domenica 31 luglio 2022

Le colpe sono dei politici o anche dei cittadini?

Spesso, nell’amministrazione del nostro Paese, come in occasione della recente crisi di governo che ha affossato il governo Draghi, si sostiene che le responsabilità dei problemi che si verificano sono esclusivamente degli esponenti politici, inadeguati a svolgere i loro compiti, interessati solamente alla gestione e alla ricerca del potere.

In effetti sono diversi anni che da parte dei cittadini si manifestano forti critiche nei confronti del mondo politico, dei partiti, in modo indiscriminato, tanto che da tempo si parla del diffondersi dell’antipolitica.

Una delle conseguenze più evidenti di tale situazione è rappresentata dal crescente astensionismo che si verifica nelle elezioni, sia locali che nazionali.

C’è chi rileva però, come il sottoscritto, e ad esempio Michele Serra, che le responsabilità sono anche degli elettori che scelgono i loro rappresentanti, nelle diverse elezioni, e che quindi i politici, in ultima analisi, sono lo specchio del Paese.

Si afferma anche che la società italiana ha i politici che si merita.

Vittorio Pelligra, in un recente articolo pubblicato da “Il Sole 24 ore”, non è d’accordo e scrive: “Esistono intelligenze, nel Paese, che farebbero, alla prova dei fatti, molto meglio di una classe politica che si è dimostrata spesso sciatta, cinica e arruffona. Energie e intelligenze, però, che si sono sistematicamente allontanate dall’impegno politico diretto a causa dell’idea che della politica è stata scientemente costruita”.

Al termine del suo articolo Pelligra corregge un po’ il tiro, prendendosela anche con la cosiddetta società civile:

“E però è anche responsabilità del ‘terzo pilastro’, delle comunità civili organizzate, farsi avanti, in maniera determinata e determinante. Non per costruire un nuovo partito, ma per contaminare, svecchiare e innovare quelli esistenti, i loro programmi, le loro liturgie.

Servirebbe, in questo senso, un’azione coordinata e potente per creare una massa critica che risulti non più assimilabile e sterilizzabile.

Non è più tempo di una società civile che vive nel suo isolamento più o meno snobistico, perché non può esserci una società veramente civile che non sia anche, e soprattutto, una società politica.

Perché il nostro Paese ha un disperato bisogno di concretezza e novità, non di gente che guarda dall’altra parte”.

In linea di massima sono abbastanza d’accordo con l’ultima parte dell’articolo di Pelligra, ma due sono gli interrogativi che le sue considerazioni mi suscitano:

I gruppi dirigenti dei partiti non sarebbero in grado di impedire e annullare quell’azione coordinata e potente che le comunità civili organizzate dovrebbero promuovere?

Le comunità civili organizzate quante sono e soprattutto quanto sono forti, in maniera tale da potere effettivamente realizzare quell’azione coordinata e potente?

E poi il problema non è solamente quello di inserire nei partiti persone competenti e innovative, ma anche persone che intendano perseguire in primo luogo l’interesse generale.

Io ritengo che, attualmente purtroppo, e non credo di essere troppo pessimista, nella società italiana prevalgano persone che pensano esclusivamente al proprio interesse, nella vita quotidiana, non solamente in rapporto con la politica.

Di queste persone ce n’erano molte anche venti o trenta anni fa ma ora sono aumentate considerevolmente.

E quindi molte di loro criticano i politici ma in realtà si comportano come loro nelle attività che non riguardano la politica.

Pertanto, costoro, possono essere davvero un’alternativa agli esponenti politici che guidano i partiti?

In conclusione, al di là delle comunità civili organizzate, ritengo che sia necessario promuovere in Italia, come in molti altri Paesi occidentali, nelle cosiddette democrazie liberali, una rivoluzione culturale molto diffusa che muti considerevolmente i valori che vengono considerati i più rilevanti dalla gran parte delle popolazioni.

Può servire quell’azione ipotizzata da Pelligra, relativamente alle comunità civili organizzate, ma non è sufficiente.

mercoledì 27 luglio 2022

La grave crisi dello Sri Lanka

Lo Sri Lanka, in passato chiamato Ceylon, sta vivendo la peggiore crisi istituzionale ed economica dal 1948, l’anno in cui il Paese ottenne l’indipendenza dal Regno Unito. Il presidente in carica Gotabaya Rajapaksa è fuggito, come del resto il fratello minore Basil Rajapaksa, ministro delle Finanze. Il governo della famiglia Rajapaksa ha avuto per ora termine in seguito alle ripetute manifestazioni popolari. I manifestanti avevano occupato anche la sede della presidenza.

Il sei volte primo ministro Ranil Wickremesinghe ha prestato giuramento come presidente dello Sri Lanka, in vista della formazione di un governo di unità cui toccherà il non facile compito di guidare il Paese nel mezzo di una crisi economica e sociale senza precedenti.

Alla vigilia del giuramento, migliaia di manifestanti hanno protestato contro il neo presidente, ritenuto troppo vicino al suo predecessore.

