lunedì 29 novembre 2021

Guerra in Siria, la situazione oggi

Sono ormai 10 anni che la Siria è contraddistinta da una vera e propria guerra. Nonostante nel 2020 la situazione sul campo sia cambiata, con il governo siriano che ha consolidato il controllo su vaste aree di territorio tra cui Homs, Ghouta orientale, Damasco meridionale e Daraa, la situazione per i civili rimane estremamente difficile. Sono in corso conflitti e sfollamenti nei governatorati settentrionali, con il rischio di ulteriori escalation e insicurezza nel resto del Paese.

Della situazione in Siria si occupa, con un documento, Save the Children.

A fine 2019, nel nord-ovest del Paese, si è verificato un aumento delle violenze, terminato con un cessate il fuoco voluto a febbraio 2020, mentre attacchi aerei, bombardamenti e combattimenti a terra si sono intensificati nelle aree oltre le linee di conflitto nord-occidentali, causando l’uccisione di centinaia di civili e lo sfollamento di più di 850.000 persone.

Il conflitto comunque ha causato centinaia di migliaia di morti, sfollamenti di massa e distruzione di infrastrutture civili.

La forte recessione dell’economia siriana, la svalutazione, l’aumento dei prezzi, il tasso di disoccupazione oltre il 50% hanno portato a un forte aumento dell’insicurezza alimentare che, a luglio 2020, ultimo dato disponibile, colpiva 9,3 milioni di persone.

La pandemia ha ulteriormente aggravato la situazione del Paese, aumentando il tasso di disoccupazione e colpendo un sistema sanitario già fragile, in cui solo il 58% degli ospedali risulta completamente funzionante.

Le infrastrutture civili e i servizi pubblici, tra cui l'approvvigionamento idrico, l'elettricità, scuole e sanità sono state fortemente impattate dal conflitto, e oltre un terzo della popolazione non ha accesso all’acqua corrente.

I campi per sfollati nel Paese presentano condizioni di vita inadeguate, senza accesso a ripari, acqua potabile, cibo, assistenza sanitaria e psicologica adeguata.

Oltre 10 anni di conflitto in Siria hanno colpito più duramente coloro che sono meno responsabili: i bambini e le bambine.

Si stima che quasi 12.000 bambini e bambine siano stati uccisi o feriti in questo arco temporale, e attualmente il 90% dei minori in Siria necessita di assistenza umanitaria.

Oltre 1.300 strutture sanitarie ed educative, incluse le scuole, sono state direttamente oggetto di attacchi.

Il conflitto inoltre ha avuto un impatto drammatico sul benessere fisico, mentale e psicosociale dei minori.

Milioni di bambine e bambini in Siria vivono nella paura quotidiana che bombardamenti aerei possano distruggere le loro case e uccidere i loro cari; hanno paura di non poter più andare a scuola, sono spaventati perché non sanno se riusciranno ad avere un pasto fisso, hanno paura perché potrebbero essere separati dalla propria famiglia in qualsiasi momento.

Attualmente sono 2,4 milioni i bambini e le bambine che non vanno a scuola, con altri 1,3 milioni a rischio di abbandono scolastico, ostacolando gravemente il loro potenziale di sviluppo e mettendone molti a rischio di violenza e sfruttamento.

Molti ragazzi (dai 7 anni in su) vengono reclutati in gruppi armati, mentre chi riesce a sfuggire alle milizie è obbligato a lavorare, alcuni sono impegnati in negozi o garage, altri in lavori occasionali come la vendita di merci per strada o porta a porta.

Spesso si tratta di bambini e bambine provenienti dalle case più povere, o che hanno perso uno o entrambi i genitori.

domenica 21 novembre 2021

Dal 1992 uccisi più di 1.400 giornalisti

Dal 1992 più di 1.400 giornalisti sono stati uccisi per aver svolto il loro lavoro. In almeno 900 di questi casi si è trattato di una rappresaglia diretta. E il 90% di questi omicidi è rimasto impunito. Casi sono stati denunciati, tra gli altri, in Colombia, Russia, Filippine, Slovacchia, Malta, ma il problema è globale.

E’ quanto sottolinea l’atto di accusa consegnato al Tribunale permanente dei popoli, istituzione che ha sede all’Aja e che ha aperto un procedimento sugli omicidi dei giornalisti con l’obiettivo di accendere un faro e contribuire a fermare l’impunità, proponendo vie per riaffermare che gli Stati sono responsabili della protezione dei giornalisti e sono tenuti ad agire in caso di minacce nei loro confronti.

Il Tpp “è consapevole che l’omicidio di giornalisti è un problema universale, non solo nei Paesi non democratici ma in tutto il mondo”, così come è conscio “della gravità e dell’importanza di questa piaga, conseguenza di un ambiente ostile alla libertà di stampa”, ha dichiarato il Segretariato generale del Tpp, motivando l’apertura della procedura e richiamando l’attenzione sulle “gravi conseguenze” della “impunità quasi totale’ anche per la società.

Dopo la sessione di apertura, in cui testimoni ed esperti hanno documentato la natura sistemica dell’impunità per gli omicidi di giornalisti e il suo impatto sull’attività di informazione e sulla società, il Tpp procederà, attraverso una serie di udienze, da gennaio a maggio 2022, ad esaminare tre casi emblematici.

La giuria riunisce diverse competenze che presentano una pluriennale esperienza nel settore, garantendo, al tempo stesso, un’indipendenza di giudizio.

Tra i 9 componenti ci sono 3 italiani: Nello Rossi, che è il vicepresidente del Tpp ed è il direttore di Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica, Mariarosaria Guglielmi, magistrata e vicepresidente di Medel e la giornalista e scrittrice Martina Forti.

