lunedì 30 novembre 2020

Il divorzio compie 50 anni

 

Il 1° dicembre del 1970 fu approvata la legge n. 898 che disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, meglio nota come legge sul divorzio. Fu un cambiamento epocale dei rapporti quotidiani tra i sessi che resta vivo ancora oggi. E’ importante quindi ricordarlo.

Pertanto ho ritenuto opportuno riportare alcune parti di un articolo di Pietro Paganini e Raffaele Morelli pubblicato su www.formiche.net.

“…La nuova legge fu necessaria per introdurre i caratteri di civiltà dell’istituto del divorzio e per superare l’arretratezza di ampi settori della società di allora. Si dovevano sconfiggere anche le fantasiose paure per cui il divorzio avrebbe disgregato la famiglia.

Si trattò di convincere i cittadini che non si può stabilire a priori come sarà la vita. Un matrimonio può fallire: non si aggiusta stabilendo per legge che, una volta commesso l’errore, non sia più possibile correggerlo. Sarebbe una concezione di fideismo religioso.

Non concedere la possibilità di poter rimediare all’errore sciogliendo un rapporto malato che causa forti disagi individuali e non lievi riflessi sociali, è un limite alla libertà individuale che si fonda sulla responsabilità dei singoli.

Una civiltà è laica quando i rapporti tra individui diversi sono trasparenti e liberi dalle apparenze dei dogmi di retaggio medievale…

La legge sul divorzio ha avuto un travaglio lungo e complicato.

Per oltre un anno i due promotori, Baslini e Fortuna, raccolsero il sostegno (solo) del Partito Liberale. Il Partito Socialista non appoggiò Fortuna fino all’autunno 1968; il Partito Comunista esibì una fredda ostilità; la Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale erano apertamente contrari (con una compatta determinazione superiore a quella ecclesiale).

Poi con un’azione capillare che fece breccia sulla stampa - in particolare con l’aiuto dei settimanali Abc e l’Espresso - e con la spinta di gruppi della società, come la Lega Italiana per il Divorzio e una selva di associazioni locali di cittadini liberali, radicali e socialisti, il progetto unificato Baslini/Fortuna conquistò la maggioranza in Parlamento”.

E a quel punto, aggiungo io, fu fondamentale anche il sostegno e il voto dei parlamentari del Pci.

“In questo percorso fu seguita la linea delle idee riferite alla vita di tutti i giorni e dei principi politici da adottare per realizzarle.

Il successo arrivò prima in Parlamento e poi con il Referendum, ma tre anni e mezzo più tardi.

Qui superò tutte le previsioni non soltanto della Chiesa e della Democrazia Cristiana ma anche del Pci.

Le prime due erano convinte e il terzo temeva, che il Parlamento non fosse davvero rappresentativo della volontà dei cittadini.

Invece la maggioranza nelle urne ­- l’affluenza arrivò al 87,72% - fu perfino più ampia di quella Parlamentare (59,26% contro il 53,45% alla Camera e il 52,23% al Senato).

Dal 1° dicembre 1970 la legge è stata irrobustita nell’impianto attraverso vari aggiustamenti. Anche gli avversari di allora riconoscono l’importanza della sua introduzione.

Da questa legge abbiamo imparato che dobbiamo restare sempre concentrati sulla realtà dei fatti che riguardano gli individui, per elaborare regole di convivenza che promuovano le libertà dei cittadini e dei loro rapporti interpersonali: abbiamo capito che dobbiamo evitare che questo approccio laico venga travisato in ideologico, soggetto cioè, ad un’idea fissa di come i comportamenti dei singoli dovrebbero essere…”.

giovedì 26 novembre 2020

E' diminuita l'occupazione fra le donne, fra i giovani e nel Sud, che strano...

 

E’ stato recentemente presentato il rapporto della Svimez (associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) per il 2020, sull’economia e la società del Mezzogiorno. Nel rapporto sono contenuti molti dati sul mercato del lavoro, non solo relativi alle regioni meridionali ma anche alle altre regioni.

L’occupazione femminile, già a livelli minimi europei, nei primi sei mesi del 2020  si è ridotta di quasi mezzo milione di unità.

Contrariamente alla precedente crisi (prevalentemente industriale) gli effetti occupazionali del lockdown si sono manifestati soprattutto sulla componente femminile, occupata nei servizi con contratti precari.

