mercoledì 29 marzo 2023

Sempre molto elevate le perdite idriche


Recentemente l’Istat ha diffuso un “focus tematico” sulle statistiche dell’acqua riferite al territorio e alla popolazione. Numerosi i dati evidenziati. Particolarmente interessanti quelli relativi alle perdite idriche nelle reti comunali di distribuzione.

Nel 2020, il volume delle perdite idriche totali nella fase di distribuzione dell’acqua, calcolato come differenza tra i volumi immessi in rete e i volumi erogati, era pari a 3,4 miliardi di metri cubi, il 42,2% dell’acqua immessa in rete.

Nel 2020, rispetto al 2018, i volumi complessivi movimentati nelle reti comunali di distribuzione dell’acqua potabile sono diminuiti di circa un punto percentuale, mentre le perdite in distribuzione (42,2%) non hanno subìto variazioni significative (erano al 42,0%), confermando ancora lo stato di inefficienza di molte reti comunali di distribuzione dell’acqua potabile.

Le perdite rappresentano uno dei principali problemi per una gestione efficiente e sostenibile dei sistemi di approvvigionamento idrico e, benché molti gestori del servizio idrico abbiano avviato iniziative per garantire una maggiore capacità di misurazione dei consumi, la quantità di acqua dispersa in rete continua a rappresentare un volume cospicuo, quantificabile in 157 litri al giorno per abitante.

Stimando un consumo pro capite pari alla media nazionale, il volume di acqua disperso nel 2020 avrebbe soddisfatto le esigenze idriche di oltre 43 milioni di persone per un intero anno.

Sebbene le perdite abbiano avuto un andamento molto variabile, le differenze territoriali e infrastrutturali ripropongono la consolidata presenza di notevoli differenze tra il Nord e il Sud, con le situazioni più critiche concentrate nelle aree del Centro e Mezzogiorno, ricadenti nei distretti idrografici della fascia appenninica e insulare.

I valori più alti si sono verificati, nel 2020, nei distretti Sicilia (52,5%) e Sardegna (51,3%), seguiti dai distretti Appennino meridionale (48,7%) e Appennino centrale (47,3%).

Nel distretto del fiume Po l’indicatore ha raggiunto, invece, il valore minimo, pari al 31,8% del volume immesso in rete. L’indicatore risultava di poco inferiore al dato nazionale nei distretti Alpi orientali (41,3%) e Appennino Settentrionale (41,1%).

In nove regioni le perdite idriche totali in distribuzione erano superiori al 45%, con i valori più alti in Basilicata (62,1%), Abruzzo (59,8%), Sicilia (52,5%) e Sardegna (51,3%).

Di contro, tutte le regioni del Nord avevano un livello di perdite inferiore a quello nazionale, ad eccezione del Veneto (43,2%). Il Friuli Venezia Giulia, con il 42,0%, era in linea con il dato nazionale. In Valle d’Aosta si è registrato il valore minimo (23,9%), seppur in aumento di circa due punti percentuali rispetto al 2018.

Circa una provincia/città metropolitana su due aveva perdite idriche totali in distribuzione superiori al dato nazionale.

Si perdeva almeno il 55% del volume immesso in rete in 20 province che, ad eccezione delle province di Belluno e La Spezia, erano localizzate nel Centro e nel Mezzogiorno. Nelle Isole l’87% circa della popolazione risiedeva in province con perdite pari ad almeno il 45%, contro il 4% del Nord-Ovest.

Più della metà dei comuni italiani (57,3%) aveva perdite idriche totali in distribuzione uguali o superiori al 35% dei volumi immessi in rete.

Perdite ingenti, pari ad almeno il 55%, interessavano il 25,5% dei comuni. In meno di un comune su quattro (23,8%) le perdite erano inferiori al 25%.

Grande era la variabilità a livello territoriale.

Il distretto del fiume Po si contraddistingueva per la maggiore quota di comuni con perdite contenute (il 54,5% aveva perdite inferiori al 35%) e per la minore con perdite molto alte (12,4% aveva perdite uguali o superiori al 55%).

Di contro, perdite uguali o superiori al 45% si registravano in più della metà dei comuni dei distretti Appennino centrale, Appennino meridionale (che deteneva la quota più alta, 41,6%, di comuni con perdite pari ad almeno il 55,0%) e Sardegna.

Nei 109 comuni capoluogo di provincia/città metropolitana, dove i gestori spesso concentrano maggiori investimenti e migliori monitoraggi, la situazione infrastrutturale era nel complesso migliore: 36,2% di perdite totali in distribuzione (sei punti percentuali meno del dato nazionale e circa un punto in meno rispetto al dato registrato nel 2018).

In 14 regioni e province autonome su 21 e in cinque distretti idrografici su sette sono aumentate le perdite idriche totali in distribuzione, con gli incrementi maggiori in Basilicata, Molise e Abruzzo.

Il valore molto elevato che in Italia assumono le perdite idriche non può che essere valutato in modo fortemente negativo, soprattutto in un periodo nel quale molte aree del Paese sono caratterizzate da una siccità di notevole entità e in forte crescita.