Quanto sta succedendo in Sri Lanka ci dovrebbe interessare anche perché molti abitanti dello Sri Lanka sono immigrati in Italia.

E comunque ci dovrebbe interessare perché la situazione in Sri Lanka è contraddistinta dal fatto che molti dei suoi abitanti si trovano in condizioni di vita precarie, molto difficili, colpiti da una vera e propria crisi alimentare.

L’attuale sconvolgimento politico era annunciato da tempo. L’amministrazione Rajapaksa è accusata di aver contribuito alla grave crisi economica che da mesi sta causando al Paese continui blackout e carenze di cibo, carburante e medicinali.

Per capire le origini della rivolta popolare, bisogna fare un salto indietro fino allo scorso 31 marzo, quando consistenti manifestazioni contro il governo hanno preso corpo nella capitale del Paese, Colombo.

Allora lo Sri Lanka ha dovuto dichiarare l’emergenza nazionale e imporre il coprifuoco per cercare di sedare le proteste contro il presidente Gotabaya Rajapaksa - eletto nel 2019 ed esponente di una dinastia politica corrotta - accusato di aver mandato il Paese in bancarotta.

Il crac economico è legato a doppio filo alla famiglia Rajapaksa, che ha amministrato per oltre due decenni il Paese come un’impresa di famiglia,  privando lo Sri Lanka delle sue ricchezze a totale vantaggio degli esponenti della famiglia.

Molti cingalesi si sono trovati così senza benzina e beni di prima necessità, poiché lo Sri Lanka non è più in grado di importarli. E’ scattato così l’allarme della crisi alimentare: secondo l'Onu, circa l'80% della popolazione è costretta a saltare i pasti perché non può più permettersi di comprare cibo.

Alla radice della crisi alimentare viene indicata anche la scelta di Rajapaksa, che risale all'aprile del 2021, di imporre un improvviso divieto sui fertilizzanti chimici.

La decisione ha colpito gli agricoltori e le loro terre, che hanno visto il raccolto ridursi tra il 40 e il 60%, sufficiente appena per sfamare i nuclei familiari dei coltivatori.

Lo scorso maggio, il Paese asiatico è andato in default per la prima volta nella sua storia,  entrando nella peggiore crisi finanziaria degli ultimi 70 anni.

A metà aprile, infatti, Colombo ha imposto un freno al rimborso del debito estero (circa 51 miliardi di dollari) e aveva accettato di trattarne la ristrutturazione con il Fondo monetario internazionale, che dovrebbe versare nelle casse del Paese circa 3 miliardi di dollari.

Alla grave crisi economica, si è aggiunto anche il crollo del turismo, su cui si fonda l’economia nazionale, a causa del Covid.

Il settore turistico aveva preso slancio dopo la fine della guerra civile terminata nel 2009, quando l’allora ministro della Difesa Gotabaya Rajapaksa su ordine del fratello Mahinda, allora presidente, decimò la minoranza Tamil (che rappresenta parte dei 22 milioni di abitanti del paese, oltre a musulmani e cingalesi) con un’offensiva spietata.

L’ex presidente Rajapaksa, è accusato, infatti, anche di crimini di guerra.

domenica 24 luglio 2022

Anche alla Bce manca Draghi

La Banca centrale europea, nella recente riunione del Consiglio direttivo, ha deciso di aumentare i tassi di interesse ufficiali di 50 centesimi ed ha annunciato le principali caratteristiche del cosiddetto “scudo anti-spread”, denominato Tpi, (Transmission protection instrument).

Molto probabilmente, se alla guida della Bce fosse ancora Mario Draghi, in entrambi i casi le decisioni della Bce sarebbero state più coraggiose e soprattutto più corrette.

Infatti, a mio avviso, entrambe le decisioni sono, almeno in parte, criticabili.

L’aumento dei tassi, innanzitutto, è stato eccessivo (nel giugno scorso era stato previsto un incremento di soli 25 centesimi).

L’aumento dei tassi è stato adottato per contrastare l’inflazione.

Ma l’aumento dei tassi deve essere considerato eccessivo, almeno per due motivi.

In primo luogo, perché in Europa l’incremento del tasso di inflazione è dovuto ad un aumento dei costi e non della domanda. E quando ci si trova di fronte ad un’inflazione da costi una stretta monetaria è poco efficace. Risulta efficace solo se incide sulle aspettative relative all’inflazione, e quest’ultimo obiettivo poteva essere ottenuto anche se l’aumento dei tassi fosse stato solamente di 25 centesimi.

Inoltre un eccessivo aumento dei tassi di interesse può contribuire a quel rallentamento della crescita economica che, in Europa, è già presente da alcuni mesi e che dovrebbe essere contrastato, non favorito, anche da un’accorta politica monetaria.

Peraltro, nelle ultime settimane, l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici, alla base dell’incremento del tasso di inflazione, sembra essersi attenuato.

Quindi sarebbe stato quanto meno opportuno limitarsi, se si voleva proprio aumentare i tassi di interesse, ad un incremento di 25 centesimi, per poi verificare, nei prossimi mesi, se fosse davvero necessario aumentare ancora i tassi.