E la precarietà del lavoro femminile è rimasta decisamente più elevata, rispetto a quella del lavoro maschile, prevalentemente nelle regioni del Sud: un quarto delle donne dipendenti a termine nel Mezzogiorno ha quel lavoro da almeno 5 anni (a fronte del 13-14% delle dipendenti del Centro-Nord).

L’11,5% delle donne ha una retribuzione oraria inferiore ai due terzi di quella media, a fronte del 7,9% del gli uomini (al Sud tale quota sale al 20%, a fronte del 14% degli uomini).

L’occupazione femminile in professioni altamente qualificate è diminuita, tra il 2008 e il 2019, di oltre 290.000 unità a livello nazionale (-7,1%), mentre negli altri Paesi europei è aumentata (+21,9% nei Paesi che utilizzano l’euro).

La riduzione nel Mezzogiorno  è stato notevolmente più accentuata (-16,2%) rispetto al Centro-Nord (-4%).

L’occupazione giovanile si è ridotta nei primi due trimestri del 2020 dell’8% più del doppio della diminuzione totale dell’occupazione.

A livello territoriale l’impatto sull’occupazione dei giovani è stato ancora più pesante nelle regioni meridionali, già caratterizzate da bassissimi livelli di partecipazione al mercato del lavoro.

Quindi i primi dati disponibili sull’evoluzione del mercato del lavoro nei mesi del lockdown dimostrano che le maggiori difficoltà si sono riscontrate fra le donne, fra i giovani e nelle regioni meridionali.

Questa non è certo una novità.

Infatti tale caratteristica del mercato del lavoro è uno dei principali problemi strutturali del sistema economico italiano, che da anni non viene affrontato nel modo necessario.

Sarà affrontato efficacemente con le risorse finanziarie che saranno disponibili con il cosiddetto “Recovery Fund”?

Purtroppo non è scontato, per nulla.

Se ci si dovesse basare su quanto avvenuto in passato, lo scetticismo è d’obbligo.

lunedì 23 novembre 2020

I bambini continuano a morire nel Mediterraneo e noi...

 

Pochi giorni fa una mamma minorenne della Guinea ha visto morire il suo bambino di 6 mesi, Joseph, in seguito all’ennesimo naufragio verificatosi nel Mediterraneo, riguardante i migranti che tentano dalla Libia di raggiungere l’Europa.

Per alcuni giorni una certa attenzione da parte dei media italiani. Poi più niente.

E soprattutto nessun cambiamento nella politica seguita dal governo italiano per quanto concerne il salvataggio e l’accoglienza dei migranti che dall’Africa tentano di raggiungere l’Europa via mare.

E nessuna concreta volontà da parte degli altri Paesi dell’Unione europea di intervenire, in aiuto dell’Italia.

Peraltro, alcune navi delle Ong restano ancora bloccate, per motivi diversi, nei porti italiani.

Certo vi sono delle associazioni, poche, che protestano, ma i loro appelli rimangono, purtroppo, inascoltati.

Le dichiarazioni di Save the Children sono più che condivisibili, ma chi le ascolta?

Raffaella Milano, direttrice programmi Italia-Europa di Save the Children, ha infatti dichiarato:

“L’Italia e l’Europa oggi non possono guardare negli occhi la mamma minorenne della Guinea disperata perché ha visto morire il suo bimbo di 6 mesi per l’ennesimo tragico naufragio nel Mediterraneo senza provare profonda vergogna.

Anche in questo caso i fatti dimostrano inequivocabilmente la grave responsabilità dell’assenza di un sistema di ricerca e soccorso internazionale adeguato, quando solo la nave della Ong Open Arms è potuta intervenire per cercare di salvare i naufraghi.

Mamme anche giovanissime e spesso sole, neonati, bimbi piccoli e migliaia di minori non accompagnati continuano a cercare di raggiungere la Libia e poi la salvezza in Europa, dopo aver vissuto condizioni di povertà estrema e violenze di ogni genere, anche a causa dei conflitti, e molti hanno perso e continueranno a perdere la vita nel Mediterraneo se non ci sarà una risposta immediata dell’Italia e dell’Europa.

