitana sono il territorio più densamente popolato del Paese. 

Oltre tre milioni di donne e uomini abitano attorno al Vesuvio e le camorre, così pulviscolari e diffuse nel tessuto urbano, accompagnano da più due secoli la storia di quest’area geografica.

Portare a Napoli il 21 marzo ha voluto dire accendere i riflettori su un territorio in cui le organizzazioni criminali fanno oggi uso della violenza per uccidersi, uccidere vittime innocenti, impaurire le donne e gli uomini, confliggere tra loro per fare affari e riorganizzare assetti di potere.

Napoli è una delle città che ha maggiormente pagato un tributo di sangue innocente negli ultimi anni: l’elenco  di Libera parla di giovani ragazzi che hanno perso la vita per mano della violenza camorristica; giovani dei quartieri popolari le cui speranze sono state stroncate da una guerra fatta per il controllo della droga e del racket.

Ma la scelta di Napoli è stata decisa anche per incoraggiare una Campania che resiste, fatta di gente perbene che nelle associazioni, nelle cooperative sociali, nelle realtà laiche e religiose, o anche semplicemente assumendosi la propria responsabilità di cittadino, s'impegna per il bene della sua terra e dell'intero Paese.

lunedì 21 marzo 2022

In Arabia Saudita 81 esecuzioni capitali in un giorno

 

Il 12 marzo scorso in Arabia Saudita sono state uccise 81 persone in precedenza condannate alla pena di morte. Non credo che mai, in passato, in un solo giorno, siano state giustiziate, in nessun Paese, un egual numero di condannati.

Probabilmente si è scelto quel giorno perché l’attenzione dei media di tutto il mondo è in questo periodo rivolta, in primo luogo, alla guerra in Ucraina.

E in effetti la notizia delle 81 esecuzioni capitali è passata sotto silenzio. Pochi media l’hanno recepita.

Così Sergio D’Elia, rappresentante dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, in un articolo, ha descritto quanto avvenuto:

“Le autorità saudite non hanno rivelato se i ‘giustiziati’ siano stati uccisi in modo tradizionale mediante decapitazione o tramite fucilazione.

Non lo sapremo mai perché i loro corpi non verranno restituiti alle loro famiglie per paura che i funerali diventino oggetto di una rinnovata protesta, preludio di future vendette.

La metà delle persone ‘giustiziate’ proveniva dalla regione orientale del Qatif popolata dalla minoranza sciita del Paese, un’area ribelle che ha assistito a manifestazioni anti-governative sempre più accese da quando la Primavera Araba ha colpito la regione nel 2011. Un peccato d’origine aggravato, forse, da altri e più gravi peccati.

Secondo gruppi per i diritti umani, alcuni dei giustiziati sono stati anche torturati, la maggior parte dei processi condotti in segreto.

In alcuni casi, secondo i documenti ufficiali, non v’era alcuna traccia di sangue nei reati addebitati.

Altri uccisi erano accusati di avere ‘credenze devianti’, una formula che comprende sia il fanatismo islamico violento dei sunniti ‘giustiziati’ per appartenenza ad Al-Qaeda e allo Stato Islamico sia la versione sciita dell’Islam propria degli Houti anch’essi uccisi nell’infornata di esecuzioni effettuate a tutela della pace sociale e religiosa del regno saudita.

Quando, alcuni giorni dopo la mattanza, i volti dei condannati sono stati rivelati, si sono visti tra loro giovani uomini, alcuni appena adolescenti al momento dell’arresto, con la barba rada e il sorriso sulle labbra.

Un’immagine straziante mostra Hussain Ahmed Al-Ojami che tiene in braccio il suo giovane figlio.

E’ stata la terza uccisione di massa del genere nei sette anni di regno di re Salman e di suo figlio Mohammed, il principe ereditario. Il bilancio delle vittime ha persino superato l’esecuzione del gennaio 1980 di 63 militanti condannati per aver sequestrato la Grande Moschea della Mecca.

Nel 2018, dalle pagine del ‘Time Magazine’, Mohammed bin Salman aveva annunciato al mondo l’alba di un rinascimento saudita, meno avvolto dal velo ultraconservatore della legge islamica. Il suo piano era quello di limitare la pena di morte all’omicidio.

Invece, nel braccio della morte saudita ci sono ancora prigionieri di coscienza, altri arrestati da bambini o accusati di crimini non violenti.

Dopo la brutale furia giustizialista degli ultimi giorni, anche su di loro incombe ora un pericolo mortale, se nulla accade, soprattutto da parte di chi ha a cuore la vita di persone ‘colpevoli’ che hanno attentato alla vita di persone ‘innocenti’”.