Per quanto concerne lo scudo anti-spread, è bene innanzitutto precisare che è uno strumento necessario soprattutto per fare in modo che gli effetti della politica monetaria si esplichino, nella stessa misura, in tutti i Paesi dell’Unione europea.

Infatti è del tutto evidente che se lo spread, cioè la differenza tra i tassi di interesse che si verificano in un determinato Paese e i tassi che si determinano in un altro o in altri Paesi, si modifica in modo consistente, un aumento, eventuale, dei tassi deciso dalla Bce può provocare un incremento diverso nei tassi di interesse dei vari Paesi.

Ma lo scudo previsto dalla Bce presenta alcuni limiti, il principale dei quali consiste nell’essere discrezionale e non automatico.

In sostanza dipenderà dalla Bce se utilizzarlo per un determinato Paese, quando in quel Paese varia lo spread, Bce che dovrà sì rispettare delle condizioni già esplicitate ma che sono condizioni abbastanza generiche e che quindi potranno determinare una notevole discrezionalità nelle scelte che potrà effettuare la Bce.

E’ noto che nel Consiglio direttivo vi sono componenti che la pensano anche in modo molto diverso fra di loro relativamente alle decisioni della Bce, i cosiddetti “falchi” e le cosiddette “colombe”.

E sarà possibile, in considerazione proprio della discrezionalità insita nello scudo prospettato dalla Bce, che nell’utilizzarlo o meno, per un determinato Paese, prevalgano valutazioni politiche e non solo valutazione di natura tecnica.

Concludo, quindi, come avevo iniziato: se al posto di Christine Lagarde ci fosse stato, come presidente della Bce, Mario Draghi, molto probabilmente le decisione della Banca centrale europea sarebbero state diverse e più efficaci.

mercoledì 20 luglio 2022

Ci siamo dimenticati dell'Ucraìna

Ormai i media, l’opinione pubblica, tutti noi, non attribuiamo più notevole attenzione a quanto avviene in Ucraìna. Eppure la situazione in quel Paese non è cambiata molto. Ci sono ancora i morti, anche fra i civili, i missili e le altri armi non hanno cessato di essere utilizzati.

In parte questa riduzione dell’attenzione era prevedibile e inevitabile. Solamente l’utilizzo di armi nucleari avrebbe impedito questa riduzione del nostro interesse nei confronti dell’Ucraìna.

Quanto avvenuto dipende anche da una tendenza che sempre più spesso contraddistingue i media, attualmente. Gran parte degli avvenimenti destano attenzione per un periodo molto limitato, per essere poi sostituiti in breve tempo da altri più o meno importanti dei precedenti.

I motivi alla base di questa tendenza dei media sono diversi, ma non è questa la sede per esaminarli approfonditamente.

Certo, dopo l’inizio della guerra in Ucraìna si sono verificati altri avvenimenti di significativo rilievo, le conseguenze del cambiamento climatico, la ripresa della pandemia, e, nel nostro piccolo Paese, sotto vari punti di vista, la crisi di governo.

Ma tutto ciò non giustifica quanto meno l’entità della riduzione dell’attenzione nei confronti di ciò che avviene ancora in Ucraìna.

Comunque, molto probabilmente, l’attuale orientamento dei media nei confronti dell’Ucraìna rispecchia il nostro orientamento, l’atteggiamento di tutti noi o quanto meno della gran parte di noi.

Siamo sempre più attenti alle questioni che ci interessano direttamente e sempre meno all’interesse generale.

Eravamo molto attenti, inizialmente, all’aggressione decisa da Putin nei confronti dell’Ucraìna principalmente perché temevamo che si potesse scatenare una guerra nucleare i cui concreti e tragici effetti si sarebbero manifestati anche in Italia.

Oggi il rischio di una guerra nucleare è, oggettivamente, minore e, forse, di qui la nostra minore attenzione nei confronti di quanto avviene in Ucraìna.

Certo ci interessano molto soprattutto le conseguenze economiche negative determinate dal protrarsi della guerra in Ucraìna che già colpiscono i nostri bilanci familiari e che, nel prossimo futuro, ancora di più potrebbero colpirli.

Ma, anche in questo caso, tale nostra attenzione si verifica soprattutto perché vengono influenzati i nostri diretti interessi, di natura economica.

Ripeto, però, che tutto ciò non giustifica il nostro disinteresse nei confronti di quanto avviene in Ucraìna.

In primo luogo perché non capiamo che la guerra in Ucraìna è anche, e forse soprattutto, una guerra tra Russia e i Paesi occidentali e che un’eventuale vittoria della Russia rappresenterebbe una sconfitta dell’Occidente, dei sistemi politici di democrazia liberale che lo caratterizzano, con possibili conseguenze negative sul livello delle libertà che ci contraddistinguono ed anche sul livello del nostro benessere economico, non solo nel breve periodo ma anche nel medio-lungo periodo.

domenica 17 luglio 2022

Conte e Salvini, gli irresponsabili

 

La crisi determinatasi con le dimissione del presidente del Consiglio Mario Draghi è stata oggetto di numerose e diverse valutazioni da parte di opinionisti ed esponenti politici. Generalmente sono state evidenziate le responsabilità, o meglio le irresponsabilità di Conti e dei grillini, certamente le più importanti. Ma vi sono anche le responsabilità di Salvini e dei leghisti.

