mercoledì 27 marzo 2019

Nelle carceri il sovraffollamento non è una fake news



Nell'ultimo anno si contano nelle carceri 2.047 detenuti in più, “con un andamento progressivo crescente e preoccupante", e “questo aumento si riverbera sulle condizioni di vita interna e sul sovraffollamento, che non è una fake news”. Lo evidenzia il garante nazionale delle persone detenute Mauro Palma nella relazione recentemente presentata al Parlamento.

Nello stesso periodo il numero di persone finite in carcere è diminuito, sono 887 in meno, quindi l'aumento è dovuto alla minore possibilità di uscita. In totale sono 60.472 i detenuti e 50.514 i posti letto.

Il garante nazionale invita, quindi, il Parlamento a riflettere sulle cifre.

Innanzitutto sottolinea Palma perché “nel luogo di ricostruzione, o a volte di costruzione, del senso di legalità non possono essere fatte vivere situazioni che ledono la legalità stessa”.

Inoltre, “l'attenzione geometrica alla ‘cella’ non deve far perdere il principio che la persona detenuta deve vivere la gran parte della giornata al di fuori di essa impegnata in varie attività significative. Il nostro modello di detenzione - afferma - continua, al contrario, a essere imperniato, culturalmente e sul piano attuativo, sulla permanenza nella ‘cella’, così vanificando la proiezione verso il dopo e il fuori”. 

Il sovraffollamento nelle carceri “non è una fake news”: secondo gli ultimi dati, aggiornati al 26 marzo i posti regolamentari disponibili nei 191 istituti di pena italiani sono 46.904 ma vi sono presenti 60.512 persone. Quindi 13.608 detenuti in più, con un sovraffollamento del 129%.

In un anno, c'è stato un aumento di 2.000 detenuti: al 31 dicembre 2017 erano 57.608, al 31 dicembre 2018 59.655.

E a preoccupare il garante sono le ragioni alla base di tale crescita, che non è dovuta ai maggiori ingressi ma a un minor numero di dimissioni, 887 in un anno: “molto probabilmente perché si utilizzano di meno le misure alternative al carcere”.

Al 20 marzo di quest'anno risultano detenute 1.839 persone con una pena inflitta inferiore a un anno e 3.319 con una pena tra 1 e 2 anni. Si tratta cioè di 5.158 persone che potrebbero usufruire di misure alternative al carcere, ma che rimangono all'interno degli istituti.

Per questo per l'autorità indipendente, presieduta da Mauro Palma, è “urgente una riflessione che coinvolga tutti i soggetti coinvolti nell'esecuzione penale, magistratura, amministrazione penitenziaria, operatori del sociale e lo stesso Parlamento” per “rimuovere gli ostacoli che impediscono la concreta applicazione di misure esecutive della pena alternativa alla detenzione, secondo quanto l'ordinamento prevede”.

Vale per tutti, “ogni persona, nativa o straniera, libera o ristretta, capace o meno di intendere o in qualsiasi altra condizione”, il diritto “alla dignità personale e alla propria integrità psicofisica” e a questi “aggiungo il diritto alla speranza”.

A questo diritto, aggiunge Palma, corrisponde “l'obbligo” di garantire “la maggiore autodeterminazione possibile nei limiti dati dalla sua condizione e nel contesto dei valori e principi che la nostra Costituzione tutela”.

E la percezione di insicurezza “non può essere semplicemente assunta, da parte di chi ha responsabilità istituzionali, come un dato, fisso, ingiudicabile; non può costituire il criterio informatore di norme né di decisioni amministrative”.

giovedì 21 marzo 2019

Le aziende che fabbricano felicità, in un festival



Dal 29 al 31 marzo a Firenze si terrà il primo festival nazionale dell’economia civile. Saranno presenti numerose imprese che attribuiscono notevole importanza all'impatto sociale delle loro azioni. Interverranno oltre 80 testimoni e relatori nazionali ed internazionali.

Ci sarà un mondo imprenditoriale che non pensa soltanto al profitto ma che è quotidianamente impegnato nella costruzione del bene comune.