 “La violenza e i crimini contro i giornalisti sono al loro apice.

Secondo il calcolo effettuato da Reporters Senza Frontiere, 990 giornalisti e membri degli staff di mezzi di comunicazione sono stati uccisi nel mondo fra il 2010 e il 2020 a causa o nell’esercizio del loro lavoro, consistente nell’informare il pubblico. Dall’inizio del 2021, ne sono stati uccisi già 39”.

E’ la testimonianza resa dal segretario generale di Rsf, Christophe Deloire, al Tribunale.

Le zone di guerra come l’Afghanistan o l’Iraq rimangono “estremamente pericolose per i giornalisti: dall’inizio della guerra in Siria nel 2011, Rsf ha calcolato che sono stati uccisi 270 giornalisti (professionisti e non) e membri degli staff di mezzi di comunicazione.

Negli stessi ultimi 10 anni, in Afghanistan ne sono stati uccisi 63.

Ma anche Paesi che non sono ‘zone di guerra’ possono essere fatali, per i giornalisti: dal 2015, 62 giornalisti sono stati uccisi in Messico, 24 in India, 17 nelle Filippine”.

Gli abusi ai danni dei giornalisti aumentano anche nell’Unione europea: il loro numero “è raddoppiato negli ultimi due anni, e dal 2015, 14 giornalisti sono stati uccisi”.

Tra loro le 8 vittime degli attacchi contro Charlie Hebdo in Francia, gli omicidi di Daphne Caruana Galizia a Malta nel 2017, di Jan Kuciak in Slovacchia nel 2018 e, nel 2021, di Giorgios Karaivaz in Grecia e Peter De Vries in Olanda.

Gli omicidi di Daphne, Jan, Giorgios e Peter restano ad oggi impuniti - ha ricordato Deloire - mentre i mandanti sono ancora in libertà. Lo stesso accade in altre parti del mondo, dove il brutale assassinio di Jamal Khashoggi nel 2018 o l’assassinio di Anna Politkovskaja in Russia nel 2006 restano impuniti”.

mercoledì 17 novembre 2021

La pandemia non ha fermato l'ecomafia

 

Nel 2020, anno nero segnato dalla pandemia Covid-19, l’ecomafia non ha conosciuto lockdown e pause, né ha risparmiato l’ambiente. A fotografare la situazione è il nuovo rapporto Ecomafia 2021, realizzato da Legambiente.

In Italia nel 2020 sono stati 34.867 i reati ambientali accertati (+0,6% rispetto al 2019).

Sono aumentate le persone denunciate: 33.620 (+12% rispetto al 2019), le ordinanze di custodia cautelare eseguite 329 (+14,2%), i sequestri effettuati 11.427 (+25,4%), ma è diminuito il numero complessivo dei controlli passati da 1.694.093 del 2019 a 1.415.907 del 2020, con una flessione del 17% rispetto al 2019.

Sempre alta l’incidenza dei reati ambientali accertati nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (ossia Sicilia, Campania, Puglia e Calabria), esattamente 16.262, il 46,6% del totale nazionale, con 134 arresti, nel 2019 erano stati “soltanto” 86.

Nella classifica regionale, Campania, Sicilia, Puglia sono le regioni più colpite da illeciti ambientali.

Al quarto posto nel 2020 è salito il Lazio con 3.082 reati, con un incremento del 14,5% sul 2019, superando così la Calabria. La Lombardia rimane la regione con il maggior numeri di arresti.

Preoccupante anche il numero dei Comuni commissariati per ecomafia sino a oggi, ben 32, dei quali 11 sono stati sciolti nei primi nove mesi del 2021.

Un quadro nel complesso preoccupante, se si considera che una parte molto significativa degli illeciti analizzati nel rapporto Ecomafia ha a che fare con la violazione di normative connesse ad attività delle imprese, che pure hanno dovuto subìre, in diversi settori, la sospensione delle produzioni, causata, appunto, dai lockdown.

 “Non si deve assolutamente abbassare la guardia contro i ladri di futuro - ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente - a maggior ragione in un momento storico in cui dovremo spendere ingenti risorse pubbliche previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Va scongiurato in ogni modo il rischio di infiltrazioni ecomafiose nei cantieri per la realizzazione di opere ferroviarie e portuali, impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e di riciclo dei rifiuti, depuratori, interventi di rigenerazione urbana, infrastrutture digitali, solo per fare qualche esempio delle opere che servono alla transizione ecologica del Paese.

Il lavoro di repressione ha avuto un’impennata grazie ai delitti contro l’ambiente, che siamo riusciti a far inserire nel Codice penale nel 2015, dopo 21 anni di lavoro incessante.

Ora è fondamentale un deciso cambio di passo che porti a completare il sistema normativo inserendo i delitti ambientali e di incendio boschivo tra i reati per cui è possibile, vista la loro particolare gravità e complessità, prorogare i termini di improcedibilità previsti dalla riforma della giustizia, approvata dal Parlamento.

Va aggiornato il Codice penale inserendo tra i delitti anche le agromafie, il traffico di opere d’arte e di reperti archeologici e il racket degli animali.

E’ poi fondamentale - ha continuato Ciafani -  alzare il livello qualitativo dei controlli pubblici ambientali in tutta Italia, a partire dal Centro-Sud.

Servono nuove risorse finalizzate all’aumento del personale per le valutazioni e le ispezioni e all’acquisto della strumentazione innovativa per effettuare i monitoraggi. Si deve procedere speditamente all’approvazione dei decreti attuativi della legge 132 del 2016, che ha istituito il sistema nazionale per la protezione dell’ambiente”.