Tutto questo si è verificato in quel Paese che l’ex Presidente del Consiglio e attuale leader di Italia Viva Matteo Renzi, consulente di Mohammed bin Salman, aveva definito come la culla di un nuovo rinascimento.

L’Arabia Saudita è uno dei Paesi dove è più alto il numero delle uccisioni causate dalle condanne alla pena di morte, insieme alla Cina, all’Iran, all’Egitto e all’Iraq.

Al primo posto c’è la Cina anche se la reale dimensione dell’uso della pena di morte resta sconosciuta poiché queste informazioni sono considerate segreti di stato.

Il totale di 483, il numero dichiarato dalle autorità cinesi, esclude dunque le migliaia di esecuzioni che si ritiene abbiano avuto luogo in Cina.

Attualmente, secondo quanto dichiara Amnesty International, due terzi dei Paesi del mondo hanno abolito la pena di morte e nel 2020, rispetto al 2019, le esecuzioni sono diminuite del 26%.

Io ritengo però, e quanto avvenuto in Arabia Saudita recentemente lo dimostra ulteriormente, che la pena di morte deve essere abolita in tutto il mondo.

giovedì 17 marzo 2022

Necessaria la fornitura di armi dall'Italia all'Ucraìna

Il governo italiano, come quelli di altri Paesi occidentali, ha deciso di fornire delle armi all’Ucraìna per aiutarla a contrastare l’aggressione da parte della Russia di Putin. Tale decisione è stata criticata, in nome del pacifismo, da alcuni esponenti politici ed osservatori di vario genere. Queste critiche sono, senza dubbio, profondamente sbagliate.

Infatti, in una guerra dove c’è un aggressore, la Russia, guidata da un dittatore, e un aggredito, l’Ucraìna, dove vige un regime democratico, e nella quale le forze militari della Russia sono molto più consistenti di quelle a disposizione dell’Ucraìna, se si intende aiutare, concretamente, gli ucraìni, non si può fare a meno di fornire loro delle armi, soprattutto in questa fase.

Certo, si può aiutare l’Ucraìna, anche con le sanzioni economiche contro la Russia e con iniziative volte a favorire le trattative, ma ripeto gli aiuti militari sono indispensabili.

E chi sostiene il contrario, cioè coloro che affermano che, in nome del pacifismo, non si debbano fornire delle armi all’Ucraìna, è come se sostenesse che gli stessi ucraìni non debbano utilizzare le armi per contrastare l’aggressione della Russia, è come se sostenesse quindi che gli ucraìni si debbano arrendere.

E’ del tutto evidente che tali considerazioni sono del tutto sbagliate e insostenibili.

E’ probabile che l’estensione della Nato con l’ingresso all’interno di essa di diversi Paesi che facevano parte dell’Unione sovietica possa essere stato un errore e che abbia preoccupato la Russia di Putin. Ma ciò non giustifica l’aggressione della Russia di Putin il cui esercito, peraltro, ha compiuto diversi crimini di guerra, soprattutto uccidendo molti civili ucraìni, tra cui molti bambini.

E, lo ripeto, un’aggressione di quel tipo non può essere contrastata senza fare uso delle armi e senza la fornitura da parte di altri Paesi, tra cui l’Italia, di armi.

Quindi, la posizione di coloro che si sono manifestati contrari alla fornitura di armi da parte dell’Italia è del tutto irrealistica e, in parte, è sostenuta da alcuni che, in realtà, pur se non apertamente, sono a favore di Putin e non lo criticano neppure per aver instaurato un regime dittatoriale nel quale, ad esempio, gli oppositori vengono incarcerati se non uccisi.

Detto questo, lo ripeto, è auspicabile che il conflitto cessi quanto prima dopo che le trattative abbiano avuto un esito positivo.

lunedì 14 marzo 2022

Troppi i giovani che non studiano e non lavorano


Anche nel 2020, in Italia, i Neet, cioè i giovani che non lavorano e non studiano, hanno raggiunto un numero molto, troppo, elevato. Erano, nel 2020, poco più di 3 milioni, il 25,1% dei giovani tra i 15 e i 34 anni, la percentuale più alta fra i 27 Paesi dell’Unione europea.

Non è purtroppo una novità. Sono diversi anni ormai che il numero dei Neet in Italia è molto elevato.

Nel 2020, appunto, erano 3.047.000, il 25,1% dei giovani tra i 15 e i 34 anni, praticamente uno su quattro.

