E’ stato recentemente
presentato il rapporto biennale 2018 dell’Anvur (Agenzia nazionale di
valutazione del sistema universitario e della ricerca) sullo stato del sistema
universitario e della ricerca, in Italia. Alcune buone notizie sono contenute
nel rapporto: sale il numero dei laureati e quello delle immatricolazioni,
mentre calano gli abbandoni.
Nell’introduzione al rapporto emergono i principali
contenuti delle analisi effettuate dall’Anvur.
Alla preoccupante fase di flessione delle immatricolazioni,
legata alla crisi economica, è seguito un progressivo recupero. Nel 2017/18 si
sono immatricolati 291.000 studenti, segnando un incremento di 22.000 unità
(8,2%) rispetto al punto di minimo toccato nel 2013/14. Nonostante il calo
demografico, si è tornati sul livello registrato nel 2008/09.
Un dato particolarmente positivo, che va nella direzione di
attenuare storiche diseguaglianze di opportunità, è il recente forte aumento
dei diplomati provenienti da istituti tecnici o professionali che decidono di
iscriversi all’università; rappresentano tuttavia ancora solo un quinto di
questa categoria di diplomati.
Si è verificato il “sorpasso” delle immatricolazioni nei
corsi dell’area scientifica (36%) rispetto a quelle dell’area sociale (34%) e
umanistica (20%): è probabile che le migliori prospettive occupazionali delle
lauree della prima area abbiano pesato nelle scelte, anche se con il ritorno
all’università di studenti più “deboli” la tendenza potrebbe modificarsi nei
prossimi anni.
La quota di immatricolati di nazionalità straniera è in
crescita, ma molto bassa nel confronto internazionale, segnalando due distinti
problemi: la scarsa attrattiva nei confronti dell’estero del sistema
universitario e la difficoltà nel proseguimento degli studi da parte dei figli
di immigrati.
Anche gli indicatori riguardanti la regolarità e il successo
dei percorsi di studio mostrano ampi miglioramenti e, al tempo stesso, la
necessità di realizzarne ulteriori.
La percentuale di abbandoni degli studi tra il I e il II
anno, uno snodo cruciale nella “carriera” degli studenti, in quattro anni è
scesa da quasi il 15% a poco più del 12% degli immatricolati nel 2016/17, per i
corsi triennali, dal 9,6% al 7,5% per quelli a ciclo unico.
La riduzione degli abbandoni è particolarmente accentuata
tra i diplomati da istituti tecnici o professionali, ma i valori che si
registrano per queste categorie di studenti rimangono ancora molto elevati.
La quota di studenti che si laurea a distanza di 3 anni
dall’iscrizione a un corso triennale (laureati “regolari”) è aumentata in
quattro anni di 6 punti percentuali, raggiungendo il 31% per la “coorte”
immatricolata nel 2013/14.
La maggiore regolarità e la minore dispersione nei percorsi
di studio ha innalzato la quota di laureati sulla popolazione: l’aumento
nell’ultimo triennio è stato pari a 2,7 punti tra i 25-34enni, riducendo il
divario rispetto alla media europea di un punto percentuale; permane tuttavia
un ampio ritardo, pari a 12,1 punti percentuali nel 2017.
Esso è quasi interamente attribuibile alla formazione
terziaria a carattere professionale, che ha ancora una dimensione trascurabile
nel nostro Paese, e ai cicli universitari brevi (corsi triennali).
Se si restringe l’analisi ai cicli universitari di II
livello (per l’Italia, magistrali o di vecchio ordinamento), la quota di
laureati in rapporto alla popolazione già nel 2016 è in linea con la media
europea e superiore al Regno Unito e alla Germania.
Nel 2013 i corsi di dottorato hanno subìto un intervento di
razionalizzazione, che negli anni successivi ha determinato, da un lato, una
riduzione del numero dei corsi e degli iscritti senza borsa di studio e,
dall’altro, un aumento dei componenti dei collegi e un miglioramento della loro
qualità scientifica.