Dall’inizio dell’anno, sono giunti in Italia più di 3.850 minori non accompagnati, privi di figure adulte di riferimento, il 13% del totale degli arrivi.

E’ indispensabile che l’Italia e l’Europa assumano un impegno immediato per un sistema di ricerca e soccorso in mare e attivino vie di accesso sicure per scongiurare il ripetersi di queste tragedie”. 

Aggiungo, sarebbe indispensabile che l’Italia e l’Europa facessero quanto richiesto da Save the Children.

Cosa deve ancora succedere affinchè l’Italia e l’Europa mutino i loro comportamenti?

Sarebbe comunque utile una maggiore mobilitazione dei singoli cittadini, delle associazioni, su questi temi.

A me sembra però che tale mobilitazione sia del tutto insufficiente.

Quindi la colpa di quanto avviene è principalmente dei governi, ma non solo dei governi.

giovedì 19 novembre 2020

Non demonizzare chi ipotizza un'imposta patrimoniale

 

Con una certa frequenza si torna a parlare di introdurre un’imposta patrimoniale. Recentemente, in un articolo pubblicato dal quotidiano “Domani”, Vincenzo Visco, economista e già ministro all’Economia e alle Finanze, ha ipotizzato l’introduzione di un’ imposta patrimoniale.

Visco prevede questa possibilità perché ritiene che l’introduzione di un’imposta di successione comporti tutta una serie di effetti negativi che la sconsigliano.

Relativamente all’imposta patrimoniale, Visco scrive: “Per questi motivi personalmente non mi sento particolarmente propenso ad investire troppe energie riformatrici sull’imposta di successione; preferirei il ricorso ad un’imposta patrimoniale annuale che si aggiunga all’imposta sul reddito con una esenzione di base e con aliquote progressive variabili tra lo 0,1% e l’1-2% del patrimonio complessivo. Anche in questo caso vi sarebbero problemi di valutazione, ma l’imposta potrebbe raggiungere gradualmente un equilibrio accettabile.

Ciò non toglie che l’attuale imposta sulle successioni italiana meriti una rivisitazione e l’introduzione di aliquote progressive non simboliche per i patrimoni molto elevati.

Al tempo stesso però andrebbero abolite o modificate le imposte ipotecarie e catastali che per la loro struttura continuano a penalizzare i patrimoni minori. Lo stesso può dirsi per le imposte di registro che colpiscono con aliquote elevate i trasferimenti inter vivos dei beni immobili”.

Le considerazioni di Visco riguardanti l’imposta di successione e l’imposta patrimoniale derivano dalla necessità di ridurre le diseguaglianze economiche e sociali che caratterizzano l’attuale periodo.

Per la verità tali diseguaglianze erano già aumentate nel periodo precedente alla diffusione del coronavirus e molto probabilmente, a seguito di questa pandemia, dovrebbe essersi ulteriormente accresciute.

Il problema esiste quindi e va affrontato  sia con misure “una tantum” che con misure strutturali.

E va affrontato non solo con la politica fiscale.

Del resto lo stesso Visco conclude così il suo articolo: “L’aumento intollerabile delle diseguaglianze è una delle caratteristiche più negative dei nostri tempi, figlia delle modalità di funzionamento delle economie che si sono affermate nei nostri Paesi a partire dagli anni ’80 del secolo scorso.

Due anni fa con l’aiuto di alcuni colleghi, promossi la pubblicazione di un manifesto contro le diseguaglianze (Laterza 2018), in cui venivano individuati 37 interventi o politiche che potrebbero correggere la situazione attuale.

Buona parte di questi interventi riguardano politiche pre-distributive, anche se il sistema fiscale può giocare un ruolo (peraltro modesto, a differenza delle politiche di spesa pubblica).

Ciò che è necessario per ridurre le diseguaglianze è riuscire a cambiare i meccanismi attuali di funzionamento delle nostre economie non diversamente da quanto accadde dopo la conclusione della seconda guerra mondiale”.

Quello che è certo, a mio avviso, è che, se si vuole un sistema fiscale più equo, e l’attuale governo sostiene che perseguirà questo obiettivo esclusivamente però tramite una riforma dell’Irpef, si deve discutere anche di imposta sulle successioni e di imposta patrimoniale.

E, soprattutto, non si devono demonizzare coloro che ipotizzano l’introduzione di un’imposta patrimoniale.