E’ del tutto evidente, quindi, che per contrastare gli effetti negativi provocati dalla siccità sarebbe necessario ridurre notevolmente le perdite idriche. Ma, purtroppo, negli ultimi anni, ciò non è avvenuto.

domenica 26 marzo 2023

A Giorgia Meloni non interessa Giulio Regeni

 

Il 13 febbraio scorso il Gup, nell’ambito del processo per la morte di Giulio Regeni, su richiesta della parte civile, decise di ammettere come testimoni la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani perché entrambi avevano dichiarato che il presidente egiziano Al Sisi aveva loro fornito delle rassicurazioni circa il superamento degli ostacoli procedurali che impediscono che il processo vada avanti.

Ma entrambi non hanno accettato di essere testimoni.

L'Avvocatura dello Stato ha rilevato che né Meloni né Tajani potranno essere ascoltati come testimoni perchè le domande e le risposte avrebbero riguardato colloqui, quelli tenuti con Al Sisi, “il cui contenuto si inscrive nell’ambito delle relazioni di politica internazionale e riguarda attività svolta nell’esercizio di una delle più rilevanti prerogative dell’azione di governo, nella sua più specifica accezione di politica estera”.

E secondo l’Avvocatura i contenuti dei colloqui, bilaterali o plurilaterali, fra i rappresentanti di governo non possono essere divulgati se non attraverso comunicati congiunti e condivisi.

La divulgazione dei medesimi contenuti, sempre secondo l’Avvocatura, senza il consenso dello Stato estero interessato potrebbe incidere sulla credibilità nella comunità internazionale: il contenuto non è divulgabile perchè c’è un segreto che non può essere divulgato.

A parte il fatto che si poteva chiedere ad Al Sisi una sorta di autorizzazione a divulgare nel processo il contenuto dei colloqui riguardante Giulio Regeni, in realtà spesso vengono resi noti i contenuti di colloqui con rappresentanti di altri Stati anche aggiungendo elementi non inseriti nei comunicati congiunti.

Quindi, a mio avviso, delle due l’una: o Al Sisi in realtà non ha fornito alcuna rassicurazione o Meloni e Tajani non intendono divulgare quanto riferito dal presidente Al Sisi relativamente alla vicenda di Giulio Regeni perché si potrebbero peggiorare le relazioni con l’Egitto che, invece, sono ritenute molto importanti sia sul piano politico che su quello economico.

Si ricorda che il principale ostacolo procedurale del processo è rappresentato dal fatto che le autorità egiziane non hanno fornito ai magistrati italiani gli indirizzi degli agenti indiziati perché ritenuti coinvolti nel rapimento e nell’uccisione di Giulio Regeni, indirizzi necessari per poter loro comunicare la notizia di essere appunto indagati nell’ambito del processo Regeni.

Pertanto a me sembra possibile concludere che a Giorgia Meloni e ad Antonio Tajani non interessa che si accerti la verità sull’assassinio di Giulio Regeni.

E tutto ciò è molto grave.

E’ soprattutto molto grave il comportamento di chi ricopre, tra i due, l’incarico di maggiore rilievo, il comportamento di Giorgia Meloni cioè, la quale, fino ad ora, non ha avvertito nemmeno la necessità di parlare con i genitori di Giulio Regeni.

giovedì 23 marzo 2023

La Bce ha sbagliato ancora

La Banca centrale europea, nell’ultima riunione del suo Consiglio, non solo ha deciso di aumentare i tassi di interesse ma li ha aumentati di 50 punti base, dell’0,5% cioè. L’incremento è stato piuttosto consistente. Molti osservatori e anche alcuni componenti del Consiglio avevano ritenuto opportuno che l’aumento non oltrepassasse l’0,25%.

Quindi la Bce continua ad attuare una politica monetaria eccessivamente restrittiva.

Innanzitutto un aumento più contenuto dei tassi di interesse, o addirittura la loro stabilità, sarebbe stato auspicabile alla luce dei problemi che recentemente hanno interessato alcune banche, per ora americane e una svizzera, dovuti anche all’elevato aumento dei tassi di interessi deciso da molte banche centrali, problemi che potrebbero in futuro colpire anche banche di Paesi facenti parte dell’Unione europea, o meglio dei Paesi della cosiddetta area euro.

Inoltre, proseguire con una politica monetaria fortemente restrittiva, può rappresentare un forte ostacolo alla crescita economica dei Paesi europei, crescita che è già rallentata considerevolmente e che potrebbe tramutarsi in una vera e propria recessione.

I sostenitori, nell’ambito della Bce, di una politica monetaria fortemente restrittiva, la giustificano con la necessità di contrastare l’inflazione che, nei mesi passati, era fortemente aumentata.

Ma occorre ribadire che in Europa, diversamente dagli Stati Uniti d’America, l’inflazione è dovuta soprattutto ad un notevole aumento dei costi, è appunto un’inflazione da costi, non un’inflazione da domanda, nei confronti della quale una politica monetaria restrittiva è scarsamente efficace.