 “I dati del rapporto Ecomafia – ha rilevato Enrico Fontana, responsabile osservatorio ambiente e legalità di Legambiente - confermano l’urgenza di completare il quadro normativo a tutela dello straordinario patrimonio ambientale e culturale del nostro Paese, della salute dei cittadini e della buona economia e di rimediare quanto prima a due errori: quello commesso dal Governo e dal Parlamento nell’approvazione della riforma del Codice penale, avvenuta a settembre del 2021, a causa della quale, nonostante i forti appelli lanciati a più riprese da Legambiente, Libera, Wwf, Greenpeace e Focsiv, scatterà la tagliola dell’improcedibilità per i delitti contro l’ambiente, per i quali deve invece essere garantito tutto il tempo necessario per fare giustizia; l’interpretazione restrittiva da parte del ministero dell’Interno della norma che introduce il potere sostitutivo dei prefetti di fronte all’inadempienza dei Comuni, che emettono ma non eseguono ordinanze di demolizione di immobili abusivi, la cui applicazione riguarderebbe solo le ordinanze di demolizione emesse dopo l’approvazione della legge 120/2020, il cosiddetto decreto Semplificazioni entrato in vigore il 15 settembre del 2020”.

Per questo Legambiente, tra le sue principali 10 proposte, chiede:

di inserire, come primo provvedimento utile, i delitti ambientali previsti dal titolo VI-bis del Codice Penale e il delitto di incendio boschivo tra quelli per cui non scatta l’improcedibilità; approvare delle leggi contro agromafie e saccheggio del patrimonio culturale, archeologico e artistico e introduzione nel Codice penale dei delitti contro gli animali; ripristinare, se necessario con una modifica legislativa, la corretta attuazione da parte delle prefetture di quanto previsto dall’articolo 10-bis della legge 120/2020, che ne stabilisce il potere sostitutivo in tutti i casi, anche antecedenti all’approvazione della norma, di mancata esecuzione da parte dei Comuni delle ordinanze di demolizione di immobili abusivi; inasprire le sanzioni previste contro i traffici illegali di rifiuti; emanare i decreti attuativi della legge 132/2016 che ha istituito il sistema nazionale per la protezione per l’ambiente; garantire l’accesso gratuito alla giustizia da parte delle associazioni, come Legambiente, iscritte nel registro unico nazionale del Terzo settore e impegnate di fronte a qualsiasi autorità giudiziaria in qualsiasi grado di giudizio nel perseguimento dei propri fini statutari.

Le proposte di Legambiente mi sembrano degne di notevole attenzione e spero, quindi, che, quanto prima, esse possano essere accolte.

domenica 14 novembre 2021

Meno giovani nel lavoro domestico

 

Il lavoro domestico è contraddistinto da una minore presenza di giovani: nell’ultimo decennio, infatti, è drasticamente calata la presenza di colf, badanti e baby sitter under 30 (-61,4%) mentre si è assistito ad un progressivo invecchiamento della forza lavoro. Nel 2020 gli over 50 rappresentavano oltre la metà dei lavoratori impiegati nel comparto: circa 480.000 domestici regolari (di cui 319.000 stranieri) su un totale di 920.000.

E’ questa la fotografia scattata da Assindatcolf, Associazione nazionale dei datori di lavoro domestico, che, insieme al Centro studi e ricerche Idos, ha presentato i dati sul comparto domestico contenuti nel dossier statistico immigrazione 2021.

Sebbene nell’ultimo anno il numero dei lavoratori domestici stranieri sia complessivamente cresciuto del 5,3% anche per effetto dell’ultima procedura di emersione (passando dalle 601.223 unità del 2019 alle 633.122 del 2020), dal 2012 ad oggi si sono “persi” complessivamente circa 189.000 addetti stranieri.

Un trend che, seppure parzialmente compensato dalla crescita degli italiani (+12,8% nell’ultimo anno), rischia di creare pesanti ricadute sul futuro dell’assistenza a domicilio, essendo quello domestico un comparto basato in prevalenza sulla forza lavoro immigrata, che rappresenta il 68,8% del totale.

Il progressivo invecchiamento dei lavoratori riguarda in particolare proprio la componente straniera: ad oggi gli over 50 rappresentano il 65,8% del totale, contro il 34,2% degli italiani.

E se da una parte l’avanzare dell’età porterà, nel giro di un decennio, oltre 480.000 domestici, tra quelli oggi in forza ad andare in pensione (260.000, di cui 175.000 stranieri) o ad avvicinarsi a quella soglia (220.000, di cui 144.000 stranieri), dall’altra parte i dati degli ultimi anni dimostrano come a questo fenomeno non corrisponda un fisiologico ricambio generazionale.

Tale considerazione è valida non solo per gli under 30, la cui presenza dal 2012 al 2020 è calata del 61%, ma anche per i lavoratori tra i 30 e i 39 anni, che nello stesso periodo sono crollati del 47%, e per quelli nella fascia di età 40-49 anni, scesi del 18%.

“Con il graduale invecchiamento della forza lavoro, - ha dichiarato il Presidente di Assindatcolf, Andrea Zini - il mancato ricambio generazionale e la chiusura dei canali di ingresso regolari per i cittadini extracomunitari a cui ormai assistiamo da anni e che la pandemia ha praticamente bloccato, rischiamo nel prossimo futuro di non avere personale a sufficienza che assista i nostri anziani, i bambini e che si prenda cura delle nostre case.