Saranno presenti cioè imprenditori italiani sensibili al richiamo dell’economia civile che incarnano le loro azioni nelle tante nuove forme emergenti d’impresa come le imprese cooperative, imprese etiche, solidali, socialmente responsabili, benefit.

Imprenditori che, aldilà del profitto, cercano di rendere il mondo un posto migliore partendo proprio dalla propria azienda come trampolino per la promozione di iniziative sociali.  

Ci saranno, ad esempio, l’azienda che produce bancali ecosostenibili, l’impresa agricola che ha realizzato un impianto a biomasse, l’azienda vitivinicola che fabbrica il vino con il tuo nome, l’azienda che crea uno spazio relax per i dipendenti al fine di costruire felicità, oltre che guadagno economico.

Il festival vuole essere un momento d’ispirazione e contaminazione per tutti gli imprenditori e le aziende d’Italia, affinchè le buone pratiche raccontate possano essere di esempio e diventare contagiose.

Ideato da Federcasse, progettato e organizzato con Next-Nuova Economia per Tutti e Sec-Scuola di Economia Civile, il festival vuole sviluppare un’economia che mette al centro l’uomo, il bene comune, la sostenibilità e l’inclusione sociale, che crede nel lavoro e nel valore delle imprese.

Un’economia quindi che considera il profitto come mezzo e non come fine, che vuole offrire soluzioni concrete al problema occupazionale. Che vuole ridurre le disuguaglianze e contribuire a far crescere una Italia migliore, ricca di culture, paesaggi, arti e mestieri. Nella quale l’innovazione si sposa con la tradizione. 

Tra i relatori  si possono citare Leonardo Becchetti, direttore del festival, Jeffrey Sachs, Stefano Zamagni, Luigino Bruni, suor Alessandra Smerilli, Stefano Bartolini, Marco Bentivogli, Augusto dell’Erba, Patrizia Di Dio.

Gli obiettivi che gli organizzatori intendono perseguire sono individuabili esaminando il manifesto del festival:

La nascita di un festival nazionale dell’economia civile nell’era dei festival è un evento d’importanza fondamentale.

L’Italia e l’Occidente stanno vivendo una stagione difficile di rabbia e passioni tristi dove il problema non è soltanto economico ma anche identitario ed esistenziale.

Siamo convinti che valore economico sostenibile, felicità, solidarietà, generatività siano gli approcci giusti per ripartire. Non solo parole ma già oggi progetti, idee, esperienze concrete che una parte importante del Paese, a cui il nostro festival darà voce, sta declinando sul campo.

Per questo e per molti altri motivi la nascita del festival nazionale dell’economia civile è qualcosa di inedito, originale ed importante

Il primo è che il lavoro di un economista e di un operatore sociale che vuole risolvere i problemi che i cittadini gli chiedono di affrontare è enormemente più complicato di quello di un meccanico e di un medico.

Al meccanico bastano le sue competenze e le chiavi della macchina. Al medico serve anche la collaborazione del paziente. All’economista e operatore sociale non basta infatti avere una buona ricetta, e neanche che un singolo paziente collabori. C’è bisogno della collaborazione di un numero di cittadini un po' più numeroso per produrre cambiamenti che abbiano un minimo di probabilità di successo.

La nascita del nostro festival vuole essere specchio, amplificatore e motore di questo cambiamento inteso come capacità di attivazione dal basso di cittadini, organizzazioni e imprese che già esiste nel nostro paese e va solo stimolata e potenziata.

Il festival nazionale dell’economia civile è anche un festival della felicità, della ricchezza di soddisfazione e senso della nostra vita.

Gli esseri umani sono felici se la loro vita è generativa.

Ovvero siamo felici se la nostra opera, le nostre relazioni, il nostro modo di essere in sintonia con il mondo che ci circonda, migliora la vita di qualche altro essere umano.

Mettersi in moto per dare assieme una risposta ai problemi che ci circondano dunque non è solo la migliore ricetta politica per cambiare in meglio il nostro Paese, è anche la via migliore per dare senso e significato alla nostra vita.