Conte e gran parte dei parlamentari grillini sono stati degli irresponsabili.

Mettono a rischio la sopravvivenza del governo Draghi e gli interessi generali dell’Italia, solamente perché ritengono che uscendo dalla maggioranza, o con l’appoggio esterno, potrebbero ottenere alle prossime elezioni politiche qualche punto percentuale in più in termini di elettori che, ahimè, ancora decidessero di votarli.

La loro irresponsabilità risulta evidente se si considera che la guerra in Ucraìna è ben lontana dal concludersi, che i fondi del Recovery Plan sono stati erogati solo in parte, che l’aumento del tasso di inflazione sta creando notevoli problemi soprattutto ai cittadini con redditi più bassi.

Anche altre considerazioni potrebbero essere utilizzate per concludere che Conte e i grilini sono degli irresponsabili, ma sono più che sufficienti quelle appena rilevate per arrivare a questa conclusione.

L’irresponsabilità di Conte e dei grillini che lo sostengono dimostrano che ormai il Movimento 5 Stelle è in pieno stato confusionale, vicino alla sua definitiva estinzione, anche perché è del tutto sbagliato il loro obiettivo di potere in questo modo aumentare i propri consensi elettorali.

Il loro comportamento determinerà invece un’ulteriore riduzione di quei consensi.

Non se ne rendono conto e ciò dimostra ancora che ormai sono in uno stato confusionale ormai irreversibile.

Ma non finisce qui.

Infatti, la decisione di Draghi dipende anche dal comportamento di Salvini e dei leghisti che in più di un’occasione hanno messo in discussione le decisioni del presidente del Consiglio e soprattutto hanno anticipato che, in occasione dell’approvazione della prossima legge di bilancio, sono intenzionati a presentare proposte molto costose che richiederebbero un consistente scostamento di bilancio che Draghi, giustamente, non è disponibile a concedere.

Anche il loro comportamento dipende dall’auspicio che, mostrandosi più combattivi, potrebbero, in occasione delle elezioni politiche, ottenere maggiori consensi elettorali, dopo che hanno subìto una costante tendenza alla riduzione di tali consensi, mentre il partito della Meloni ha invece ottenuto una consistente crescita dei propri consensi.

Ma il verificarsi di tale auspicio non è affatto certo. Anzi potrebbe avvenire il contrario.

Per il comportamento irresponsabile di Conte, in primo luogo, e anche di Salvini, il nostro Paese potrebbe subìre dei gravi danni, relativamente alla situazione economica e alla propria credibilità internazionale.

Con l'ormai certa crisi di governo l'irresponsabilità di Conti e Salvini è aumentata e si è aggiunto a loro anche Berlusconi, irresponsabile anche lui.

mercoledì 13 luglio 2022

L'economia della bellezza vale il 25% del Pil

 

Secondo un’indagine promossa da Banca Ifis, le aziende del comparto del bello, quelle dell’economia della bellezza, rappresentavano nel 2021 il 24,1% del Pil nazionale, dimostrandosi più resilienti rispetto a quelle di altri settori, e si aprono al concetto di responsabilità sociale.

L’elemento di grande novità che emerge dall’indagine di Banca Ifis è come si è evoluto negli ultimi anni il concetto stesso di economia della bellezza, che è diventata nel 2021 la convergenza di due anime dell’economia italiana: imprese della bellezza “made in Italy”  e imprese “purpose-driven. La bellezza, dunque, si evolve e si arricchisce del “purpose”.

L’economia della bellezza si definisce in quanto “valorizzazione del nostro patrimonio culturale, architettonico, enogastronomico, di tradizioni, di identità” 

Le imprese “purpose-driven” sono quelle che agiscono in modo responsabile e concreto, generando un impatto positivo per la comunità, l’ambiente e le persone.

L’impatto di questo comparto, considerato nel suo insieme, sul Pil italiano è del 24,1%.  

L’8,4% di questa quota è rappresentato da aziende “purpose-driven”: 46.000 aziende che producono 650 miliardi di  euro all’anno.

Queste imprese rappresentano 11 settori produttivi, a dimostrazione che la scelta di avere un impatto positivo su comunità e territori prescinde dalla tipologia di business e dai mercati di riferimento.

Senza includere le aziende “purpose-driven”, l’impatto dell’ecosistema economia della bellezza sul Pil italiano è passato dal 17,2% del 2019 al 15,7% del 2021. Una flessione dovuta soprattutto al calo dei flussi turistici derivanti dalle restrizioni sulla mobilità ma che conferma comunque la resilienza di queste aziende che hanno contribuito al recupero del Pil nazionale, con un calo dei ricavi dal 2019 al 2021 dello 0,7%, molto più contenuto dunque rispetto al 4,6% delle altre imprese fuori perimetro.