A pagarne il conto più grande potrebbero essere le donne, sulle quali ancora ricade la maggior parte del lavoro di cura, in un momento storico in cui, al contrario, anche grazie ai fondi del Pnrr si punta sull’occupazione femminile.

Per questo chiediamo misure urgenti per il comparto, a cominciare da quelle fiscali, come la deduzione del costo del lavoro domestico.

Servono investimenti sulla formazione per rendere più appetibile il settore anche per i giovani, ma soprattutto è necessario tornare ad una programmazione dei flussi di ingresso con quote dedicate al lavoro domestico calcolate sul reale fabbisogno delle famiglie”.

“Nel 2020 - ha affermato Luca Di Sciullo, presidente del Centro studi e ricerche Idos – l’Italia ha conosciuto il numero più basso di nascite dall’Unità d’Italia, appena 404.000, e il un numero di morti paragonabile a un dopoguerra, 746.000.

Al tempo stesso, da 12 anni restano chiusi i canali regolari di ingresso per giovani lavoratori dall’estero, anche in comparti di attività dalla domanda crescente, come appunto quello domestico, e per settori economici in crisi di manodopera.

Nel frattempo continuiamo a impiegare poco e male la forza lavoro straniera già presente, peraltro crollata di 160.000 unità nell’anno della pandemia.

In poche parole: il Paese invecchia drasticamente e noi, per ragioni puramente ideologiche, ne impediamo il necessario ringiovanimento e ricambio delle leve produttive attraverso l’apporto che l’immigrazione potrebbe vitalmente già offrire, se solo fosse gestita anche solo più pragmaticamente.

Quel che sta avvenendo nel comparto domestico è paradigmatico di una situazione generale che dovrebbe interpellare i decisori politici, richiamandone la responsabilità verso l’intero sistema Paese”.

Il problema evidenziato da Assindatcolf è, senza alcun dubbio, molto importante.

Ed è pertanto necessario che le autorità competenti intervengano quanto prima.

Del resto sia Assindatcolf che il centro Idos hanno presentato alcune proposte, prima esposte, che mi sembrano degne di notevole attenzione.

mercoledì 10 novembre 2021

In Europa 20 milioni i bambini poveri

 

In Europa sono in aumento i livelli di povertà minorile. Sono quasi 20 milioni i bambini che crescono in povertà: sebbene l’Unione europea sia una delle regioni più ricche e con meno diseguaglianze nel mondo, i bambini di tutti i Paesi stanno affrontando livelli di povertà inaccettabili, nessun Paese escluso.

Questo è quanto emerge dal rapporto “ Garantire il futuro dei bambini – come porre fine alla povertà minorile e all’esclusione sociale”, realizzato da Save the Children.

In Italia le stime dimostrano che nel 2020 i bambini in povertà assoluta erano 2000.000 in più rispetto all’anno precedente.

In Germania, uno dei Paesi più ricchi al mondo, un bambino su quattro cresce a rischio di povertà, mentre in Spagna e Romania un bambino su tre vive al di sotto della soglia di povertà.

Nei Paesi dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo ad esempio) la situazione è ancora più grave.

I bambini più vulnerabili e più colpiti dalla povertà sono coloro che crescono in famiglie numerose o monoparentali, i bambini migranti, con disabilità, appartenenti a minoranze etniche e quelli che vivono nelle aree rurali o più svantaggiate.

Milioni di bambini in tutta Europa non hanno alcun accesso o hanno accesso limitato all’istruzione e ai servizi educativi per la prima infanzia.

Molti altri milioni non hanno accesso a cibi sani causando un aumento dei livelli di obesità e di malnutrizione cronica infantile.

La salute mentale dei bambini è una sfida chiave in tutti i Paesi e la maggior parte dei bambini poveri in Europa vive in condizioni abitative inadeguate o in situazioni di sovraffollamento, devono far fronte alla perdita della casa e il rischio di sfratto è all’ordine del giorno per la maggior parte di loro.

Il rapporto contiene anche delle raccomandazioni su come migliorare le politiche nazionali di riduzione della povertà minorile dal momento che i decisori politici della maggior parte dei Paesi europei non stanno sfruttando a pieno le risorse disponibili dell'Ue come la garanzia europea per l'infanzia e il piano d'azione del pilastro europeo dei diritti sociali.

“E’ assurdo vedere che, nonostante l'Ue si sia impegnata ad investire per le generazioni future, molti Stati membri non riescano ancora a stanziare risorse adeguate per garantire che tutti i bambini possano emanciparsi dalla loro situazione di svantaggio ed esclusione sociale” ha dichiarato Anita Bay Bundegaard, direttrice di Save the Children Europa. 

“Nessun bambino dovrebbe andare a scuola a stomaco vuoto, dormire al freddo, saltare le gite scolastiche con i compagni di classe o aver paura di uno sfratto perché i genitori non possono pagare l'affitto, ma per milioni di bambini in tutta Europa questa è la realtà quotidiana e il prezzo da pagare a causa delle disuguaglianze sta diventando troppo alto. I bambini che crescono in povertà hanno più probabilità di essere poveri da adulti e a loro volta anche i loro figli”.

“In questo momento critico, Save the Children si augura che i dati raccolti nel rapporto possano influenzare i piani d'azione della garanzia europea per l'infanzia in modo che non siano solamente una risposta immediata alla crisi, ma possano garantire riforme sostenibili per fornire un futuro migliore per le generazioni di bambini di oggi e di domani in modo efficace” ha aggiunto Anita Bay.