E di questi 1,7 milioni erano donne.

In Europa la percentuale dei Neet è più alta di quella che si verifica in Italia solamente in Turchia (33,6%), Montenegro (28,6%) e Macedonia (27,6%).

Se si considerano i 27 Paesi dell’Unione europea è l’Italia ad avere la percentuale più elevata rappresentata dai Neet.

Delle 8,6 milioni di giovani donne che in Europa non lavorano e non studiano un terzo è residente in Italia.

Alta è poi la quota di abbandoni prematuri della scuola. Nel secondo trimestre 2020, in Italia, il 13,5% dei giovani hanno interrotto il loro percorso formativo.

Nella fascia di età scolare (15-19 anni) i Neet italiani sono il 75% in più della media Ue; nella fascia universitaria (20-24) sono il 70% in più.

In sintesi, un giovane su tre tra i 20 e i 24 anni è Neet, mentre tra i giovanissimi (15-19 anni) 1 su 10 è fuori dal mondo della scuola e del lavoro. E la situazione è peggiore per le donne.

Inoltre, tra gli oltre 3 milioni di Neet 15-34enni i disoccupati, ovvero chi non ha un impiego ma lo sta cercando, sono circa 1 milione, mentre gli inattivi, cioè chi non ha un lavoro ma non lo sta cercando, sono i restanti 2 milioni.

I Neet hanno generalmente un basso titolo di studio (circa il 27%).

E per quanto riguarda i Neet, l’Italia risulta suddivisa in due grandi zone: la zona centro-settentrionale, che è in linea o al di sotto della media europea (15%) e la zona del Mezzoggiorno nella quale la percentuale rappresentata dai Neet è molto più alta, soprattutto in Sicilia (30,3% di Neet 15-24 anni), in Calabria (28,45), e in Campania (27,3%).

I dati fino ad ora citati sono la testimonianza più evidente che, da un lato, non si attua la necessaria politica per contrastare gli abbandoni scolastici e che, soprattutto, non si promuovono interventi efficaci per favorire l’occupazione giovanile.

Un esempio è forse il più significativo di altri: sono state utilizzate notevoli risorse finanziarie per consentire l’anticipo del pensionamento con la cosiddetta quota 100, risorse che potevano essere utilizzare per agevolare l’occupazione dei giovani.

Ma i pensionati o quanti si avvicinano all’età della pensione sono molti di più dei giovani e quindi contano di più dal punto di vista elettorale.

Recentemente sono stati adottati nuovi provvedimenti che favoriscono l’occupazione dei giovani ma, a mio avviso, sono del tutto insufficienti per fare in modo che molti di loro riescano ad ottenere un lavoro non precario.

giovedì 10 marzo 2022

Un milione i bambini ucraini riusciti a fuggire

 


Ieri, molti bambini, in un ospedale pediatrico a Mariupol, sono stati uccisi in seguito a un bombardamento dei russi. In generale, la situazione dei bambini ucraini è molto difficile, anche di quelli che sono riusciti a fuggire, circa un milione.

Si stima infatti che siano tra gli 800.000 e un milione i bambini riusciti a fuggire dall'Ucraina nelle ultime settimane, a causa dell’escalation di violenza manifestatasi nel Paese.

Ad oggi sono 2 milioni le persone riuscite a scappare dal paese. Un numero che non ha precedenti nella storia delle crisi umanitarie.

Un numero sempre più alto di bambini, arriva alla frontiera da solo, senza il sostegno della famiglia e ciò sta creando una vera e propria emergenza per la loro protezione.

Save the Children ha rilevato che alle frontiere sono arrivati anche alcuni bambini soli, mandati verso altri Paesi da familiari costretti a rimanere in Ucraina, che hanno cercato di metterli al sicuro da attacchi e bombardamenti.

Altri hanno perso le loro famiglie nella concitazione della fuga dalle loro case e molti in arrivo alle frontiere hanno meno di 14 anni e manifestano segni di disagio psicologico.

Save the Children sta lavorando senza sosta con altre organizzazioni, per stabilire procedure per rintracciare i parenti dei bambini arrivati soli e facilitare il ricongiungimento familiare o per mettere in contatto i bambini con la famiglia e i conoscenti in Polonia e nei Paesi limitrofi. 

 “I genitori stanno ricorrendo alle misure più disperate e dolorose per proteggere i propri figli, incluso l’allontanarli da sé e mandarli via con vicini e amici, per cercare sicurezza fuori dall'Ucraina, mentre loro rimangono in patria per proteggere le loro case” ha dichiarato Irina Saghoyan, direttrice di Save the Children per l’Europa orientale. 