Certo, vanno analizzati i costi e i benefici di questo eventuale intervento di politica fiscale, considerando però che andrebbero esaminati, quasi esclusivamente, i costi e i benefici di natura economica, mentre quasi sempre si privilegiano quelli di natura politica.

lunedì 16 novembre 2020

Per cambiare davvero il Pd umbro si deve partire dal basso

 

Dopo la pesante sconfitta subìta in occasione delle ultime elezioni regionali con la vittoria schiacciante del centrodestra, in base alla quale è diventata per la prima volta presidente della Giunta regionale dell’Umbria un’esponente di quello schieramento politico, è del tutto evidente che sia indispensabile un profondo cambiamento del Pd umbro, che rimane, nonostante tutto, il più importante partito del centrosinistra.

Il cambiamento deve sì passare per un profondo rinnovamento dei programmi, per un notevole sviluppo delle relazioni con le diverse componenti della società umbra, relazioni che si sostanzino proprio su quei programmi e non siano relazioni di natura esclusivamente clientelare come avvenuto nel recente passato.

Prima di tutto è necessario un profondo cambiamento della stessa natura del Pd umbro, del suo gruppo dirigente, a livello regionale e nei diversi territori in cui si articola l’Umbria.

In primo luogo quel gruppo dirigente non deve ambire solamente alla ricerca e alla gestione del potere, all’interno e all’esterno del Pd, e nella sua formazione devono contare vari elementi, dalle competenze, all’esperienza amministrativa, alle relazioni con la società umbra.

Sarebbe necessario anche un rinnovamento generazionale, nella consapevolezza però che essere giovani dirigenti non vuol dire sempre essere dirigenti nuovi davvero.

Il Pd umbro si sta indirizzando verso questa strada?

Assolutamente no.

E’ sufficiente rilevare quanto successo nella campagna elettorale per la scelta del nuovo segretario regionale, per porre fine, tra l’altro, al commissariamento, campagna elettorale interrottasi per la nuova emergenza sanitaria dovuta alla nuova “ondata” nella diffusione del coronavirus.

Una lotta acerrima per acquisire consensi tra gli iscritti, una lotta vecchio stile, simile a quelle manifestatesi quando si è trattato di scegliere i precedenti segretari regionali.

Nessuna vera attenzione ai programmi, forti ed eccessive pressioni rivolte agli iscritti per acquisire i loro voti.

Giovani candidati, alla segreteria o ad altri incarichi, più “vecchi” degli esponenti politici del passato del Pd umbro, esponenti che lo hanno portato allo sfacelo, regalando così il governo della Regione al centrodestra.

Che fare?

Molte cose. Ma, è questo il senso di questa nota, non si può che partire dal basso, dai singoli iscritti e dai singoli elettori (perché questi ultimi possono diventare in futuro iscritti e perché un partito non può fare affidamento solo sugli iscritti ma anche e soprattutto sugli elettori a cui non ci si può rivolgere solo in occasione delle elezioni).

Partire dal basso significa costituire una comunità di iscritti ed elettori del Pd che, in primo luogo, intenda modificare radicalmente la natura del Pd nella direzione che ho in precedenza delineato.

Poi si discuterà dei programmi e ciò non risulterà strano se viene ritenuto valido il ragionamento che ho formulato all’inizio.

Questa proposta proviene solo dal sottoscritto.

Se qualcuno è interessato ad essere uno dei molti, spero, promotori della comunità di cui ho scritto, mi invii una mail a pborrello@libero.it, allegando, perché no, un curriculum formativo, professionale e politico, come farò adesso io.

Proviamoci!



Paolo Borrello,

sono nato a Orvieto il 22.5.1957 e residente ad Orvieto.

Sono laureato in Scienze Economiche presso l’università di Siena e ho partecipato al corso di formazione post laurea in gestione dell’economia e dell’impresa, presso l’Istao (Istituto Adriano Olivetti) allora presieduto da uno dei maggiori economisti italiani del Novecento, Giorgio Fuà.

Sono revisore contabile.

Sono stato presidente del Collegio dei Sindaci della sezione italiana di Amnesty International.

Sono stato consulente di diverse associazioni imprenditoriali, animatore economico presso la Regione dell’Umbria, consulente del Comune di Orvieto, dove attualmente sono funzionario.