Per migliorare la situazione dei bambini che vivono in condizioni di povertà ed esclusione sociale in Europa, Save the Children chiede ai Governi di: adottare un approccio olistico per affrontare la povertà minorile; di includere adeguate misure di riduzione della povertà minorile nei piani d'azione nazionali della garanzia europea dell'infanzia; nei suddetti piani promuovere e specificare in modo trasparente l'allocazione delle risorse per affrontare la povertà minorile; fissare obiettivi nazionali ambiziosi per la riduzione della povertà minorile, con l'obiettivo di superare l'obiettivo dell'Ue di far uscire 5 milioni di bambini dalla povertà entro il 2030; infine, di garantire la sostenibilità delle riforme, assicurando che le risorse finanziarie continuino a finanziare i servizi nel lungo periodo.

Io sono pienamente d’accordo con le proposte di Save the Children e spero che esse siano accolte.

Infatti, la riduzione del numero dei bambini poveri dovrebbe rappresentare, senza alcun dubbio, un obiettivo prioritario per tutti i Paesi dell’Unione europea.

mercoledì 3 novembre 2021

Gli immigrati i più colpiti dalla crisi Covid

 

La crisi economica determinata dalla diffusione del Covid ha colpito soprattutto gli immigrati., poiché tale crisi ha interessato in primo luogo i lavoratori precari e i settori caratterizzati da un ampio utilizzo di lavoro stagionale, ad esempio turismo ed agricoltura. E infatti gli stranieri hanno subìto una riduzione del tasso di occupazione maggiore di quella degli italiani.

Queste considerazioni rappresentano una delle principali conclusioni a cui è pervenuto il rapporto 2021 sull’economia dell’immigrazione, realizzato dalla fondazione Leone Moressa.

Comunque gli stranieri producono ancora il 9% del Pil e risultano determinanti in molti settori.

Gli occupati stranieri in Italia nel 2020 erano 2,35 milioni, in calo (-6,4%) rispetto al 2019 (per gli italiani la variazione è stata -1,4%).

Tra i 456.000 posti di lavoro persi nel 2020, un terzo ha riguardato i lavoratori stranieri, in prevalenza donne.

Per la prima volta, quindi, il tasso di occupazione degli stranieri (57,3%) è sceso al di sotto di quello degli italiani (58,2%).

Dopo i forti aumenti dei primi anni 2000, la popolazione straniera in Italia è sostanzialmente stabile dal 2014.

Oggi gli stranieri residenti sono 5 milioni, l’8,5% della popolazione (e superano il 10% in molte Regioni).

Tuttavia, da 10 anni è diminuita la natalità e nel 2020 è aumentata la mortalità (effetto Covid). Il saldo migratorio (differenza arrivi-partenze) è ancora positivo, ma a livelli più bassi che in passato.

Se fino al 2010 si registravano più di 500.000 nuovi permessi di soggiorno ogni anno, negli ultimi anni si è registrato un calo drastico.

E nel 2020 si è toccato il picco minimo, con solo 106.000 permessi. Di questi, la maggior parte è per motivi familiari (58,9%), mentre quelli per lavoro sono stati appena 10.000 (meno del 10% del totale).

La crisi Covid non ha fermato l’espansione di imprese a conduzione da parte di immigrati.

Nel 2020 gli imprenditori nati all’estero erano 740.000, pari al 9,8% del totale e in aumento rispetto al 2019 (+2,3%).

Rispetto al 2011, i nati all’estero sono aumentati del 29,3%, mentre i nati in Italia hanno registrato un -8,6%.

Le nazionalità più numerose sono Cina, Romania, Marocco e Albania, ma la crescita più significativa si registra tra i nati in Bangladesh, Pakistan e Nigeria. L’incidenza maggiore si registra nell’edilizia (16,0% degli imprenditori del settore).

I contribuenti stranieri in Italia sono 2,3 milioni e nel 2020 hanno dichiarato redditi per 30,3 miliardi e versato Irpef per 4,0 miliardi.

Sommando le altre voci di entrata per le casse pubbliche (Irpef, Iva, imposte locali, contributi previdenziali e sociali, ecc.), si ottiene un valore di 28,1 miliardi.

Dall’altro lato, si stima un impatto per la spesa pubblica per 27,5 miliardi.

Il saldo, dunque, è positivo (+600 milioni). Gli stranieri sono giovani e incidono poco su pensioni e sanità, principali voci della spesa pubblica. Ma i lavori poco qualificati e la scarsa mobilità sociale possono portare nel lungo periodo ad un peggioramento della situazione.

giovedì 28 ottobre 2021

Oltre 13 milioni di italiani hanno problemi di connessione

 

E’ stato presentato il rapporto “La digital life degli italiani” realizzato dal Censis in collaborazione con Lenovo. Uno dei principali risultati del rapporto è rappresentato dal fatto che 13,2 milioni di italiani hanno problemi di connessione a internet.

Il 70,4% degli italiani ritiene che la digitalizzazione abbia migliorato la loro qualità della vita, perché semplifica tante attività quotidiane.

Nell’Italia post-pandemia, per il 74,4% degli utenti è ormai abituale l’uso combinato di una pluralità di device (smartphone, pc, laptop, tablet, smart tv, console di gioco).

Il luogo dal quale ci si connette non ha più importanza: il 71,7% degli utenti svolge ovunque le proprie attività digitali (e il dato sale al 93% tra i giovani). E anche gli orari sono relativi: il 25,5% naviga spesso di notte (il dato sale al 40% tra i giovani).

Nove utenti su dieci (il 90,3%) dichiarano di possedere device in linea con le proprie esigenze.

Anche i luoghi domestici sono in gran parte attrezzati per il pieno ingresso nella digital life: il 73% degli utenti vive in famiglie in cui ogni membro si connette con un proprio dispositivo, il 71,1% ha una connessione casalinga ben funzionante, il 67,9% risiede in abitazioni in cui ciascuno ha uno spazio in cui svolgere le proprie attività digitali.