 “Per i bambini, la separazione dai propri cari può tradursi in un profondo stress psicologico dovuto all'insicurezza, alla paura per le sorti dei membri della propria famiglia e all’ansia da separazione.

Aumentano anche i rischi di violenza, sfruttamento, tratta e abusi. Molti di loro viaggiano con i loro fratelli maggiori o con famiglie allargate, vicini o altri adulti di riferimento.

Hanno bisogno di protezione e supporto e sono ancora incredibilmente vulnerabili” ha proseguito Irina Saghoyan.

“Devono essere compiuti tutti gli sforzi per prevenire la separazione dei bambini dai loro ‘caregiver’ e per garantire il tracciamento immediato della famiglia e il ricongiungimento laddove si verifichi la separazione. Sappiamo che più velocemente agiamo, più è probabile riuscire a riunire con successo i bambini ai loro ‘caregiver’. Continueremo a rispondere dove c'è più bisogno e dove i bambini necessitano di un’urgente protezione” ha concluso Irina Saghoyan.

Save the Children chiede alle autorità di frontiera e alle organizzazioni umanitarie di mettere in atto misure per cercare di far rimanere i bambini con i loro ‘caregiver’ di riferimento, di fornire supporto psicosociale incentrato sui bambini e attuare programmi per prevenire la separazione dalla famiglie.

Questi servizi devono includere spazi e informazioni a misura di bambino, ricerca e ricongiungimento familiare e supporto alla salute materno-infantile.

Purtroppo anche altri bambini ucraini sono stati uccisi oltre quelli che erano ospitati nell’ospedale pediatrico di Mariupol.

Le morti dei bambini, oltre alla difficile situazione che contraddistingue molti di loro che comunque sono riusciti a fuggire, rappresentano un’ulteriore dimostrazione che non c’è altra strada, da parte degli ucraini, per difendersi dai russi di utilizzare armi e che quindi è necessario che anche i Paesi occidentali forniscano loro delle armi.

Gli pseudo pacifisti che criticano l’invio delle armi agli ucraini, più o meno consapevolmente, sostengono così che l’unica strada per gli ucraini sarebbe la resa alla Russia dei dittatore Putin.

Ma gli ucraini, ovviamente, non vogliono la resa e quindi non c’è altra scelta che difendersi con le armi.

lunedì 7 marzo 2022

Gli Agnelli stanno affossando "L'Espresso". E "La Repubblica"?


La famiglia Agnelli, proprietaria del gruppo Gedi a cui fanno capo La Repubblica, La Stampa e L’Espresso, è in procinto di vendere L’Espresso, probabilmente a Bfc Media, controllato dalla famiglia Iervolino. A tale probabile vendita si sono opposti il comitato di redazione e l’ex direttore Marco Damilano, che si è dimesso dal suo incarico lasciando  dopo 22 anni il settimanale.

Damilano e il comitato di redazione hanno fortemente criticato la probabile vendita dell’Espresso perché sostengono che con la vendita verrebbe meno la tradizionale linea editoriale e politica del settimanale.

La famiglia Agnelli, tramite la loro finanziaria Exor, ha acquistato la maggioranza delle azioni del gruppo Gedi alcuni anni fa dalla famiglia De Benedetti (Carlo De Benedetti era contrario e per questo litigò con i figli Marco e Rodolfo).

I motivi della contrarietà di Damilano possono essere meglio compresi riportando alcune parti della sua lettera di saluto ai lettori.

L'indipendenza è uno dei valori contenuti nella carta Gedi, accanto alla coesione. Con la redazione dell'Espresso abbiamo difeso questi valori, in anni difficili, sul piano editoriale e industriale.

In una situazione di crisi del mercato editoriale e con la difficoltà di far decollare la transizione digitale sempre annunciata e mai praticata. Mentre i giornali tradizionali perdono copie, lettori, peso politico, credibilità, fiducia.

La categoria dei giornalisti fatica a parlarne, si attarda nella difesa di quote di mercato sempre più ridotte. Gli editori tendono a scaricare le colpe della crisi sui costi industriali della produzione. Il mondo imprenditoriale, intellettuale e politico non riesce a inquadrare il tramonto della stampa italiana all'interno di una questione più importante, perché tocca da vicino la tenuta delle istituzioni democratiche…

Si pensa di risolvere la situazione rincorrendo le nuove opportunità offerte dal digitale, come in altri parti del mondo. Anche in Italia ci sono imprese che stanno dimostrando di saper affrontare con successo le sfide della transizione.