Il festival intende da questo punto di vista essere una fonte di ispirazione attraverso le parole e i fatti di protagonisti che ci possono aiutare in questo cammino.

Nella consapevolezza, ed è questo il principio fondamentale della ‘politica economica’ dell’economia civile, che un mondo complesso come quello in cui viviamo non potrà mai salvarlo l’Uomo della Provvidenza, quel leader o uomo forte sulle cui spalle per pigrizia e mancanza di generatività vorremmo mettere sulle spalle la croce del Paese.

Nessun leader o uomo della provvidenza, ricordava Baumann, può risolvere da solo problemi così complessi come quelli delle società contemporanee.

Il mondo ‘a due mani’ (quella invisibile del mercato e quella visibile del leader politico) non può funzionare. C’è bisogno di un mondo ‘a quattro mani’ dove mercato e istituzioni sono aiutate nel loro lavoro dalla terza mano della cittadinanza attiva e dalla quarta mano delle imprese socialmente, ambientalmente e civilmente responsabili.

L’economia non è la scienza triste della descrizione dei vincoli di bilancio ma la definizione di sfide, investimenti, progetti che, non ignorando i vincoli possono rendere felici e ricche di senso le nostre vite.

Nel festival nazionale dell’economia civile scopriremo che i germogli del cambiamento sono già tra noi e sono molteplici, anche se spesso poco visibili.

La sfida che dobbiamo vincere tutti insieme, per il futuro del nostro pianeta e per la generatività delle nostre vite, è renderli ‘virali’, popolari, contagiosi”.

Maggiori informazioni sul festival si possono ottenere visitando il sito www.festivalnazionaleeconomiacivile.it.

Un esodo biblico di medici negli ospedali e il governo non fa nulla


Secondo uno studio realizzato dal sindacato dei medici Anaao-Assimed nel prossimo futuro  si verificherà una notevole carenza di medici negli ospedali pubblici. Le regioni nelle quale tale fenomeno sarà particolarmente consistente saranno il Piemonte, nel Nord, la Toscana, nel Centro, e la Sicilia, nel Sud.

Un’efficace sintesi dei contenuti dello studio in questione è presente in un articolo pubblicatosu www.insalutenews.it.

La carenza di personale medico nelle corsie ospedaliere e nei servizi territoriali rischia di subìre una ulteriore brusca accelerazione con l’introduzione della “quota 100” prevista nella legge di bilancio 2019 e in via di definizione con il cosiddetto “decretone”.

I medici dipendenti del servizio sanitario nazionale oggi vanno in quiescenza con una anzianità in media intorno ai 65 anni di età. Nel 2018 è iniziata l’uscita dal sistema dei nati nell’anno 1953 (circa 7000 medici).

Nel triennio 2019-2021, che interesserà secondo le regole della legge “Fornero” essenzialmente i nati dal 1954 al 1956, sono previste uscite tra 6.000 e 7.000 medici l’anno, per un totale di circa 20.000 unità.

Con la “quota 100”, in vigenza sempre tra il 2019 e il 2021, si acquisisce il diritto ad un pensionamento anticipato a 62 anni di età, visto che la grande maggioranza dei medici ha effettuato il riscatto degli anni di laurea e di specializzazione per il basso costo previsto tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80 e sono in possesso del requisito dei 38 anni di contribuzione previdenziale.

Quindi nel 2019, con l’anticipo di tre coorti, potrebbero lasciare i nati fino all’anno 1957, mentre quelli nati nel 1958 e 1959 raggiungeranno i 62 anni tra il 2020 e il 2021. L’anticipo potrebbe interessare nel triennio 2019/2021 altri 17.000-18.000 medici, per un totale di pensionamenti possibili di 38.000.

E’verosimile, comunque, che i pensionamenti siano ridotti per le penalizzazioni che l’adesione alla “quota 100” comporta: riduzione dell’assegno pensionistico, limitazione della libera professione e divieto del cumulo previdenziale.

In definitiva, si stima che l’uscita per “quota 100” sia limitata al 25%, in pratica circa 4.500 medici dei 18.000 che acquisiranno il diritto. Anche i recenti dati Inps sembrano confermare tale previsione.