E occorre rilevare, poi, che in Europa, negli ultimi periodi, l’inflazione si sta attenuando e che, anche per questo motivo, sarebbe stato necessario o non aumentare di nuovo i tassi di interesse o aumentarli in misura minore.

Pertanto mi sembra opportuno concludere che, nell’ultima riunione del proprio Consiglio, la Bce ha sbagliato di nuovo.

Spero quindi che, quanto prima, la Bce muti la natura della politica monetaria che persegue.

Diversamente si produrrebbero effetti negativi di vario genere che devono essere assolutamente evitati.

martedì 21 marzo 2023

In Europa in forte aumento i bambini poveri

Nonostante l’Europa sia una delle regioni più ricche del mondo, il numero di bambine e bambini che vivono in condizioni di povertà ed esclusione sociale è in allarmante aumento, a causa del costo della vita, della crisi climatica e delle conseguenze della pandemia. In un solo anno oltre 200.000 bambini in più sono stati spinti sull'orlo della povertà, portando nel 2021 il numero totale di bambini a rischio di povertà a oltre 19,6 milioni, 1 bambino su 4.

L’Italia è tra i Paesi europei con la percentuale più elevata di minori a rischio povertà ed esclusione sociale, cresciuta dal 27,1% del 2019 al 29,7% del 2021, e si colloca al quinto posto per gravità dopo Romania (41,5%), Spagna (33,4%), Bulgaria (33%) e Grecia (32% ), e ben al di sopra della media dell’Unione europea (24,4%), e con oltre 16 punti percentuali in più di Islanda (13,1%) e Finlandia (13,2%) che registrano invece le percentuali più contenute.

Questi sono alcuni dei dati principali contenuti nel nuovo rapporto europeo “Garantire il futuro dei bambini” diffuso da Save the Children.

Il rapporto prende in considerazione le diverse dimensioni della povertà infantile in 14 Paesi dell’Ue, per fare il punto sull’applicazione nei singoli Paesi, compresa l’Italia, del programma Garanzia Infanzia (Child Guarantee) istituito nel 2021 dal Consiglio dell’Unione europea con l’obiettivo di spezzare il ciclo intergenerazionale dello svantaggio garantendo l'accesso dei bambini a rischio povertà ed esclusione sociale a servizi educativi per la prima infanzia, assistenza sanitaria, alloggio adeguato e alimentazione sana.

Il programma prevede anche misure specifiche per i gruppi più vulnerabili come i bambini con disabilità, quelli di origine straniera e rifugiati, quelli fuori dalla famiglia di origine o quelli appartenenti alle minoranze.

Se la Romania è il Paese che desta le maggiori preoccupazioni per il futuro dei bambini, dato che nel 2022 il 40% delle famiglie ha subito una diminuzione del proprio reddito mentre le spese sono praticamente raddoppiate (+98%), l’Italia si segnalava già nel 2021 per il triste record raggiunto di quasi 1 milione e 400.000 bambini colpiti dalla povertà assoluta (14,2% in media e 16,1% nel Mezzogiorno).

L’impennata dell’inflazione nel 2022 ha peggiorato ulteriormente la situazione perché ha colpito in modo più marcato proprio le famiglie meno abbienti (12,1%), rispetto a quelle con maggiore capacità di spesa (7,2%).

L’Italia è anche in evidenza per il maggiore impatto della povertà sui bambini con “background” migratorio, i rifugiati, i richiedenti asilo, i bambini senza documenti e quelli non accompagnati, un divario presente in molti Paesi europei, ma che in Italia ha spinto fino al 32,4% dei migranti a vivere in condizioni di povertà (7,2% la percentuale dei cittadini italiani che si trovano nella stessa condizione).

“La Child Guarantee è una grande opportunità perché nasce da un forte slancio politico congiunto dei Paesi europei per proteggere il futuro dei bambini e delle bambine prima che sia troppo tardi.

I dati di questo rapporto sono la fotografia di un’emergenza che cresce a vista d’occhio e che tocchiamo con mano ogni giorno nel nostro lavoro sul campo in Italia e in altri Paesi.

Le famiglie più vulnerabili sono costrette ad affrontare gravissime difficoltà ed anche in una regione del mondo avanzata come l’Europa milioni di bambini non possono permettersi un pasto quotidiano caldo e nutriente, vivono in case sovraffollate, fredde o con problemi strutturali, crescono nell’incertezza quotidiana perché i loro genitori non riescono a sostenere le necessità della famiglia. 

Bambini che non possono accedere a tutte le opportunità che offre la scuola, a partire dalla prima infanzia, o che non possono partecipare alle attività sportive o altri tipi di attività educative e culturali al pari dei loro coetanei, aumentando così il divario e accrescendo la povertà educativa” ha dichiarato Raffaela Milano, direttrice programmi Italia-Europa di Save the Children.

L’impegno per abbattere il rischio di povertà ed esclusione sociale minorile in Italia si gioca su più fronti, a partire da quello dell’istruzione.