Sono risultati 6 gli ambiti principali  su cui si  incentrano le imprese “purpose-driven”: 1) parità di genere, 2) sostenibilità (sociale, economica e ambientale), 3) partecipazione e democratizzazione, 4) diversità generazionale, 5) benessere dei lavoratori, 6) territorio e comunità locale. 

La scelta di costruire un’attività fondata sui valori oltre che sul profitto non è un fenomeno esclusivo degli ultimi anni: l’89% di queste imprese sono già consolidate sul mercato mentre l’11% è nato dal 2018 ad oggi.

Dallo studio è emerso un ulteriore nuovo trend: la diffusione dei modelli di business “purpose-driven”  non è una moda ma una richiesta dei clienti.

Sostenibilità ambientale, rispetto dei lavoratori, attenzione ai diritti,  sono alcuni degli obiettivi delle imprese che il consumatore valuta, superando la concezione che porrebbe sostenibilità sociale e sostenibilità ambientale come due concetti contrapposti.

I clienti si stanno quindi trasformando da semplice pubblico ad attori critici al centro della scena che vogliono interagire, conversare, condividere, osservare e giudicare.

In particolare, gli italiani sono sempre più interessati ad approfondire i valori e il modello di business delle imprese e, di conseguenza, sono importanti anche le modalità di comunicazione che l’azienda usa per veicolare il proprio impegno sociale o ambientale: il 31% degli italiani ascolta la voce dei dipendenti dell’impresa, il 30 consulta bilanci di sostenibilità e altri report e rendiconti, un altro 29% si affida alle certificazioni di organismi indipendenti.

domenica 10 luglio 2022

Chi trova un amico trova un lavoro

In Italia prevalgono per trovare un lavoro i cosiddetti canali informali, “buoni” (reputazione, promozione personale) e “cattivi” (raccomandazioni, combine). Non è certo una novità. Ma una recente indagine, Inapp-Plus, conferma tale situazione e approfondisce le sue caratteristiche.

Secondo questa indagine il 23% degli occupati ha trovato lavoro tramite amici e parenti, il 9% tramite contatti stabiliti nell’ambiente lavorativo.

Complessivamente i canali informali di ricerca hanno determinato il 56% dell’occupazione negli ultimi dieci anni: circa 4,8 milioni di posti.

Pertanto l’informalità pervade la mediazione tra domanda e offerta di lavoro.

E’ quanto emerge dall’ultimo rapporto dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), che prende in esame i dati dell’indagine Inapp-Plus, che da oltre 15 anni analizza la dinamica dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

“La prevalenza dell’accesso all’occupazione tramite i canali informali rappresenta ormai un tratto strutturale del mercato del lavoro italiano - ha affermato Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp - con distorsioni rilevanti sulla qualità dell’allocazione delle risorse umane.

I dati mostrano che i canali formali (a parte i concorsi pubblici ci si riferisce prevalentemente ai centri per l’impiego) intermediano le posizioni lavorative meno retribuite, prevalentemente non standard e caratterizzate da bassi livelli di istruzione. 

Chiudendo di fatto i canali formali di accesso pubblico alle posizioni migliori si restringe il campo della contendibilità e si riduce l’area di scelta per gli stessi datori di lavoro, compromettendo spesso la valorizzazione del merito e il funzionamento del cosiddetto ‘ascensore sociale’.

C’è da domandarsi perché ciò accada, ma sicuramente ciò riflette il perfetto incontro tra riluttanza delle imprese a comunicare posti vacanti di elevata qualità ai servizi per l’impiego e riluttanza delle persone più qualificate a cercare occupazione rivolgendosi ai servizi per l’impiego.

Tutto ciò comporta nel lungo periodo un impoverimento del capitale sociale e, una perdita di qualità e di efficienza dell’intero sistema economico”.

In assoluto, il canale di ricerca cresciuto maggiormente negli ultimi dieci anni è l'autocandidatura, passato dal 13% al 18%, probabilmente anche in relazione al ruolo crescente dei social media.

L’occupazione generata dalle piccole imprese private (1-5 e 6-10 addetti), che rappresenta il 40% del totale del settore privato, passa in maniera consistente attraverso l’intermediazione informale (oltre il 60%).

“Sebbene solo il 2% degli occupati dichiari di avere trovato lavoro tramite app o social network - continua Fadda - tuttavia, l'intermediazione digitale, se non adeguatamente regolata, rischia di alimentare ulteriormente l’informalità. Basti pensare che si è passati dal 25% degli occupati che nel 2000 dichiaravano di aver fatto ricorso a Internet durante la fase di ricerca di lavoro, al 50% del 2010, fino al 75% del 2021”.

Tra i canali formali, si è ridotto il ruolo dei concorsi pubblici (10% per chi ha trovato lavoro, sette punti percentuali in meno rispetto a dieci anni prima), effetto della riduzione del perimetro del settore pubblico e del blocco del turn-over nella P.A. 