Due terzi dei lavoratori (il 66%) utilizzano device personali per motivi di lavoro, con punte fino all’85% tra i lavoratori autonomi e del 72,2% tra gli occupati laureati.

Ma succede anche che il 26,9% degli occupati (e il 39,8% dei dirigenti) impieghi i dispositivi elettronici aziendali per ragioni personali. Sottovalutando il fatto che usi impropri dei dispositivi possono comportare rischi per la sicurezza dei dati e per la privacy di lavoratori e aziende.

In questo scenario abbastanza avanzato di digitalizzazione, nel nostro Paese si contano però ancora 4,3 milioni di utenti di dispositivi senza connessione.

E sono complessivamente 22,7 milioni gli italiani che lamentano qualche disagio in casa, con stanze sovraffollate in cui è complicato svolgere al meglio le proprie attività digitali (14,7 milioni) o con connessioni domestiche lente o malfunzionanti (13,2 milioni).

Sul fronte dei dispositivi, 12,4 milioni di italiani devono condividerli con i propri familiari e 4,4 milioni li ritengono inadeguati a soddisfare i propri bisogni.

Ci sono poi complessivamente 24 milioni di italiani che non sono pienamente a loro agio nell’ecosistema digitale: 9 milioni riscontrano difficoltà con le piattaforme di messaggistica istantanea (WhatsApp, Telegram, ecc.), 8 milioni con la posta elettronica, 8 milioni con i social network (Facebook, Instagram, ecc.), 7 milioni con la navigazione sui siti web, 7 milioni con le piattaforme che consentono di vedere in streaming eventi sportivi, film e serie tv, 6 milioni hanno difficoltà con l’e-commerce, 5 milioni non sanno fare i pagamenti online, 4 milioni non hanno dimestichezza con l’uso delle app e delle piattaforme per le videochiamate e i meeting virtuali.

Io ritengo necessario che quanto prima i problemi di connessione che sono emersi dal rapporto siano eliminati o quanto meno fortemente ridotti.

Inoltre, come di nuovo emerge dal rapporto, risulta necessario accrescere le competenze in campo digitale soprattutto della popolazione con età più elevata.

Diversamente, infatti, il cosiddetto “digital divide”, cioè la disparità nelle possibilità di accesso ai servizi telematici tra la popolazione, non si ridurrà mentre, invece, è indispensabile ridurlo.

domenica 24 ottobre 2021

Sulle pensioni di nuovo Landini come Salvini

 

Le pensioni anticipate con la cosiddetta quota 100 termineranno con il 2021. Il governo ha avanzato una proposta per gestire il post quota 100. Tale proposta, al momento, non è stata accettata dalla Lega, dalla Cgil, capeggiata da Maurizio Landini, e dagli altri sindacati.

Il fatto che Salvini e la Lega osteggino la proposta del governo non mi stupisce. Del resto, con il governo giallo-verde la Lega è stata la paladina dell’introduzione di quota 100.

Per la verità quota 100 è costata molto ma quanti sono andati in pensione sono stati sostituiti solo in minima parte.

Chi la proponeva invece sosteneva che tutti coloro che sarebbero andati in pensione con quota 100 sarebbero stati sostituiti da giovani.

Mi stupisce invece che la Cgil, soprattutto, si sia dichiarata contraria alla proposta del governo.

E tale posizione della Cgil è sbagliata, anche perché le loro proposte alternative costerebbero molto e impedirebbero quindi di destinare effettivamente adeguate risorse finanziarie, con la legge di bilancio, ad altri utilizzi senza dubbio più utili per la collettività.

Invece la Cgil dimostra ancora una volta di essere, soprattutto, un sindacato di pensionati e un sindacato che tutela solo chi ha un lavoro a tempo indeterminato, mentre, al di la delle chiacchiere, trascura i giovani.

Infatti, quota 100, e qualunque nuovo assetto del sistema pensionistico che costasse una somma simile a quanto è costata quota 100, impedirebbe, tra l’altro, di destinare le necessarie risorse finanziarie per favorire l’inserimento lavorativo dei giovani.

E’ giusto che venga ampliata la platea di quanti svolgono lavori cosiddetti usuranti e che quindi possano andare in pensione anticipatamente.

Ma provvedimenti che consentano a tutti coloro che hanno determinati requisiti, come quelli previsti da quota 100 o da proposte simili, sono sbagliati, per i motivi che ho già esposto.

Sarebbe necessario, pertanto, che la Cgil e gli altri sindacati mutino le loro posizioni relativamente ai cambiamenti da introdurre, dal 2022, alla possibilità di andare in pensione anticipatamente.

E sarebbe necessario che la Cgil e gli altri sindacati elaborino davvero proposte che favoriscano l’inserimento lavorativo dei giovani.

mercoledì 20 ottobre 2021

Attenzione Letta, non cullarti sugli allori

 

Nelle elezioni comunali, recentemente svoltesi, il centrosinistra, e in primo luogo il Pd, ha vinto e, di conseguenza, il centrodestra ha subìto una cocente sconfitta. Ma non per questo l’esito delle elezioni politiche, che si dovrebbero tenere nel 2023, anche se non si può escludere una loro anticipazione al 2022, sarà scontato. Tutt’altro.

Quindi non necessariamente il centrosinistra vincerà anche le prossime elezioni politiche.

Per vari motivi.