Già nella prima infanzia solo il 13,7% dei bambini accede agli asili nido pubblici e convenzionati, il tempo pieno è garantito solo all’38,1% degli studenti della scuola primaria e la dispersione scolastica inghiotte più di 1 adolescente su 7 (12,7%), una percentuale seconda in Europa, anche in questo caso, solo a quella di Romania (15,3%) e Spagna (13,3%), mentre il numero dei Neet (15-29enni fuori da lavoro, istruzione o formazione) raggiunge il 23,1% ed è il più elevato tra i Paesi Ue (media 13,1%), segnando quasi 10 punti in più rispetto a Spagna (14,1%) e Polonia (13,4%), e più del doppio se si considerano Germania e Francia (9,2%).

Sugli altri fronti, in Italia, la povertà alimentare colpisce 1 bambino su 20, mentre l’accesso alla mensa scolastica, che per alcuni sarebbe l’unica chance quotidiana di un pasto equilibrato e proteico, si limita a poco più di un 1 bambino su 2 nella scuola primaria, un bambino o ragazzo su 4 non pratica mai sport (3-17 anni), e, con la pandemia, i bambini tra i 3 e 10 anni in sovrappeso o obesi sono passati dal 32,6% (biennio 2018-19) al 34,5% (2020-21).

Anche la deprivazione abitativa condiziona benessere e salute di più della metà (55,7%) dei minori in povertà relativa nel nostro Paese, costretti a vivere in case sovraffollate, e l’incidenza della povertà energetica ha raggiunto nel 2021 il 9,3% tra le famiglie con minori.

Pertanto i dati relativi all’Italia dimostrano chiaramente che in Italia sarebbe necessario fare molto di più per contrastare la povertà.

Non va bene il reddito di cittadinanza? Deve essere modificato, anche radicalmente?

L’importante è che gli interventi per combattere la povertà, in primo luogo quella minorile, non solo non diminuiscano nella loro entità complessiva ma, invece, aumentino.

mercoledì 15 marzo 2023

Oltre 4 milioni di italiani rinunciano alle cure

 

Nel 2022 circa il 7% della popolazione italiana ha rinunciato a cure di cui aveva bisogno, il 4,2% in seguito alle lunghe liste di attesa e il 3,2% per motivi economici. Quindi hanno rinunciato a curasi oltre 4 milioni di italiani. Inoltre, rispetto al 2019, è aumentata soprattutto la quota di persone che ha dichiarato di aver pagato interamente a sue spese visite specialistiche e accertamenti diagnostici.

Questi e altri dati sono stati riferiti da Cristina Freguja, direttrice della direzione centrale per le statistiche sociali e il welfare dell’Istat, nel corso di un’audizione presso la commissione affari sociali del Senato.

Cristina Freguja ha, tra l’altro, affermato:

“Durante l’emergenza sanitaria, la quota di persone che hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie ritenute necessarie era quasi raddoppiata, passando dal 6,3% nel 2019 al 9,6% nel 2020, sino all’11,1% nel 2021.

Le stime più recenti relative al 2022 attesterebbero un netto recupero, con un ritorno a quote osservate negli anni precedenti la pandemia: la rinuncia per i motivi già citati si riduce al 7,0%, una percentuale simile a quella rilevata nel 2018 (7,2%).

Nel confronto tra il 2022 e gli anni pregressi della pandemia, emerge un’inequivocabile barriera all’accesso costituita dalle lunghe liste di attesa, che nel 2022 diventa il motivo più frequente (il 4,2% della popolazione), a fronte di una riduzione della quota di chi rinuncia per motivi economici (era 4,9% nel 2019 e scende al 3,2% nel 2022).

Nel 2022 le prestazioni sanitarie fruìte sono, inoltre, più contenute rispetto al periodo pre-pandemico.

Dalle indagini Istat sulla popolazione, si rileva infatti una riduzione - diffusa in tutte le ripartizioni territoriali - della quota di persone che ha effettuato visite specialistiche (dal 42,3% nel 2019 al 38,8% nel 2022) o accertamenti diagnostici (dal 35,7% al 32,0%) - nel Mezzogiorno quest’ultima riduzione raggiunge i 5 punti percentuali.

La flessione riguarda tutte le fasce d’età, ma è maggiore nelle età anziane, con riduzioni di 6 punti per le donne, e comunque anche tra i minori che ricorrono a visite specialistiche (-6 punti percentuali) o tra le donne adulte per gli accertamenti.

Contrariamente a quanto sarebbe stato auspicabile, non sembra quindi che nel 2022 si sia riusciti a recuperare i livelli di prestazioni sanitarie pre-pandemia ed emerge nel contempo dai dati Istat il maggior peso della rinuncia a prestazioni per lunghe liste di attesa.

Rispetto al 2019 aumenta soprattutto la quota di persone che dichiara di aver pagato interamente a sue spese sia per le visite specialistiche (dal 37% al 41,8% nel 2022) sia per gli accertamenti diagnostici (dal 23% al 27,6% nel 2022).

Il ricorso alla copertura assicurativa nel 2022 riguarda una quota di poco superiore al 5% delle persone che hanno dichiarato di aver effettuato visite specialistiche o accertamenti diagnostici nei 12 mesi precedenti l’intervista, ma risulta in lieve aumento, soprattutto al Nord-Ovest”.