Si è registrata, inoltre, un crescente (ma comunque sempre inferiore rispetto ai principali canali informali) ricorso alle agenzie private ed ai job center delle istituzioni scolastiche e formative, andamento dovuto anche alla loro più recente istituzionalizzazione.

Tale situazione determina diverse conseguenze negative:

limita la contendibilità delle opportunità;

crea inefficienza allocativa (le posizioni migliori non sono appannaggio delle persone migliori);

impoverisce il capitale sociale, relazioni opache generano favoritismo, depressione, “working poor”;

ostacola le pari opportunità;

inibisce la capacità di selezione del mercato: svilisce il merito, l’istruzione e la professionalità;

produce collocazioni inefficienti che nel lungo periodo creano perdite di produttività, efficienza e qualità;

alimenta la cosiddetta fuga dei cervelli, ovvero il capitale umano migliore se ne va dove viene riconosciuto;

contribuisce alla (im)mobilità sociale, in quanto il lavoro si eredita, e quindi frena l’ascensore sociale.

In un mercato del lavoro esposto a complesse ricomposizioni e transizioni profonde servirebbe un soggetto pubblico che sostenga adeguatamente tutti i processi di allocazione e di riallocazione della forza lavoro, oltre che le persone che fanno più fatica.

I centri per l’impiego trattano ora prevalentemente una utenza debole (il 32% ha le medie inferiori) e riescono a condurre al lavoro poco più del 4% della loro utenza.

La retribuzione di chi ha trovato lavoro grazie ai centri per l’impiego è la dimostrazione più evidente della qualità delle occasioni che vengono loro conferite: 23.300 euro lordi all’anno, contro, per avere un riferimento, i 35.000 di chi ha vinto un concorso pubblico o i 32.600 di chi ha trovato lavoro nell’ambiente professionale.

Non è tutto, anche la quota di laureati che hanno trovato lavoro attraverso i servizi per l’impiego è la più bassa (23%) dopo quella delle agenzie interinali (20%).

Dunque, c’è da un lato un problema di carenza di opportunità di qualità e dall’altro c’è l’onere di trattare una utenza particolarmente fragile.

“Per questo - conclude Fadda - urge un piano di rafforzamento dei centri per l’impiego che superi il limite di un mero incremento numerico del personale con interventi radicali sul piano della chiarezza delle funzioni da svolgere, delle competenze degli addetti e della efficienza organizzativa.

Per un miglioramento complessivo del funzionamento del mercato del lavoro i centri per l’impiego devono essere potenziati anche nella loro interconnessione con le imprese, i servizi dell’orientamento, i servizi formativi, gli altri organismi operanti nell’intermediazione e con tutti gli altri strumenti e soggetti delle politiche del lavoro.

Ovvero, ai centri per l’impiego bisogna attribuire un ruolo attivo nel mercato del lavoro e offrire le condizioni per poterlo svolgere”.

Non c’è dubbio che i centri per l’impiego debbano essere rafforzati.

Però, di un loro potenziamento si parla da anni, con scarsissimi risultati.

Quindi è legittimo essere scettici sul fatto che, almeno nel breve periodo, si riesca effettivamente a rafforzarli.

Anche perché la prevalenza dei canali informali nella ricerca di un lavoro dipende non solamente dall’assenza di valide alternative, non informali, ma da una cultura profondamente radicata sia in coloro che cercano un lavoro sia nelle imprese che lo offrono. Peraltro, in quest’ultimo caso, incide la presenza in Italia di molte micro e piccole imprese.

E, quindi, il prevalere di canali informali conviene, almeno apparentemente, sia a chi cerca un lavoro, abituato a fare affidamento sulla propria famiglia e sulle conoscenze e sulle raccomandazioni, ed anche quindi al sistema politico, sia alle imprese che, in quel modo, sono in grado di controllare l’ingresso dei nuovi occupati.

Infine, essendo in Italia la cultura del merito insufficientemente diffusa, sarà molto difficile che i canali informali, in breve tempo, riducano la loro importanza.

mercoledì 6 luglio 2022

Migliore il futuro dei giovani?

 

Per i giovani italiani il 2022 è l’anno da cui potrebbe iniziare il loro futuro. Si apre, infatti, un tempo nuovo in cui possono essere protagonisti: è questa la loro grande attesa e la lente attraverso la quale guardano il Paese che fino ad ora li ha oggettivamente trascurati. Il loro sguardo carico di energia e vitalità emerge dal nuovo rapporto giovani redatto dall’istituto Toniolo.

Quali sono i principali risultati che emergono dal rapporto?

Da un lato la lunga emergenza sanitaria - con le sue restrizioni e complicazioni relative alla scuola, alle relazioni, al lavoro, alle scelte di vita - ha lasciato segni pesanti. Ha eroso in modo marcato le risorse positive interne e le competenze sociali in tutte le dimensioni.