Ho scritto alcuni libri sull’economia e la società orvietana.

Mi sono iscritto al Pci nel 1982, poi sono stato iscritto al Pds, ai Ds e al Pd.

Sono stato coordinatore del primo circolo on line del Pd, denominato “Barack Obama”.

Ho partecipato ad alcune elezioni primarie per la scelta del segretario nazionale del Pd.

Sono stato dirigente locale del Pci e del Pds fino al 1995.

 

 


Ma De Luca, De Magistris e i grillini non li avete eletti voi?




Nella gestione politico-amministrativa della pandemia dovuta alla diffusione del coronavirus, sono state recentemente rivolte diverse critiche ad alcuni rappresentanti delle istituzioni, nazionali e locali. Tra i più criticati sono stati il presidente del Consiglio Conte, il presidente della giunta regionale della Campania De Luca e il sindaco di Napoli De Magistris.

Conte è stato criticato per avere rallentato ed anche ostacolato la tempestiva realizzazione di misure rivolte ad affrontare con decisione la fortissima crescita della diffusione in Italia del coronavirus.

E’ stato rilevato come Conte fosse molto più preoccupato di non ridurre il proprio consenso tra gli elettori piuttosto che della necessità di adottare, da parte del Governo, di interventi adeguati e tempestivi per contrastare efficacemente e rapidamente la cosiddetta seconda ondata del coronavirus.

De Luca è stato accusato di aver compiuto notevoli oscillazioni tra l’essere “falco” e poi “colomba”, sempre attento a non assumersi troppe responsabilità derivanti dall’adozione di misure che non fossero ben accette quanto meno da una parte consistente dei campani, preferendo che fosse il Governo a deciderle per poi essere sempre pronto a criticarlo.

De Magistris, invece, ha criticato, anche giustamente, certi comportamenti di De Luca, ma anche lui si è rivelato indisponibile ad assumersi responsabilità ritenute eccessive, sempre perché avrebbero determinato una riduzione dei propri consensi da parte dei napoletani, come quelle che si sarebbero verificate se avesse deciso di chiudere parti della città di Napoli dove si registravano frequenti e notevoli assembramenti.

E’ certo però che, se nelle elezioni politiche i grillini non fossero diventati la forza politica di maggioranza relativa, Conte non sarebbe diventato mai presidente del Consiglio, peraltro con due governi diversi riguardo alla maggioranza che sosteneva il primo e che sostiene il secondo, il cosiddetto Conte-bis.

E’ altrettanto certo che De Luca sia stato recentemente rieletto presidente della Campania con una percentuale di voti molto elevata, cosa che evidentemente ha favorito la sua volontà di affrontare come ha affrontato i problemi relativi al coronavirus come ha realmente fatto e cioè male, senza alcun timore.

E’ altrettanto certo che De Magistris fu rieletto sindaco anche lui con una percentuale di voti molto alta e ciò, probabilmente, gli ha consentito di assumere delle decisioni più che discutibili ma che a lui sono apparse giuste.

In tutti e tre i casi, insomma, Conte, De Luca e De Magistris, nella loro recente azione, non si sono comportati perseguendo come obiettivo prioritario la tutela della salute dei cittadini da loro amministrati.

E di qui le giuste critiche, provenienti da più parti, anche da quanti li hanno sostenuti e in due casi eletti.

Ma non li dovrebbero criticare chi li ha sostenuti fino a poco fa o chi li ha eletti o ha eletto, nel caso di Conte, un gran numero di parlamentari del movimento 5 stelle.

E queste vicende dimostrano che, spesso, i governanti sono quelli che gli elettori si meritano, nel senso che se i governanti, a livello nazionale e locale, sono inadeguati a svolgere i propri compiti è colpa anche degli elettori.

giovedì 12 novembre 2020

Le interviste in ginocchio dei giornalisti italiani

 

Nel corso della campagna elettorale per la scelta del presidente degli Stati Uniti, Trump è stato messo in seria difficoltà da alcuni giornalisti televisivi che lo hanno accusato di pronunciare delle falsità. In Italia questo non avviene. Nei telegiornali e nei talk show i giornalisti non mettono in vera difficoltà i politici.