Quindi la situazione è migliorata rispetto agli anni della pandemia.

Ma quanto avvenuto nel 2022 non può essere considerato accettabile.

Infatti sono molti, troppi, coloro che sono stati costretti a rinunciare a curarsi.

Pertanto sarebbero necessarie notevoli risorse finanziarie aggiuntive per ridurre considerevolmente il numero di coloro che rinunciano a curarsi.

Fino ad ora il governo non ha dotato il sistema sanitario pubblico dei fondi indispensabili per raggiungere l’obiettivo appena citato.

Ma la sanità deve, o meglio dovrebbe, essere una assoluta priorità.

Lo è davvero per l’attuale governo?

domenica 12 marzo 2023

Un adolescente su quattro è depresso

E’ in corso una crisi mondiale della salute mentale, anche e soprattutto fra i giovanissimi: l’incidenza di depressione e ansia fra gli adolescenti è raddoppiata rispetto a prima della pandemia. Oggi un adolescente su quattro ha i sintomi clinici di depressione e uno su cinque segni di un disturbo d’ansia.

Lo dimostrano alcuni studi resi noti nel recente congresso della Società italiana di neuropsicofarmacologia (Sinpf).

Tale situazione potrà purtroppo avere conseguenze negative sul lungo periodo: è stato infatti dimostrato che soffrire di depressione durante l’infanzia e l’adolescenza si associa da adulti a una salute peggiore, mentale e non solo, e a maggiori difficoltà nelle relazioni e nella vita in generale. 

“Tutte le ricerche concordano: con la pandemia un’allarmante percentuale di giovanissimi sta manifestando i segni di un disagio mentale - ha spiegato Claudio Mencacci, co-presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia -.

I tassi di depressione e ansia che si registrano sono direttamente correlati alle restrizioni: si impennano cioè quando viene impedita la socialità, quando si deve tornare alla didattica a distanza, quando non si possono coltivare le relazioni con i coetanei che in adolescenza sono indispensabili”.

A pagare il prezzo più alto sono i ragazzi della scuola secondaria superiore, “una fase essenziale per le nuove esperienze e per i primi traguardi - ha proseguito Mencacci - non vivere nella normalità ‘pietre miliari’ come l’esame di maturità o i primi amori per la psiche di un giovanissimo è assimilabile a un lutto e come tale può essere un fattore scatenante di ansia e depressione.

Molti possono avere sintomi di disagio mentale che poi si risolvono, ma tanti stanno mostrando di non riuscire a uscirne: per loro la pandemia è stata una sorta di ‘catalizzatore’, un evento che li ha portati su una traiettoria di malessere.

Senza contare coloro che erano già fragili prima del Covid, per i quali la pandemia è stata ancora più difficile da affrontare. Tutti devono essere intercettati e aiutati a uscire dalla depressione”.

Questo perché è ormai altrettanto certo che soffrire di depressione durante l’adolescenza comporta difficoltà per tutta la vita, se il disturbo non viene risolto presto e bene: come si ricorda in una nota della Sinpf, un recente studio  americano ha dimostrato che la presenza di sintomi persistenti di depressione da giovanissimi si associa a una vita adulta più difficile, in cui è maggiore il rischio di ansia, abuso di sostanze e perfino condotte criminali, è più elevata la probabilità di avere problemi di salute e relazioni sociali complicate così come di non raggiungere gli obiettivi di studio e carriera.

Le conseguenze sono più negative per chi soffre di depressione durante l’adolescenza rispetto alla prima infanzia e soprattutto per chi “trascina” i sintomi depressivi senza che vengano risolti da un adeguato trattamento: le ripercussioni sono infatti attenuate in chi è stato gestito dai servizi di salute mentale.

“Questi dati confermano la necessità di intercettare e trattare la depressione nei giovanissimi, un problema che sta emergendo con sempre maggiore forza a causa della pandemia - ha commentato Matteo Balestrieri, co-presidente della Società italiana di neuro psicofarmacologia -.

L’adolescenza è un momento centrale per lo sviluppo psichico dell’individuo e occorre gestire adeguatamente le psicopatologie che vi si dovessero manifestare per evitarne le conseguenze a lungo termine.

Il primo passo è una corretta diagnosi, quindi occorre impostare una terapia che spesso prevede in primis un percorso psicoterapeutico, ma che deve prevedere l’utilizzo di farmaci nei casi in cui ciò sia opportuno.

I farmaci non sono indicati in depressioni lievi né come prima linea di trattamento, ma con opportuni accorgimenti possono essere d’aiuto quando la psicoterapia da sola non basta, per evitare che la depressione diventi persistente e quindi più pericolosa per il benessere presente e futuro dell’adolescente”.

“Il dibattito sulla prescrizione degli antidepressivi in infanzia e adolescenza è ancora aperto: alcuni sono approvati per l’impiego in questa fascia d’età, altri vengono comunque utilizzati - hanno concluso Mencacci e Balestrieri -.