A diminuire è in particolare chi afferma di avere (“molto” o “moltissimo”) una “idea positiva di sé”, che scende da 53,3% del 2020 a 45,9% nel 2022, ma anche chi ha “motivazione ed entusiasmo nelle proprie azioni” che nello stesso periodo passa da 64,5% a 57,4% e chi sa “perseguire un obiettivo”, che scende da 67,0 a 60,0.

D’altro lato, c’è anche la consapevolezza della possibilità che si apra una nuova fase di sviluppo inclusivo e sostenibile del Paese, in grado di superare i limiti e le contraddizioni del passato.

Alta è l’incertezza nei confronti del futuro ma allo stesso tempo è elevata anche l’apertura verso i cambiamenti.

Alta è la domanda di un lavoro con reddito adeguato (68% dei giovani tra i 18-22 anni), ma anche il desiderio di farlo all’interno di una azienda di cui si condividono i valori (60%) e si svolge una attività con ricadute positive per la società e l’ambiente (60%).

Bassa è la conoscenza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che ha visto i giovani poco coinvolti (il 31,8% non sa cosa sia), ma forte è l’auspicio, tra chi è informato, che possa contribuire a risolvere i problemi strutturali del Paese e dare un rilancio alle possibilità di crescita (59,9% in età 18-22 anni concorda “abbastanza” o “molto”), e in buona misura anche migliorare le stesse opportunità per i giovani (52,2%).

Ma affinché questa strada venga davvero intrapresa ci sono alcune condizioni.

La prima riguarda le azioni di sistema del Pnrr: nei giovani emerge chiaramente la consapevolezza della necessità di un cambio di passo e di un salto di qualità̀ che, con le nuove risorse europee e dopo la discontinuità̀ prodotta dalla pandemia, l’Italia possa davvero fare.

Dunque, risulta decisivo focalizzare piani e progetti che rispondano alla loro domanda di cambiamento.

L’efficacia di quanto verrà̀ realizzato con i finanziamenti di Next Generation Eu va allora misurata sulla capacità di mettere il potenziale delle nuove generazioni al centro dei processi che generano benessere in tutto il territorio italiano.

La seconda ha a che fare con i riscontri nella vita personale: occorre mettere i giovani italiani nelle condizioni di migliorare progressivamente, nei tempi e modi adeguati, il proprio percorso occupazionale e accedere a un lavoro di qualità̀ e abilitante rispetto alle scelte di vita.

La terza condizione va riferita alle dinamiche della forza lavoro e al ruolo del capitale umano delle nuove generazioni nel sistema produttivo italiano, un bene diventato scarso in Italia.

La formazione dei giovani, l’utilizzo e la valorizzazione delle loro competenze aggiornate all’interno delle aziende e delle organizzazioni sono il prerequisito, tanto più con i freni degli squilibri demografici e del debito pubblico, per un’Italia che voglia essere competitiva nei processi di sviluppo nella parte centrale di questo secolo.

Infine, non si può non sostenere e promuovere la forte domanda di protagonismo positivo dei giovani nella società̀, che emerge non solo dai dati ma è visibile anche attraverso i movimenti a favore dell’ambiente e contro il riscaldamento globale o attraverso l’attività̀ di volontariato svolta durante l’emergenza sanitaria.

Nella prima parte del nuovo rapporto, vengono analizzati quattro fronti rispetto ai quali si giocano le sorti di una ripresa che possa far leva sulle intelligenze, le energie e la vitalità̀ delle nuove generazioni: le nuove modalità̀ di formazione e le nuove competenze, i nuovi lavori, i nuovi nuclei familiari, le nuove forme di partecipazione sociale.

Nella seconda parte vengono approfondite condizioni e aspettative delle categorie di persone alle quali il Pnrr si rivolge con specifica attenzione in modo trasversale.

Oltre ai giovani, le donne e chi vive al Sud e nelle aree economicamente meno dinamiche del Paese, c’è anche un approfondimento sulla componente straniera che nel Piano è lasciata un po’ in ombra.

Moltissimi sono i temi esplorati dai curatori: dalla scuola al volontariato, dai progetti di vita al “south working”.

Particolarmente interessante si rivela, anche in termini comparativi, poi l’approfondimento finale sulla condizione dei giovani in Spagna.

E’ certamente positivo il fatto che una parte consistente dei giovani nutrano delle aspettative favorevoli circa il loro futuro.

Sono però perplesso circa l’effettiva possibilità che le loro giuste aspettative siano soddisfatte.

Più volte si è affermato, a ragione, che l’Italia non è un Paese per i giovani.

Provvedimenti quali quota 100, per il pensionamento anticipato, lo dimostrano chiaramente. Altri provvedimenti inducono alla stessa conclusione.

E’ quindi difficile, a mio avviso, che nel breve periodo siano adottate politiche pubbliche destinate ad affrontare con decisione le problematiche dei giovani.

Spero, comunque, di essere smentito.

domenica 3 luglio 2022

Come contrastare lo spopolamento dei centri storici

 

I centri storici delle principali città italiane tendono sempre più a snaturarsi. I residenti si riducono fortemente, le attività artigianali e commerciali tradizionali scompaiono. E quindi i centri storici diventano, quasi esclusivamente, fruibili da una tipologia ben precisa del turismo, il cosiddetto turismo di massa, che talvolta crea problemi di salvaguardia dello stesso patrimonio storico-artistico che li contraddistingue.