Quindi, dal punto di vista dei media, soprattutto quelli televisivi, gli Stati Uniti sono una vera democrazia, l’Italia per niente.

Nei telegiornali si ripetono brevi dichiarazioni di esponenti dei vari partiti che non dicono nulla di importante e che non vengono affatto contraddetti dai conduttori dei tg. Le dichiarazioni più inutili e talvolta decisamente stupide sono quelle dei rappresentanti dei grillini.

Nei tg, ogni volta che si parla delle attività del presidente del Consiglio Conte, scorre un’immagine di lui che si muove con rapidità, per dimostrare l’efficacia e l’efficienza della sua azione, come se tutti i telespettatori fossero dei cretini e non sapessero che in realtà avviene esattamente il contrario.

Nei talk show, poi, in primo luogo durante “Che tempo che fa” condotto da Fazio, si creano problemi, per nulla, agli esponenti politici che si succedono.

Sono molto diffuse pertanto quelle che vengono generalmente definite le interviste “in ginocchio”, dove gli intervistatori mettono a loro agio gli intervistati e mai si propongono di metterli in imbarazzo.

I giornali, spesso, si comportano diversamente. Riportano inchieste che veramente mettono in difficoltà esponenti della maggioranza e dell’opposizione.

Purtroppo però i lettori dei giornali sono sempre di meno.

Ma si rendono conto i giornalisti televisivi italiani delle magre figure a cui si sottopongono? O per loro contano solo le elevate remunerazioni che percepiscono e gli incarichi a cui ambiscono?

Nelle democrazie, per essere davvero tali, si devono contrapporre ai poteri dei contropoteri, realmente efficaci, uno dei quali dovrebbe essere il sistema mediatico.

In Italia questo non si verifica, quanto meno per i media televisivi, che in gran parte fanno parte del cosiddetto servizio pubblico, che pubblico, però, in realtà, non è, fatte le dovute eccezioni che però rimangono delle eccezioni.

lunedì 9 novembre 2020

Chi è Kamala Harris

 

Il nuovo presidente degli Stati Uniti sarà ovviamente Joe Biden. Ma senza dubbio svolgerà un ruolo molto importante, come vice presidente, Kamala Harris, il cui contributo peraltro è stato fondamentale per la vittoria di Biden.

Ma chi è Kamala Harris?

Alcune note biografiche, riprese dal sito www.wired.it, possono risultare utili, a tale proposito.

La prima vice presidente donna degli Stati Uniti “è figlia di madre Indiana e di padre jamaicano, due Paesi all’epoca poverissimi, molto diversi da come li conosciamo adesso. Si incontrano e si innamorano a Berkeley, in California, all’inizio degli anni Sessanta, ed è lì che nasce Harris.

Dopo la separazione dei genitori, sua madre porta lei e la sorella in Canada e le cresce da sola lavorando come ricercatrice sul cancro al seno.

Harris è figlia di una scienziata, una mamma sola: lo ricorda spesso nei suoi discorsi e nelle sue interviste, è forse il dato della sua straordinaria biografia che lascerà una traccia nell’immaginario comune.

Dopo essere tornata in America e aver conseguito due lauree, Harris si lega a Willie Harris, portavoce della California Assembly, di trent’anni più grande di lei. A distanza di anni, ancora oggi, Harris viene accusata di aver fatto carriera per essere ‘andata al letto con il capo’, un’accusa cavalcata anche durante questa campagna elettorale dai sostenitori di Trump.

Harris diventa la prima donna - e la prima non bianca - a diventare vice procuratrice in uno Stato, la California, che negli anni Novanta era segnato tra gli scontri tra la comunità afroamericana e la polizia.

Questo ruolo ha portato molti a sostenere che Harris fosse di destra, durante le primarie e non solo, e molti analisti hanno visto la scelta di Biden come una scelta conservatrice.

Ma se siete arrivati a questo punto, avrete capito che c’è poco di conservatore in una persona come Kamala Harris.

Da procuratrice distrettuale, i suoi sforzi si sono concentrati sul contenimento della dispersione scolastica: dopo aver accertato che il tasso di criminalità era più alto nelle zone dove l’abbandono scolastico era più alto, Harris è intervenuta con decisione per arginare questo fenomeno riuscendo a portare a casa risultati molto importanti.