Tutti devono sempre essere prescritti nella consapevolezza dell’importanza di gestire l’adolescente nella sua complessità: gli antidepressivi possono e devono essere somministrati a un adolescente se è opportuno, ma occorre sempre che ci sia un attento monitoraggio ed è indispensabile sostenere il giovane paziente in un percorso di cura che tenga conto della sua particolare situazione emotiva e cognitiva”.

mercoledì 8 marzo 2023

Oltre 6.000 bambini ucraìni deportati in Russia

 

Oltre seimila bambini ucraini di età compresa tra i quattro mesi e i 17 anni sono stati inviati dalle truppe di Vladimir Putin nei campi di rieducazione o nel sistema di adozioni russo, e diverse centinaia sono stati trattenuti nei campi di rieducazione per settimane o mesi oltre la data prevista per il ritorno. 

Di tale argomento si è occupato Maurizio Stefanini, in un articolo pubblicato su www.linkiesta.it.

Già nel dicembre scorso quanto avvenuto a molti bambini ucraìni era stato denunciato dal “Washington Post”, che aveva anche ricordato come tutto ciò rappresenti un’evidente violazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, del 1948.

Ma ora le accuse sono dettagliate con evidenti prove in un rapporto dello Humanitarian research lab (Hrl) della Yale School of Public Health.

In una conferenza stampa Nathaniel Raymond, direttore esecutivo dello Yale Hrl, ha rilevato che ciò rappresenta anche una violazione della Convenzione di Ginevra sui diritti dei minori e la loro protezione nei conflitti armati, oltre ad altri elementi di diritto internazionale 

Secondo l’inchiesta, Mosca detiene minori ucraini in 43 centri, di cui 41 utilizzati in passato come campi estivi per bambini.

Nathaniel Raymond ha precisato che “il 78% di queste strutture svolge una qualche forma di rieducazione dei minori ucraini, principalmente provenienti da zone come Donetsk e Lugansk”, nell’est dell’Ucraina.

Ha aggiunto che ci sono altri minori che hanno confermato di essere stati inseriti nel sistema di adozione e negli orfanotrofi russi.

In almeno due campi, la data di rientro dei bambini è stata ritardata di settimane, mentre in altri due campi il rientro di alcuni bambini è stato posticipato a tempo indeterminato.

Raymond ha messo in guardia sulla “massiccia” portata geografica di queste attività russe, perché i centri dove vengono inviati i minori ucraini si trovano in varie parti: dalla penisola di Crimea a Mosca, al Mar Nero e alla Siberia. Esiste persino una struttura del genere a Magadan, sulla costa russa del Pacifico, “più vicino alla terraferma degli Stati Uniti che a Mosca”.

I minori appartengono a due gruppi. Il primo è costituito da minori provenienti da Donetsk e Lugansk, e il loro numero è stato calcolato sulla base dei rapporti sui trasferimenti nei campi di rieducazione. Il secondo gruppo è costituito da minorenni “evacuati” da Kherson, Kharkiv e Zaporizhzhia, e poi inseriti nel sistema di adozione russo.

Raymond ha spiegato che si sono potuti identificare circa 32 centri in cui sarebbero in corso “sforzi sistematici di rieducazione” per “esporre” i minori ucraini all’educazione militare, oltre che all’educazione accademica russa e al patriottismo culturale.

Secondo il rapporto, le autorità russe hanno cercato di fornire ai bambini un punto di vista favorevole a Mosca attraverso i programmi scolastici, le gite in luoghi patriottici e i discorsi dei veterani.

Un’altra delle responsabili dello studio, Caitlin Howarth, ha specificato che quando si parla di addestramento militare non si intendono minori seduti in classe ad ascoltare ciò che dicono i loro istruttori, ma di “maneggiare armi da fuoco”.

“Abbiamo immagini video e fotografiche di minori che percorrono strade con ostacoli, in allenamento fisico, alla guida di veicoli e armi”.

Non ci sono prove che i piccoli siano stati mandati addirittura a combattere, almeno per ora.

Secondo Raymond, però, con questi atti la Russia starebbe adottando un approccio globale a livello di governo per rieducare, reinsediare e realizzare adozioni forzate di minori ucraini.

Come già evidenziato dal “Washington Post”, anche lui ha ricordato che “ciò è esattamente coerente con quanto ipotizzato in alcuni dei primi processi ai nazisti davanti al tribunale di Norimberga. Non c’è dubbio che non ci sia confusione nel diritto internazionale: le azioni della Russia sono illegali e possono costituire un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità”.

Secondo il rapporto, già 350 bambini sono stati adottati da famiglie russe. Più di mille sono in attesa di adozione.

L’ambasciata russa a Washington ha replicato via Telegram: “La Russia ha accettato i bambini che sono stati costretti a fuggire con le loro famiglie dai bombardamenti. Mosca fa del suo meglio per mantenere i minorenni nelle famiglie e, in caso di assenza o morte di genitori e parenti, per trasferire gli orfani sotto tutela”.

“Le prove sempre più evidenti delle azioni della Russia mettono a nudo gli obiettivi del Cremlino di negare e sopprimere l’identità, la storia e la cultura dell’Ucraìna», ha dichiarato invece il Dipartimento di Stato americano in un comunicato. “Gli impatti devastanti della guerra di Putin sui bambini ucraìni si faranno sentire per generazioni”.