Dal 2022, in base alle dichiarazioni di autorevoli esponenti dell’attuale governo, dovrebbe entrare in vigore una ulteriore riforma pensionistica con la cosiddetta “quota 41”, riferita agli anni di contribuzione da raggiungere per ottenere la quiescenza, che prevede rispetto alla “Fornero”, tutt’ora in vigore, una riduzione di contribuzione di 1 anno e 10 mesi per i maschi e 10 mesi per le donne.

Quindi, come già rilevato in uno studio precedente studio, pubblicato il 7 gennaio 2019, tra il 2018 e il 2025 dei circa 105.000 medici specialisti attualmente impiegati nella sanità pubblica ne potrebbero andare in pensione circa la metà: 52.500.

Un esodo biblico che richiederebbe interventi immediati e fortemente innovativi per attenuarne le conseguenze sulla quantità e qualità dei servizi erogati ai cittadini.

Del resto siamo di fronte ad una popolazione di professionisti particolarmente invecchiata a causa del blocco del turnover.

Secondo i dati diffusi da Eurostat, l’Italia ha i medici più vecchi d’Europa con il 54% del totale che ha una età superiore a 55 anni. In un precedente lavoro (Anaao, 2016) era stato evidenziato come la popolazione dei medici dipendenti del servizio sanitario nazionale con età maggiore a 50 anni fosse nel 2015 addirittura il 68% del totale.

Tali dati dimostrano che non saranno sufficienti i neo specialisti a sostituire i pensionati, per colpa dell‘errata programmazione delle borse di specialità perpetrata negli anni passati, ma soprattutto è a rischio la qualità generale del sistema perché la velocità dei processi in atto non concederà il tempo necessario per il trasferimento di conoscenze dai medici più anziani a quelli con meno esperienza alle spalle.

Si tratta, infatti, di competenze cliniche e capacità tecniche che richiedono tempo e un periodo di passaggio di esperienze tra diverse generazioni professionali per essere trasferite correttamente.

Pertanto sarebbe necessario che quanto prima fossero adottati dal governo interventi rivolti ad affrontare il problema, quanto meno a ridurre la carenza di medici, se non a eliminarla del tutto.

Ma, mentre il governo, per fini di natura elettorale, si è celermente attivato per varare la quota 100, non si sta muovendo affatto per far fronte alle conseguenze negative che l’introduzione di tale provvedimento eserciterà sulla carenza dei medici nella sanità pubblica, carenza che peraltro si sarebbe verificata comunque, come dimostrato nello studio, anche in assenza di quota 100.

Ma questo governo è privo di una strategia che vada oltre il breve periodo, in vari settori, ed anche nella sanità pubblica.

Pertanto, purtroppo, è prevedibile che non si realizzino gli interventi necessari per contrastare efficacemente il problema rappresentato dalla carenza dei medici. E ciò contribuirà a ridurre il peso della componente pubblica del sistema sanitario.

E’ quest’ultima eventualità la principale causa dell’inazione del governo?

giovedì 14 marzo 2019

Il 21 marzo a Padova contro le mafie



Il 21 marzo Padova sarà la piazza principale, ma simultaneamente, in migliaia di luoghi d’Italia, dell’Europa e dell’America Latina, la giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie verrà vissuta attraverso la lettura dei nomi delle vittime e, di seguito, con momenti di riflessione e approfondimento. Insieme per ricordare le oltre 900 vittime innocenti delle mafie con la lettura dei loro nomi e per farsi portavoce di una richiesta di verità e giustizia.

E questo per sottolineare - non solo simbolicamente - che per contrastare le mafie e la corruzione occorre sì il grande impegno delle forze di polizia e di molti magistrati, ma prima ancora occorre diventare una comunità solidale e corresponsabile, che faccia del “noi” non solo una parola, ma un crocevia di bisogni, desideri e speranze. 

La scelta di Padova, in rappresentanza del Nord Est, è stata presa dall’associazione Libera, presieduta da don Ciotti.