Nel 2016 diventa senatrice e molto popolare durante le audizioni per la conferma di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema.

Il nome di Harris inizia a circolare tra i possibili candidati alla Casa Bianca, fino alla discesa in campo.

Dopo i primi risultati non proprio confortanti, la raccolta fondi per Harris frena e lei è costretta a ritirarsi dalla corsa.

C’è un video in cui una giornalista lo comunica a Joe Biden e il futuro presidente degli Stati Uniti sembra sinceramente dispiaciuto: Kamala Harris conosceva bene Beau Biden, il figlio di Joe deceduto nel 2015 a causa di un tumore, anch’egli procuratore.

In un film della sua vita si potrebbe andare avanti veloce e arrivare a un altro video, quello in cui Biden chiama Harris per comunicarle il risultato finale delle elezioni: lei corre in parco del Delaware circondata dalla scorta, è spettinata e radiosa, una bellissima signora di mezza età che corre in una soleggiata giornata d’inverno.

La vita di Harris è stata una corsa per diventare prima, un percorso talmente carico di significati che sarebbe persino superfluo stare a elencarli.

Bella e secchiona, madre e avvocata, accondiscendente e pop, Kamala Harris ha fatto tutto quello che ha voluto e lo ha fatto per prima: è stata elitaria, snob e ‘mainstream’, ha riempito vuoti, ha creato immaginari.

Harris è stata quello che Biden non poteva essere, e forse anche quello che non sapevamo di volere. 

E poco male se la carica di presidente ha il nome di un uomo, se il tetto di vetro non è ancora stato sfondato: il futuro è delle donne. 

Il futuro è di Kamala Harris e di Stacey Abrams, anche lei nella rosa delle papabili vicepresidenti sottoposte a Biden: Abrams ha fatto registrare al voto in Georgia 800.000 persone, che hanno permesso ai democratici di vincere lo stato per la prima volta dopo quasi trent’anni, un impresa che non era riuscita nemmeno a Barack Obama.

Per il suo primo discorso da ‘vice president-elect’ a Wilmington, North Carolina, Kamala Harris ha scelto di indossare il bianco, il colore simbolo della lotta per il diritto al voto delle suffragette.

Il suffragio universale venne introdotto negli Stati Uniti nel 1920, ma solo 45 anni dopo vennero eliminate quelle regole federali che tenevano le donne nere lontano dalle urne, come i test di alfabetizzazione e le tasse sul voto.

La notte del 7 novembre 2020 Kamala Harris è diventata la prima vicepresidente donna degli Stati Uniti, e rivolgendosi ai figli e alle figlie della nazione ha detto loro una frase breve e storica: ‘Sono la prima, ma non sarò l’ultima’”.

giovedì 5 novembre 2020

I più poveri muoiono prima

 


I più poveri muoiono prima. Questa è la conclusione a cui sono arrivato leggendo l’articolo “In aumento anche le disuguaglianze di longevità” di Simone Ghislandi e Benedetta Scotti, pubblicato su www.lavoce.info.

Pertanto ho deciso di riproporre alcune parti dell’articolo citato.

Le disparità nella speranza di vita per stato socio-economico in Italia sono note da tempo. Secondo le stime Istat più recenti, in Italia gli uomini più istruiti hanno un vantaggio nella speranza di vita alla nascita di 3,5 anni rispetto agli uomini meno istruiti. Nel caso delle donne, il vantaggio si attesta a 1,5 anni…

Si conferma l’esistenza di un marcato gradiente nella speranza di vita a 50 anni tra gli uomini, ovvero di una marcata correlazione positiva tra longevità e stato socio-economico, sia per reddito che per qualifica.

Tra le donne, invece, il gradiente tende a manifestarsi solo quando lo stato socio-economico viene misurato in termini di qualifica, benché l’incertezza delle stime non permetta di identificare disparità statisticamente significative.

Il raffronto tra coorti evidenzia inoltre un inasprimento del gradiente di longevità lungo la distribuzione del reddito nel caso degli uomini.

Per la coorte 1930-1939, gli appartenenti al quintile di reddito più ricco hanno un vantaggio medio in termini di speranza di vita a 50 anni rispetto agli appartenenti al quintile più povero di circa 3 anni.

Per la coorte 1950-1957, il vantaggio si allunga a circa 4,5 anni.