Ma non si può farlo immaginando di perdere la propria identità.

L'anima, il carattere di una testata.

E’ una scorciatoia che disorienta il pubblico e che prima o poi si dimostra illusoria.

Gedi è nel cuore di questa crisi. In un gruppo che aveva sempre fatto della solidità, della stabilità e della continuità aziendale e editoriale il suo modo di essere, soltanto durante la mia direzione si sono alternati due gruppi proprietari, due presidenti, tre amministratori delegati, tre direttori di Repubblica.

E ora si vuole far pagare al solo Espresso l'assenza di strategia complessiva.

Ho appreso della decisione di vendere L'Espresso da un tweet di un giornalista, due giorni fa, mercoledì pomeriggio. Ho chiesto immediati chiarimenti all'amministratore delegato Maurizio Scanavino, come ho sempre fatto in questi mesi.

Mesi di stillicidio continuo, di notizie non smentite, di voci che sono circolate indisturbate e che hanno provocato un grave danno alla testata.

Non mi sono mai nascosto le difficoltà. Ho più volte offerto la mia disponibilità in prima persona a trovare una soluzione per L'Espresso, anche esterna al gruppo Gedi, che offrisse la garanzia che questo patrimonio non fosse disperso. Ma le trattative sono proseguite senza condivisione di un percorso, fino ad arrivare a oggi, alla violazione del più elementare obbligo di lealtà e di fiducia.

La cessione dell'Espresso, in questo modo e in questo momento, rappresenta un grave indebolimento del primo gruppo editoriale italiano.

E’ una decisione che recide la radice da cui è cresciuto l'intero albero e che mette a rischio la tenuta dell'intero gruppo.

E’ una pagina di storia del giornalismo italiano che viene voltata senza misurarne le conseguenze…”.

Con la vendita del gruppo Gedi alla famiglia Agnelli emersero subito forti preoccupazioni anche relativamente a La Repubblica.

Anche in quel caso il timore era che cambiasse la linea politica ed editoriale del quotidiano. Non a caso fu sostituito il direttore Carlo Verdelli, che era stato nominato da poco ed aveva bene operato, con Maurizio Molinari, molto vicino agli Agnelli essendo stato per diversi anni direttore de “La Stampa”.

Diversi giornalisti abbandonarono La Repubblica e altri furono messi in pensione.

E in parte, effettivamente, la linea de “La Repubblica” è cambiata e si teme che, nel prossimo futuro, cambi ulteriormente.

giovedì 3 marzo 2022

Con la guerra non si parla più di pandemia

 

Con la guerra in Ucraina, i media dedicano poco spazio alle informazioni sulla pandemia. In precedenza, forse, la quantità delle informazioni sulla pandemia era eccessiva. Ma ora sono del tutto insufficienti.

E’ più che giusto che i media dedichino molta attenzione alla guerra in Ucraina, senza alcun dubbio.

Ma io credo che sia sbagliato dedicare invece poca attenzione alle informazioni sulla pandemia.

Infatti in Italia, come altrove, la pandemia è tutt’altro che scomparsa.

Ogni giorno ci sono tra i 40.000 e i 50.000 nuovi contagiati, circa 200 morti e il tasso di positività, il rapporto cioè tra numero di nuovi contagiati e numero dei tamponi effettuati, si è ridotto ma non in misura considerevole.

E non considerare questi dati potrebbe far credere a una parte consistente della popolazione che la pandemia sia scomparsa e che, indipendentemente dal dibattito su quando dovranno essere eliminate le varie forme di green pass, non debbano essere più mantenute le normali e ormai molto conosciute regole precauzionali e preventive quali il distanziamento, l’evitare gli assembramenti e l’utilizzo al chiuso delle mascherine.

La situazione è certo molto migliorata anche solo rispetto ad alcune settimane fa ma, ripeto, non si può affatto sostenere che la pandemia sia scomparsa e si deve quindi evitare, mantenendo per ora le regole di cui ho riferito poco sopra, che nel prossimo futuro la situazione peggiori di nuovo e non migliori ancora, come possibile ed auspicabile.

Quindi sarebbe opportuno che i media dedichino maggiore attenzione alle informazioni sulla pandemia.

Io capisco che tutti vorremmo che la pandemia scompaia definitivamente.

Per ora, purtroppo, non è avvenuto.

Ed è assolutamente necessario fare in modo che la situazione della pandemia non peggiori.

E i media possono svolgere, e devono farlo, un ruolo importante affinchè la situazione della pandemia non peggiori ma, anzi, migliori decisamente.