Il rapporto chiede di fermare le adozioni e di consentire l’accesso ai campi a un organismo neutrale.

domenica 5 marzo 2023

In dieci anni forte riduzione dei giovani occupati

 

Secondo il sesto rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, nel decennio 2012-2022 i giovani occupati sono notevolmente diminuiti. Infatti gli occupati 15-34enni sono diminuiti del 7,6% e quelli con 35-49 anni del 14,8%, mentre i 50-64enni sono aumentati del 40,8% e quelli con 65 anni e oltre del 68,9%.

I lavoratori invecchiano e in futuro ce ne saranno sempre meno: si stima che nel 2040 le forze di lavoro nel complesso saranno diminuite dell’1,6%, come esito della radicale transizione demografica che il nostro Paese sta vivendo.

Intanto, nei primi nove mesi del 2022 ogni giorno in media 8.500 italiani si sono dimessi dal lavoro: il 30,1% in più rispetto allo stesso periodo del 2019, prima della pandemia.

Nello stesso periodo, ogni giorno in media 49.500 italiani hanno iniziato un nuovo lavoro: il 6,2% in più rispetto al 2019.

Sono numeri che fotografano un mercato del lavoro molto dinamico, in cui la ricerca di una occupazione migliore (che per i giovani significa meno precaria) è la bussola che orienta le decisioni e i comportamenti.

La fascia della precarietà è infatti ancora ampia: complessivamente, il 21,3% dei lavoratori italiani è occupato con forme contrattuali non standard (tempo determinato, part-time, collaborazioni). La percentuale oscilla dal 27,9% delle lavoratrici donne (rispetto al 16,5% degli uomini) al 39,3% dei lavoratori 15-34enni.

Tra gli occupati giovani, la percentuale dei contratti non standard raggiunge il 46,3% tra le femmine, rispetto al 34,2% dei maschi.

Il part-time involontario, con meno ore lavorate e quindi retribuzioni più basse, coinvolge il 10,3% dei lavoratori italiani: il 16,7% delle donne (rispetto al 5,7% degli uomini) e il 13,9% dei 15-34enni.

Tra gli occupati giovani, la percentuale del part-time involontario raggiunge il 20,9% tra le femmine e si ferma al 9,0% tra i maschi.

La precarietà è giovane e ancor più donna, e alimenta una parte significativa della mobilità nel mercato del lavoro.

Se potesse, il 46,7% degli occupati italiani lascerebbe l’attuale lavoro. Lo farebbero il 50,4% dei giovani e il 45,8% degli adulti, il 58,6% degli operai, il 41,6% degli impiegati e solo il 26,9% dei dirigenti. Anche perché il 64,4% degli occupati dichiara di lavorare solo per ricavare i soldi necessari per vivere e fare le cose che piacciono, senza altre motivazioni esistenziali. Questo vale in particolare per il 69,7% dei giovani e per il 75,6% degli operai.

Quali sono le ragioni dell’inquietudine che avvolge il rapporto con il proprio lavoro?

Innanzitutto, le difficoltà di carriera: per il 65,0% degli occupati le opportunità di avanzamento professionale sono insufficienti.

In secondo luogo, le retribuzioni insoddisfacenti: il 44,2% degli occupati considera lo stipendio percepito non adeguato alle proprie esigenze (vale di più per i giovani: il 53,0%).

C’è poi la paura di perdere il posto di lavoro: teme di potersi ritrovare disoccupato nel prossimo futuro il 42,6% dei lavoratori (il dato aumenta al 51,6% tra gli addetti delle piccole imprese, rispetto al 34,9% di quelli assunti nelle grandi aziende). Si tratta di una precarietà attuale e concreta, più tangibile di quella preconizzata dagli annunciati rivolgimenti legati all’innovazione tecnologica.

Lavora da remoto il 12,2% degli occupati (la percentuale era pari al 4,9% nel 2019). Il lavoro da casa piace perché per l’81,3% consente una migliore conciliazione tra famiglia, vita privata e lavoro, per il 74,8% riduce lo stress legato al lavoro in presenza, per il 74,1% permette di lavorare in contesti migliori del luogo di lavoro deputato, per il 70,4% migliora più in generale la qualità della vita.

Però, per il 72,4% il giudizio è positivo solo se lo smart working è alternato con giorni di lavoro in presenza.

Per il 71,8% non è vero che in smart working si lavora di meno.

Per il 52,8% si generano anzi benefici anche per i datori di lavoro. Per il 75,9% fa risparmiare le aziende, perché si trasferiscono alcuni costi direttamente sui lavoratori (ad esempio, le bollette dell’energia), per il 65,1% si innalza la produttività del lavoro. C’è però un unico grande rischio: per il 54,4% si potrebbe erodere il senso di appartenenza aziendale.

mercoledì 1 marzo 2023

Treni, sempre peggio per i pendolari

 

Nonostante dei timidi miglioramenti, in Italia la transizione ecologica dei trasporti è ancora troppo lenta. A pesare soprattutto sul trasporto su ferro, con pesanti ripercussioni nel Sud Italia, sono i continui ritardi infrastrutturali, i treni poco frequenti, le linee a binario unico, la lentezza nella riattivazione delle linee ferroviarie interrotte, chiuse e dismesse, e poi le risorse economiche inadeguate. E ad essere penalizzati da questa situazione sono soprattutto i pendolari.