In termini di qualifica, il gap nella speranza di vita a 50 anni tra operai e dirigenti risulta invariato, mentre si allarga quello tra operai e impiegati, che passa da 2,2 per la coorte 1930-1939 a 2,9 anni per la coorte 1950-1957…

Pertanto, gli uomini a basso reddito e a qualifica operaia non solo hanno una speranza di vita inferiore, ma sono esposti anche a maggiore incertezza circa l’effettiva durata della vita.

Per le donne, il gradiente tende a manifestarsi, anche in questo caso, per qualifica ma non per reddito…

Studiare l’evoluzione delle disuguaglianze di longevità, nelle sue varie dimensioni, è cruciale per individuare parametri utili a orientare le politiche previdenziali verso una maggiore equità.

Come già rilevato in un precedente articolo, infatti, le disuguaglianze di longevità sollevano criticità rispetto a misure che le ignorano, quali l’ancoraggio dell’età pensionabile alla speranza di vita media della popolazione o l’utilizzo di coefficienti di trasformazione indifferenziati nel calcolo delle pensioni secondo il metodo contributivo, o la stessa quota 100.

Queste politiche penalizzano gli individui appartenenti a gruppi caratterizzati da profili di mortalità sistematicamente superiori alla mortalità della popolazione generale.

Se con l’allungamento della vita media si rendono necessarie politiche atte a garantire la sostenibilità e l’equità inter-generazionale del sistema previdenziale, le crescenti disparità che si celano dietro l’invecchiamento della popolazione pongono questioni di equità intra-generazionale altrettanto pressanti”.

lunedì 2 novembre 2020

In Yemen grave crisi alimentare soprattutto per i bambini

 

Guerra, aumento dei prezzi dei generi alimentari, un sistema sanitario al collasso a causa del Covid-19 e mancanza di fondi rischiano di compromettere fortemente la possibilità di avere accesso al cibo per i bambini in tutto lo Yemen. Questo l’allarme lanciato da Save the Children.

In seguito alla diffusione di un nuovo rapporto delle Nazioni Unite sulla malnutrizione nel sud del Paese, Save the Children si dice profondamente preoccupata anche per i bambini del nord.

In alcune cliniche in cui opera Save the Children, il numero di bambini malnutriti che si sono rivolti a cure salvavita è aumentato del 60% tra la fine dello scorso anno e luglio 2020.

“I recenti numeri diffusi sulla situazione nello Yemen meridionale dovrebbero servire da forte campanello d'allarme. E’ probabile che ancora più bambini possano perdere la vita in tutto il Paese se la crisi non verrà affrontata rapidamente.

La combinazione letale di guerra e fame, infatti, sta spingendo ogni giorno migliaia di bambini verso la fame”, ha affermato Xavier Joubert, direttore di Sasve the Children in Yemen. 

“I bambini in Yemen sono diventati danni collaterali in una guerra che infuria da più di cinque anni. E’ terribile pensare che, in appena metà del Paese, quasi 100.000 bambini sotto i cinque anni siano sull'orlo della fame - malnutriti al punto che le loro vite sono in pericolo. E i numeri potrebbero essere anche più alti in tutto il Paese”, ha proseguito Xavier Joubert.

Save the Children continua a fornire supporto sanitario e nutrizionale ai bambini più vulnerabili dello Yemen, sia nel nord che nel sud del Paese.

Nelle cliniche di Hodeidah, la media mensile dei ricoveri di bambini affetti da malnutrizione acuta grave o moderata è aumentata del 60% tra marzo e luglio 2020, rispetto ai cinque mesi precedenti.

Gli operatori sanitari volontari hanno identificato un aumento del 5% di minori gravemente malnutriti nelle comunità visitate.

Secondo Save the Children il numero crescente di bambini che soffrono la fame è un chiaro segnale del deterioramento della situazione alimentare in tutto il Paese e la popolazione non riesce più a permettersi il cibo a causa dell’aumento dei prezzi.

Il costo di un paniere di cibo nelle aree settentrionali è aumentato di circa 4 dollari da gennaio, in un momento in cui le famiglie erano già in grave difficoltà. Nel sud, il costo minimo per un paniere alimentare è aumentato di quasi 8 dollari, il 15% in più rispetto alla crisi del 2018.