Una scelta la cui validità è risultata evidente anche in seguito al recente blitz delle forze di polizia e della magistratura, volto a contrastare la presenza della ‘ndrangheta in Veneto, che ha portato alla realizzazione di 33 arresti.

Così ha commentato quanto avvenuto in Veneto Francesca Rispoli, componente dell’ufficio di presidenza di Libera: “Quando mesi fa abbiamo scelto il Nord Est, il Veneto, per la giornata nazionale della Memoria e dell'Impegno molti avevano accolto la nostra decisione con diffidenza e resistenza, ma l'operazione di oggi come quella delle scorse settimane, grazie al lavoro della magistratura e delle forze dell' ordine, dimostrano con chiarezza che le mafie sono presenti e non bisogna abbassare la guardia.

Ecco che ci meraviglia chi si stupisce: oggi più che mai mafia e corruzione sono parassiti che erodono il tessuto sociale. Le commistioni con la mafia sono difficili da sconfiggere perché non operano a viso scoperto, si insidiano nelle persone e nelle realtà e ne succhiano il sistema da dentro.

Il Veneto però ha gli anticorpi per poter reagire, dobbiamo metterci la faccia, per dire da che parte si sta. Questo è un momento in cui ci vuole un riscatto da parte di tutti, una rivoluzione culturale, etica, sociale”.

Infatti il Nord-Est, secondo Libera, da locomotiva economica del Paese, nel silenzio e lentamente rischia di trasformarsi in “lavatrice” di soldi sporchi.

Secondo i dati presenti nella relazione relativa al primo semestre del 2018 della Direzione Investigativa Antimafia, nelle tre regioni del Nord Est le operazioni sospette, nei primi sei mesi del 2018, sono state complessivamente 4.281, pari al 7,7% del totale nazionale.

Il maggior numero di segnalazioni di operazioni sospette di riciclaggio si sono verificate nel Veneto, dove ogni giorno, presso banche e istituti creditizi, sono state effettuate 19 segnalazioni di operazioni finanziarie sospette di riciclaggio per un totale di 3.518, nel semestre considerato. 



In Iran Nasrin Sotoudeh condannata a 33 anni di carcere e a 148 frustate



Nasrin Sotoudeh, coraggiosa difensora dei diritti umani, è stata condannata da un tribunale di Teheran a 33 anni di carcere e a 148 frustate. La sentenza si aggiunge alla condanna a cinque anni  emessa nel settembre 2016 al termine di un altro processo irregolare, per un totale di 38 anni di prigionia.

Nasrin Sotoudeh, che esercita la professione di avvocato, aveva preso posizione contro l’applicazione di una nota aggiuntiva all’articolo 48 del codice penale in base alla quale si nega il diritto di nominare un avvocato di fiducia alle persone imputate di determinati reati, tra i quali quelli contro la sicurezza nazionale.

Costoro possono scegliere unicamente in una lista di avvocati approvata dal capo del potere giudiziario. Per la provincia di Teheran, ad esempio, gli avvocati approvati sono solo 20.

E’ stata la più dura condanna inflitta negli ultimi anni contro i difensori dei diritti umani in Iran, a riprova che le autorità, incoraggiate dalla completa impunità di cui godono i responsabili delle violazioni dei diritti umani, stanno inasprendo la repressione.

Una condanna oltraggiosa per una difensora dei diritti umani che consideriamo una prigioniera di coscienza.

Nasrin va liberata immediatamente!

Lo sostiene Amnesty International.

Tra i reati, riferiti unicamente al suo pacifico lavoro in favore dei diritti umani, figurano “incitamento alla corruzione e alla prostituzione”, “commissione di un atto peccaminoso…essendo apparsa in pubblico senza il velo” e “interruzione dell’ordine pubblico”.

I giudici hanno applicato l’articolo 134 del codice penale che autorizza a emettere una sentenza più alta di quella massima prevista se l’imputato ha più di tre imputazioni a carico. Nel caso di Nasrin Sotoudeh, il giudice Mohammad Moghiseh ha applicato il massimo della pena  per ognuno dei sette capi d’accusa, 29 anni in tutto, aggiungendovi altri quattro anni e portando così la condanna a 33 anni.