E’ quanto denuncia Legambiente nel nuovo rapporto Pendolaria 2023, in cui fa il punto sul trasporto su ferro in Italia - indietro rispetto agli altri Paesi europei - con un’analisi sul presente e futuro di questo settore.

A parlar chiaro i dati raccolti: dal 2018 al 2022 le inaugurazioni di nuovi binari in città sono state inadeguate, con un ritmo di un chilometro e mezzo all’anno di nuove metropolitane. Nel 2018 sono stati inaugurati 0,6 km, nel 2019 e 2020 neanche un tratto di nuove linee, nel 2021 1,7 km, mentre nel 2022 il dato sale a 5,3 km grazie all’apertura della prima tratta della M4 a Milano.

Anche sulle nuove tranvie il dato medio dell’ultimo quinquennio è da dimenticare, ossia 2,1 km all’anno: 5,5 km inaugurati nel 2018, 5 km nel 2019, nessun chilometro aperto negli ultimi tre anni. 

Persistono le differenze nelle aree del Paese, e a pagarne lo scotto è soprattutto il Mezzogiorno, dove circolano meno treni, i convogli sono più vecchi - con un’età media di 18,5 anni, in calo rispetto ai 19,2 del 2020 ma molto più elevata degli 11,9 anni di quelli del Nord - e viaggiano su linee in larga parte a binario unico e non elettrificate.

Le corse dei treni regionali in Sicilia, ad esempio, sono ogni giorno 506 contro le 2.173 della Lombardia, quando la popolazione in Lombardia è pari al doppio dei siciliani (rispettivamente 10 e 5 milioni) con un’estensione inferiore a quella dell’isola.

Sul fronte investimenti, negli undici anni dal 2010 al 2020, sono stati fatti più investimenti sulle infrastrutture per il trasporto su gomma che su ferro.

Stando ai dati del conto nazionale trasporti, dal 2010 al 2020 sono stati realizzati 310 km di autostrade, a cui si aggiungono migliaia di chilometri di strade nazionali, a fronte di 91 chilometri di metropolitane e 63 km di tranvie.

Oltre a questi dati, Legambiente nel rapporto Pendolaria 2023 torna anche con la classifica delle 10 linee peggiori d’Italia. Nelle prime posizioni le Ex linee Circumvesuviane, la Roma-Lido e Roma Nord-Viterbo, la Catania-Caltagirone-Gela, a seguire Milano-Mortara, Verona-Rovigo e Rovigo-Chioggia, Genova-Acqui-Asti, Novara-Biella-Santhià, Trento-Bassano Del Grappa, Portomaggiore-Bologna, Bari-Bitritto.

Un quadro quello di Pendolaria 2023 abbastanza preoccupante su cui, per superare ritardi e problemi, è necessario accelerare il passo avviando una vera cura del ferro. Per questo per Legambiente è fondamentale che il tema dei pendolari e del trasporto su ferro diventi davvero una priorità per il governo Meloni, prevedendo maggiori risorse economiche pari a 500 milioni l’anno per rafforzare il servizio ferroviario regionale (per acquisto e “revamping” dei treni) e 1,5 miliardi l’anno per realizzare linee metropolitane, tranvie, linee suburbane.

Si tratta complessivamente di 2 miliardi di euro all’anno fino al 2030, recuperabili dal bilancio dello Stato specialmente all’interno del vasto elenco di sussidi alle fonti fossili. L’Italia ha bisogno di aumentare sensibilmente il numero di passeggeri che viaggiano in metro e in treno, se vuole migliorare anche la qualità dell’aria e ridurre le emissioni di CO2 come previsto dall’Accordo di Parigi.

“Il processo di riconversione dei trasporti in Italia - ha rilevato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente - è fondamentale.

Lo è se vogliamo rispettare gli obiettivi del Green Deal europeo, del taglio delle emissioni del 55% entro il 2030 e del loro azzeramento entro il 2050, visto che il settore è responsabile di oltre un quarto delle emissioni climalteranti italiane che, in valore assoluto, sono addirittura cresciute rispetto al 1990.

Per questo è fondamentale invertire la rotta e puntare su importanti investimenti per la ‘cura del ferro’ del nostro Paese, smettendola di rincorrere inutili opere come il Ponte sullo Stretto di Messina. 

Occorre investire in servizi, treni moderni, interconnessioni tra i vari mezzi di trasporto e con la mobilità dolce, in linee ferroviarie urbane, suburbane ed extraurbane, potenziando il servizio dei treni regionali e Intercity.

Al ministro Matteo Salvini chiediamo di dedicare ai pendolari almeno la stessa attenzione che ha messo in questi mesi per il rilancio dei cantieri delle grandi opere”.