Tale situazione riguarda anche Firenze e il sindaco Dario Nardella ha recentemente presentato una proposta di legge di iniziativa popolare che potrebbe interessare molti altri centri storici italiani.

Peraltro l’amministrazione comunale fiorentina ha già adottato alcuni provvedimenti rivolti a salvaguardare il proprio centro storico, ad affrontare alcune problematiche quali l’“overtourism”, l’equilibrio fra residenti e turisti ma anche la tutela dell’economia locale.

La proposta di legge di iniziativa popolare  è stata elaborata da uno staff di giuristi, esperti e titolari di varie competenze.

Si tratta di una proposta che verrà messa a disposizione della città ma anche delle forze economiche e con la quale si vuole aprire il confronto con altre città italiane.

In sintesi, la proposta prevede misure in sostegno della residenza, la tutela delle attività economiche, e la regolamentazione del patrimonio immobiliare. Obiettivi, la salvaguardia del decoro, della vivibilità e dell’identità dei centri storici.

Il primo punto portante della proposta è il riconoscimento dell’interesse culturale dei centri storici e degli agglomerati urbani di valore storico.

Ed ecco la prima novità: l’individuazione di aree della città che si configurano come agglomerati di valore storico.

I riferimenti normativi sono l’articolo 9 della Costituzione e la Convenzione europea sul paesaggio, oltre alla Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società e infine il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

Alcuni degli strumenti previsti dalla proposta di legge sono i seguenti.

Intanto, regolare gli affitti turistici brevi “come succede in altre città europee”, incentivando il ritorno della residenza in centro e combattendo il turismo squalificato “mordi e fuggi”;  tutela del commercio tradizionale e dell’artigianato reinserendo uno strumento di pianificazione che possa aiutare chi investe sulla qualità e la tradizione, il che significa pianificare le attività; ma anche introdurre un diritto di prelazione per quanto riguarda il soggetto gestore del negozio nel momento in cui il proprietario voglia vendere.

E se il gestore non ce la fa o non vuole, c’è un’ulteriore prelazione a favore del Comune.

Un altro obiettivo “è quello di favorire il decoro anche inducendo i proprietari di immobili abbandonati e degradati a intervenire per il loro restauro prevedendo anche delle forme di contribuzione”.

Nello specifico, la proposta di legge prevede, se approvata, la cosiddetta salvaguardia progressiva, ovvero,  i Comuni interverranno prioritariamente dove le criticità sono più forti.

Un percorso suddiviso in tre fasi, che passa dalla perimetrazione delle aree critiche, “all’individuazione all’interno di queste di ulteriori zone che arrecano pregiudizio ai valori culturali e paesaggistici, all’ambiente, alla sicurezza pubblica e infine la definizione delle misure necessarie a recuperare la qualità, la bellezza e la funzionalità di queste zone”.

Per quanto concerne la residenza, la sfida sarà di riproporre una pianificazione che preveda per ciascuna zona delle destinazioni d’uso compatibili e incompatibili con la tutela dell’area, l’individuazione dei limiti per il mutamento delle destinazioni d’uso e l’istituzione della categoria funzionale residenziale-turistica. Una necessità,  quest’ultima, che si rende necessaria anche nell’ottica di “attaccare la rendita immobiliare passiva e di guardare al centro storico come a un sistema complesso”, di interrelazioni di soggetti residenti e turisti, attività commerciali artigianato ecc.

Per quanto riguarda i passi successivi alla presentazione della proposta in Consiglio comunale,  Nardella ha spiegato che a partire da ora con obiettivo  settembre, verrà avviata la campagna di ascolto e di confronto con le Amministrazioni comunali, con le associazioni delle imprese, con i residenti e i comitati cittadini.

“Dialogheremo con gli altri Comuni, porterò la proposta anche all’Anci.

Dobbiamo raggiungere e superare 50.000 firme, e l’obiettivo è sicuramente alla nostra portata anche perché oggi è possibile raccogliere firme in via digitale”.

Secondo il sindaco “l’interesse e la tutela del centro storico riguarda tutte le forze politiche.

Noi abbiamo già avviato un dialogo con le città di Venezia, di Bergamo e di Roma, ma siamo sicuri di trovare tanti altri amministratori e sindaci d’accordo con questa iniziativa. Non abbiamo la pretesa di portare avanti solo la bandiera di Firenze, lo facciamo anche nell’interesse dell’Italia”.

Ha ragione Nardella una proposta come quella delineata dall’Amministrazione fiorentina può interessare molte altre città italiane, anche più piccole, accomunate tutte dalla necessità di tutelare e preservare l’identità e le caratteristiche tipiche dei loro centri storici.

E una tale proposta, poi, dovrebbe essere quanto prima approvata dal Parlamento, se possibile anche prima che termini l’attuale legislatura.