“E’ sconvolgente che Nasrin Sotoudeh  vada incontro a quasi quattro decenni di carcere e a 148 frustate a causa del suo lavoro pacifico in favore dei diritti umani, compresa la difesa legale di donne sotto processo per aver sfidato le degradanti leggi sull’obbligo del velo”, ha dichiarato Philip Luther, direttore delle delle ricerche sul Medio Oriente e sull’Africa del Nord di Amnesty International.

Amnesty International invita a firmare un appello a sostegno di Nasrin, utilizzando questo link https://www.amnesty.it/appelli/liberta-per-nasrin/, il cui testo è il seguente:

Al capo della magistratura Ebrahim Raisi 
c/o Permanent Mission of Iran to the UN
Chemin du Petit-Saconnex 28
1209 Geneva, Switzerland

Egregio Signor Raisi,
mi rivolgo a Lei in quanto sostenitore di Amnesty International, l’organizzazione non governativa che dal 1961 lavora in difesa dei diritti umani, ovunque siano violati.

Nasrin Sotoudeh, importante avvocata per i diritti umani e difensora dei diritti delle donne che è arbitrariamente detenuta nella prigione di Evin a Teheran dal giorno del suo arresto il 13 giugno 2018, è stata condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate in relazione a due processi.

La esorto a rilasciare Nasrin Sotoudeh immediatamente e incondizionatamente in quanto prigioniera di coscienza, imprigionata esclusivamente per il suo pacifico lavoro sui diritti umani. In attesa della sua liberazione, le assicuri contatti regolari con la sua famiglia e un avvocato di sua scelta.

La esorto ad interrompere la criminalizzazione del lavoro dei difensori dei diritti delle donne, compresi quelli che protestano pacificamente contro l’obbligo del velo, e  di abolire la leggi che impone tale obbligo.

La ringrazio per l’attenzione.

lunedì 11 marzo 2019

Si deve avere fiducia nei giovani (e io in Elisa)



Non c’è molta fiducia nei giovani italiani, attualmente. Si riconosce che molti sono i problemi cui si trovano di fronte. Ma, spesso, vengono formulate nei loro confronti critiche, anche pesanti, tali da sostenere che una parte almeno dei problemi che li contraddistinguono dipendano esclusivamente da loro, dai loro comportamenti.

Sotto accusa soprattutto i nati dopo il 2000, ritenuti apatici, eccessivi utilizzatori degli smartphone e tramite di essi dei social media, scarsamente disponibili ad effettuare sacrifici.

Ma anche i nati appena prima del 2000 non sono esenti da critiche, simili a quelle appena citate.

In realtà, come avvenuto per tutte le generazioni, i giovani d’oggi non rappresentano un insieme indistinto e tutto uguale.

Ci sono molti giovani che si impegnano fortemente negli studi e nel lavoro, o meglio nel tentativo di trovare un lavoro. Quindi dispongono di un bagaglio di conoscenze e di competenze senza dubbio considerevole e tutt’altro che trascurabile.

Ammetto che sono stato stimolato a formulare tali considerazioni in seguito alla laurea magistrale di mia figlia Elisa, ottenuta venerdì passato con la votazione di 110 e lode, frutto di un impegno costante e pluriennale nei suoi studi universitari e non.

Ma ci sono molti e molte che raggiungono i risultati raggiunti da Elisa, che dispongono di conoscenze che, almeno in parte, noi quando eravamo giovani non avevamo, ad esempio in campo linguistico e in campo scientifico ed informatico.

E, senza dubbio, sarebbero molti di più i giovani come Elisa se il sistema scolastico italiano fosse migliore e se le prospettive di lavoro per loro fossero anch’esse migliori, contraddistinte, tra l’altro, da un minore carattere di precarietà.

Del resto di chi è la colpa se il sistema scolastico e il lavoro per i giovani assume le caratteristiche attualmente assunte?

Di noi adulti, ovviamente.

Peraltro, non si può affatto sostenere che tutti i giovani non accettano sacrifici per trovare un lavoro se si considera che migliaia di loro, in un numero crescente, negli ultimi anni, si sono resi disponibili ad andare all’estero.