A parte che ci sono dei precedenti da tenere presenti, il più noto dei quali è rappresentato dalla netta vittoria del centrosinistra nelle elezioni amministrative del 1993 a cui poi è seguita la vittoria di Berlusconi e del centrodestra nelle elezioni politiche del 1994.

Fra l’altro, le caratteristiche delle elezioni comunali sono diverse da quelle delle elezioni politiche. Nelle prime contano molto i candidati a sindaco e poi c’è il ballottaggio tra i due candidati con più voti, che non hanno raggiunto la maggioranza dei consensi nel primo turno.

A parte questo, vi sono delle specificità delle elezioni comunali appena svoltesi.

In primo luogo il forte astensionismo.

E’ possibile che una parte consistente di quanti si sono astenuti potrebbero alle prossime elezioni politiche votare per il centrodestra, anche se una parte degli astensionisti hanno probabilmente votato in passato per il movimento 5 stelle.

Inoltre, è possibile che il centrodestra, in occasione delle prossime elezioni politiche, si compatti e si dimostri molto più unito di quanto non sia avvenuto nelle recenti elezioni comunali.

Del resto è improbabile, nonostante le differenze di linea politica manifestatesi nell’ultimo periodo, che Forza Italia si sganci dal centrodestra per andare a costituire un partito o un’aggregazione di partiti di centro, considerando fra l’altro che uno dei più importanti risultati delle elezioni comunali è rappresentato dal riemergere di un netto bipolarismo, soprattutto dovuto alla notevole diminuzione dei consensi rivolti al movimento 5 stelle, fenomeno che a mio avviso è strutturale (il movimento 5 stelle potrebbe nel prossimo futuro anche scomparire o quanto meno dovrebbe essere fortemente ridimensionato).

Poi, il cosiddetto “campo largo” a cui tiene molto Enrico Letta, il segretario del Pd, l’ampia coalizione di centrosinistra, da Fratoianni a Calenda, come spesso si afferma, non sarà di facile costituzione.

Quindi il Pd che si è dimostrato il punto di riferimento del centrosinistra, e che lo sarà anche in occasione delle prossime elezioni politiche, non dovrà cullarsi sugli allori.

Dovrà continuare (o iniziare?) un forte processo di cambiamento tendente soprattutto a rafforzare i propri legami con quelle componenti della società che si sono allontanate, da tempo, dal centrosinistra, e che in passato hanno votato per il centrodestra e che, nelle elezioni comunali, si sono gran parte astenute.

Quindi il Pd e il centrosinistra deve rivolgersi con particolare attenzione a coloro che si sono astenuti, tenendo conto, fra l’altro, che nelle elezioni politiche il tasso di astensionismo è inferiore a quello che si verifica in occasione delle elezioni comunali.

Invece, cullarsi sugli allori sarebbe fatale e favorirebbe la vittoria del centrodestra nelle prossime elezioni politiche.

domenica 17 ottobre 2021

Inaccettabile lo stop al processo Regeni

 

Il processo per l’uccisione di Giulio Regeni, presso il tribunale di Roma, è stato bloccato dai magistrati della Corte d’Assise perché i presunti colpevoli non sono stati informati formalmente del loro rinvio a giudizio e quindi dell’inizio del processo a loro carico.

Gli imputati indicati dalla procura della Repubblica di Roma sono quattro egiziani, agenti di polizia e dei servizi segreti, i cui indirizzi non sono stati volutamente comunicati dalle autorità competenti dell’Egitto, proprio per impedire l’effettuazione del processo.

Un giudice delle indagini preliminari aveva ritenuto che, data la notevole risonanza mediatica del caso Regeni, anche in Egitto, i quattro indagati fossero comunque informati dell’inizio del processo.

La corte d’assise di Roma, presso la quale doveva svolgersi il processo, non è stata dello stesso avviso.

La scelta della corte d’assise è stata, a mio avviso, sbagliata, perché era evidente che i quattro indagati non potevano non sapere del processo e perché era altrettanto evidente che di proposito le autorità egiziane non hanno comunicato i loro indirizzi.

La decisione dei magistrati romani è l’ennesima dimostrazione della perdita di credibilità di una parte consistente della magistratura italiana, di cui ho già scritto in un precedente post.

Stupisce anche il silenzio pressocchè totale, relativamente alla decisione dei magistrati romani, da parte di esponenti del governo e dei partiti.

Evidentemente, io credo, la volontà di non peggiorare le relazioni con le autorità egiziane hanno avuto ancora la meglio rispetto alla necessità di fare giustizia, una volta per tutte, per l’assassinio di Giulio Regeni.

Peraltro il governo italiano si era costituito parte civile nel processo, ormai bloccato.

A questo punto cosa si può fare?

Cosa può fare soprattutto il governo italiano?

Innanzitutto deve promuovere forti pressioni nei confronti del governo egiziano affinchè siano forniti gli indirizzi degli imputati per poter inviare una comunicazione formale del loro essere indagati.

Inoltre il governo deve verificare se nell’ambito dei decreti attuativi della riforma della giustizia si possa prevedere, esplicitamente, che in un caso come quello del processo Regeni, sia consentito comunque di dare inizio al processo.

Resta il fatto che, a mio avviso, anche con la normativa vigente, i magistrati della corte d’assise di Roma avrebbero potuto iniziare il processo.

Sarebbe utile, però, che la mobilitazione dei cittadini italiani a sostegno della giusta esigenza di fare giustizia sul caso Regeni sia molto più ampia di quanto avvenuto fino ad ora.