In un mercato del lavoro che rimane difficile, la
performance dei laureati è andata migliorando negli ultimi anni, sia in termini
assoluti sia rispetto ai diplomati.
Il tasso di occupazione dei giovani laureati (25-34 anni) è
salito dal 61,9% nel 2014 al 66,2% nel 2017. Negli stessi anni, quello dei
diplomati è rimasto sostanzialmente stabile e inferiore al 64%.
Dal picco del 2014 (17,7%), il tasso di disoccupazione dei
giovani laureati è sceso ogni anno, fino al 13,7% nel 2017, livello inferiore
di 2 punti percentuali a quello dei giovani diplomati (nel 2010 il divario era di
segno inverso e pari a 3 punti).
Su questi risultati può aver influito la maggior rispondenza
della formazione universitaria alle competenze richieste dal mondo del lavoro,
delle professioni e dell’innovazione.
Dal 2008, anno in cui ha toccato il suo massimo storico, il
numero di docenti universitari ha registrato un calo ininterrotto fino a
stabilizzarsi nel biennio 2016-17 su un livello inferiore del 13,1%. A causa
dei limiti posti al turnover, il reclutamento è stato in media pari a un terzo
del flusso in uscita, dovuto essenzialmente ai pensionamenti.
Questa flessione ha innalzato il numero di studenti per
docente che oggi è fra i più alti dell’area Ocse. Le carenze più acute si
registrano nel Nord-Ovest, dove più intensa è stata la ripresa delle
immatricolazioni.
Una flessione rispetto al 2018 ancora più accentuata (15,7%)
ha interessato il personale tecnico-amministrativo.
La presenza femminile nell’università consolida una
situazione di prevalenza tra gli studenti, i laureati e i dottori di ricerca;
nel corpo docente registra una crescita costante e regolare, in linea con quanto
avviene negli altri Paesi.
Tuttavia, la componente maschile resta considerevolmente
superiore a quella femminile tra i docenti di tutte le fasce e soprattutto in
quelle apicali.
Molte delle difficoltà segnalate, che permangono nonostante
i progressi degli ultimi anni, vanno affrontate anche con adeguate risorse.
Per favorire ulteriori aumenti delle immatricolazioni, va
innanzitutto rafforzato il corpo docente.
Inoltre, occorrono azioni più incisive per potenziare
l’offerta formativa terziaria professionalizzante, in linea con le esperienze
degli altri Paesi, e un sostegno pubblico più ampio al diritto allo studio. Del
resto ciò che ci differenzia in negativo dal resto dell’Europa è soprattutto
l’assenza di una formazione terziaria professionalizzante, paragonabile alle Fachhochschulen tedesche;
da noi esistono solo gli Its (istituti tecnici superiori), corsi biennali non
universitari, con appena 4.000 iscritti ogni anno.
Interventi sono necessari anche per correggere la scarsa
attrattiva del sistema universitario nei confronti degli studiosi stranieri e
la limitata mobilità dei docenti.
In un articolo di Andrea Gavosto, pubblicato su www.lavoce.info, si evidenzia però un limite
del rapporto Anvur: mancano indicatori per una valutazione della qualità della
didattica, sebbene si preannunci un uso più diffuso dei questionari degli
studenti (che peraltro possono fornire giudizi distorti nelle classificazioni).
Sulla qualità e sul suo monitoraggio è necessario tenere
alta l’attenzione, aggiunge Gavosto: l’aumento dei laureati è avvenuto,
infatti, in presenza di una riduzione delle risorse economiche (-20% in termini
reali rispetto al 2008) e dei docenti (-13%), per effetto del pensionamento di
numerosi ordinari e dei limiti posti al turnover.
Il rischio, conclude Gavosto, è che con l’aumento dei
frequentanti e il sovraffollamento delle aule, l’insufficienza delle risorse
investite nel personale e nella didattica porti alla lunga a un abbassamento
della qualità media.