Quindi, attenzione a formulare giudizi affrettati, eccessivamente critici, nei confronti dei giovani italiani.

Tali giudizi vengono espressi soprattutto da chi non li conosce a sufficienza.

Piuttosto, sarebbe necessario attuare politiche rivolte ad affrontare i principali problemi dei giovani, politiche che da tempo sono del tutto insufficienti.

Certo, i giovani, o meglio certi giovani, hanno anche le loro responsabilità, relativamente ai problemi cui si trovano di fronte. Non si deve deresponsabilizzarli.

Credo però che le responsabilità di noi adulti siano maggiori e di questo non tutti noi siamo consapevoli, tutt’altro.

lunedì 4 marzo 2019

Guerra in Yemen, 120.000 bambini rischiano di morire di fame



In Yemen, 120.000 bambini rischiano di morire di fame a causa del protrarsi degli scontri e dell’impossibilità di accedere a beni essenziali e medicine, e la malnutrizione priva 1 milione di donne in gravidanza o allattamento del sostentamento indispensabile per le loro condizioni. Nel Paese martoriato da ormai quasi quattro anni di guerra, si stima che saranno 1,5 milioni in più i minori che nel 2019, rispetto all’anno precedente, avranno bisogno di assistenza umanitaria urgente.

Questo l’allarme lanciato da Save the Children, in concomitanza con la conferenza dei donatori per lo Yemen che si tiene oggi a Ginevra.

“Parliamo con i bambini yemeniti ogni giorno. Ci raccontano della distruzione che vedono attorno a sé e ci dicono che hanno bisogno di pace, cibo, acqua pulita, assistenza sanitaria, e del loro desiderio di tornare a studiare tra i banchi di scuola. Eppure, purtroppo, le loro voci continuano a rimanere inascoltate”, ha dichiarato Tamer Kirolos, direttore di Save the Children in Yemen.

“Le organizzazioni e le agenzie delle Nazioni Unite impegnate in Yemen stanno lavorando giorno e notte, nonostante le difficoltà, per garantire al popolo e ai bambini yemeniti il supporto e l’assistenza di cui ha bisogno.

I leader riuniti a Ginevra hanno nelle loro mani le vite e il futuro di milioni di bambini vulnerabili e per questo chiediamo alla comunità internazionale di incrementare gli sforzi per garantire loro cibo, protezione, educazione e supporto psico-sociale. Soltanto investendo in queste aree si potranno ridurre i danni a lungo termine del conflitto sulla popolazione dello Yemen, e in particolare su donne e bambini”, ha concluso Tamer Kirolos.

Per tenere alta l’attenzione sulla guerra in Yemen, dove più di 1 bambino su 10 vive in aree in cui l’intensità del conflitto è elevata e dove dall’inizio delle ostilità circa 6.500 minori hanno perso la vita o sono rimasti feriti dai bombardamenti, Save the Children, nell’ambito della nuova campagna “Stop alla guerra sui bambini”, ha lanciato una petizione pubblica on line per chiedere all’Italia di fermare immediatamente l’esportazione di armi italiane utilizzate in Yemen dalla coalizione saudita.

Gli armamenti, in particolare, vengono prodotti nello stabilimento della Rwm di Domusnovas, in Sardegna, e il loro utilizzo da parte dell’aviazione saudita è confermato dal rapporto finale del gruppo di esperti sullo Yemen, commissionato dall’Onu.

Si può aderire alla petizione e chiedere al nostro governo di fermare l’export di armi italiane all’Arabia Saudita utilizzando il link:  https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/campagne/stop-alla-guerra-s...

In dieci anni è cambiato tutto nel mercato del lavoro



In dieci anni è cambiato tutto nel mercato del lavoro italiano, o quasi. E’ questo quello che emerge dalla nuova analisi condotta da Istat, Inps, ministero del Lavoro, Anpal e Inail, recentemente presentata. E’ cambiata la composizione dei lavoratori, le loro competenze, i settori, le ore lavorate e tanto altro ancora. Un rapporto che è anche una novità, perché per la prima volta mette a sistema fonti statistiche e amministrative provenienti da enti diversi.

Il rapporto viene esaminato in un articolo di Francesco Seghezzi pubblicato su www.open.online.

Apparentemente non sembrerebbe che sia cambiato nulla. Infatti fatti 100 gli occupati del 2008 nel 2018 (dati del III trimestre) erano 99,4.

In pratica il numero degli occupati nel 2018 è tornato ad essere pari al numero verificatosi nel 2008.

Invece, ci sono stati cambiamenti molto importanti.
Innanzitutto il mercato del lavoro ha guadagnato ben 503.000 occupate donne. Ma ha perso 388.000 occupati maschi, a dimostrazione che molti lavori persi negli anni della crisi non sono ancora stati ritrovati e che la componente femminile ha spesso sostenuto il reddito famigliare in nuclei nei quali, prima della recessione, lavorava solo il maschio.

E questo aumento dell'occupazione femminile non spiega però il cambiamento del regime orario che è uno degli elementi che ha determinato la più grande mutazione nel decennio.

Infatti sono aumentati di 1,4 milioni gli occupati con part time involontario (coloro che vorrebbero lavorare con un full time ma non riescono a trovarlo) mentre sono diminuiti di 866.000 gli occupati a tempo pieno e di 450.000 quelli a part time volontario.

Non si tratta quindi di nuove donne al lavoro che scelgono il part time, ma di riduzione delle ore di lavoro che avviene contro la volontà del lavoratore a causa, probabilmente, di una riduzione della produzione e una mancanza di ripresa effettiva dopo la crisi economica. Per cui si predilige salvaguardare il numero degli occupati a scapito del numero di ore lavorate. Lo stesso rapporto infatti mostra come negli ultimi dieci anni le ore lavorate siano diminuite del 5%.

Ma una ulteriore spiegazione di questo fenomeno arriva dai cambiamenti dei settori in cui si è concentrato il lavoro. Sono aumentati infatti i servizi collettivi e alla persona in cui il numero di ore lavorate è notoriamente inferiore a quelle dell'industria, che ha visto un calo di 287.000 occupati e delle costruzioni (-549.000). Più occupati invece nella ristorazione, negli alberghi, nei servizi di cura all'interno delle famiglie, tutti lavori con meno ore, meno produttività e, spesso, meno salario rispetto all'occupazione più tradizionale nell'industria.

Un altro cambiamento ha riguardato le tipologie contrattuali.

In dieci anni abbiamo avuto 600.000 lavoratori indipendenti (autonomi) in meno e 735.000 dipendenti a termine in più, mentre i lavoratori a tempo indeterminato sono sostanzialmente rimasti invariati (-19.000). Sicuramente ha inciso l'eliminazione di forme contrattuali come il co.co.pro. a partire dal 2016 e la liberalizzazione dei contratti a termine ma è chiaro anche che la fase di ripresa ha coinciso con una mutazione delle scelte di assunzione delle imprese che si trovano ad operare in mercati più dinamici, incerti e concorrenziali.

C'è poi il dato demografico, che è fondamentale per capire presente e futuro del lavoro in Italia. Nel 2008 30 occupati su 100 avevano tra i 15 e i 34 anni, nel 2018 questo numero è sceso a 22.

La causa principale è l'invecchiamento della popolazione ma un cambiamento così ampio (quasi un terzo) non può che esser stato causato anche dalla situazione di svantaggio e di difficoltà dei giovani nell'accesso e nella permanenza nel mercato del lavoro. 

Giovani che nel 2017, secondo il rapporto, hanno iniziato prevalentemente a lavorare con un contratto a termine (50%) o con un apprendistato (14%), mentre solo il 9% ha avuto un contratto a tempo indeterminato. Tempo indeterminato che, dopo 24 mesi dal primo lavoro, solo il 50% dei giovani possiede. E tempo indeterminato che è più probabile del 12,5% se si accede nel mercato del lavoro con un contratto di somministrazione rispetto all'accesso con un contratto a termine. Peccato che solo il 9% entrino nel mercato con questo contratto.