Io credo, infatti, che le responsabilità di quanto avvenuto fino ad ora in Italia circa il caso Regeni siano plurime e che non siano addebitabili esclusivamente al nostro governo e ai partiti.

mercoledì 13 ottobre 2021

Perchè abolire la pena di morte ovunque

 

La pena di morte non è stata ancora abolita in tutti i Paesi del mondo. E’ ancora prevista in circa un terzo dei Paesi. Nel 2020 Amnesty International ha registrato 483 esecuzioni in 18 Stati, con una diminuzione del 26% rispetto alle 657 esecuzioni registrate nel 2019. La maggior parte delle esecuzioni si è verificata, nell’ordine, in Cina, Iran, Egitto, Iraq e Arabia Saudita.

Perchè, secondo Amnesty International che da sempre si oppone incondizionatamente alla pena di morte, deve essere abolita dappertutto?

Per diversi motivi.

La pena di morte viola il diritto alla vita. 

La Dichiarazione universale dei diritti umani e altri trattati regionali e internazionali, che chiedono l’abolizione della pena di morte, riconoscono il diritto alla vita. Un riconoscimento sostenuto anche dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, nel 2007 e nel 2008, ha adottato una risoluzione che chiede, fra l’altro, una moratoria sulle esecuzioni, in vista della completa abolizione della pena di morte.

La pena di morte è una punizione crudele e disumana. 

La sofferenza fisica causata dall’azione di uccidere un essere umano non può essere quantificata, né può esserlo la sofferenza mentale causata dalla previsione della morte che verrà per mano dello Stato. Sebbene le autorità dei Paesi mantenitori continuino a cercare procedure sempre più efficaci per eseguire una condanna a morte, è chiaro che non potrà mai esistere un metodo umano per uccidere.

La pena di morte non ha valore deterrente. 

Nessuno studio ha mai dimostrato che la pena di morte sia un deterrente più efficace di altre punizioni.

La pena di morte è un omicidio premeditato dello Stato. 

Eseguendo una condanna a morte, lo Stato commette un omicidio e dimostra la stessa prontezza del criminale nell’uso della violenza fisica. Alcuni studi hanno non solo dimostrato come il tasso di omicidi sia più alto negli Stati che applicano la pena di morte rispetto a quelli dove questa pratica è stata abolita, ma anche come questo aumenti rapidamente dopo le esecuzioni.

La pena di morte è sinonimo di discriminazione e repressione. 

Nelle mani di regimi autoritari, la pena capitale è uno strumento di minaccia e repressione che riduce al silenzio gli oppositori politici.

La pena di morte non dà necessariamente conforto ai familiari della vittima. 

Lontana dal mitigare il dolore, la lunghezza del processo non fa altro che prolungare la sofferenza dei familiari della vittima, fino alla conclusione dove una vita viene presa per un’altra vita, in una forma di vendetta legalizzata.

La pena di morte può uccidere un innocente. 

Una difesa legale inadeguata, le false testimonianze e le irregolarità commesse da polizia e accusa sono tra i principali fattori che determinano la condanna a morte di un innocente. In alcuni Paesi, il segreto di Stato che circonda la pena capitale impedisce una corretta valutazione di questo fenomeno.

La pena di morte infligge sofferenza ai familiari dei condannati. 

La pena capitale ha effetto sulla famiglia, sugli amici e su tutti coloro che sono vicini al condannato a morte.

La pena di morte nega qualsiasi possibilità di riabilitazione. 

Qualunque sia il metodo scelto per uccidere il condannato, l’uso della pena di morte nega la possibilità di riabilitazione, di riconciliazione e respinge l’umanità della persona che ha commesso un crimine.

La pena di morte non rispetta i valori di tutta l’umanità.

I diritti umani sono universali, indivisibili e interdipendenti. Derivano da molte e diverse tradizioni nel mondo e sono riconosciuti da tutti i membri delle Nazioni Unite come standard verso i quali hanno accettato di conformarsi.

Non posso che condividere tali motivazioni e auspico che, progressivamente, la pena di morte sia abolita in tutto il mondo.

domenica 10 ottobre 2021

Sarà stagflazione?

 

In molti Paesi sviluppati, tra i quali l’Italia, si sta manifestando un aumento dei prezzi, determinato soprattutto dall’aumento dei prezzi dei prodotti energetici e delle materie prime. Alcuni osservatori stanno ipotizzando che potrebbe determinarsi di nuovo un fenomeno che diversi anni fa, negli anni 70 del precedente secolo soprattutto, è avvenuto alcune volte: inflazione e ristagno economico, ristagno delle attività produttive.

Il ristagno economico, l’arrestarsi quindi della crescita del Pil, potrebbe essere causato dal modificarsi delle politiche monetarie delle banche centrali che, per contrastare l’inflazione, potrebbero cessare gli interventi espansivi ed adottare invece politiche restrittive.

Tale scenario non è condiviso da tutti gli economisti, anzi per ora solo una parte di essi lo prevedono.

Ma, nell’ambito delle banche centrali, i “falchi”, coloro che ritengono necessario adottare politiche monetarie restrittive, stanno già sostenendo che tali politiche dovrebbero essere attuate subito.

In realtà, la discussione si sta manifestando circa la natura degli incrementi dei prezzi. Infatti per ora tali aumenti vengono considerati da molti temporanei, determinati da fattori inerenti l’offerta non la domanda, e che nei prossimi mesi dovrebbero esaurirsi.

Ci si attende soprattutto che nei prossimi mesi vi sia una maggiore disponibilità di prodotti energetici che determinerebbe una riduzione dei loro prezzi.

E se la natura degli incrementi dei prezzi fosse davvero temporanea non sarebbe opportuno modificare adesso le politiche monetarie in senso restrittivo e quindi la stagnazione non si verificherebbe.

Io credo che sia valida l’opinione di quanti avvalorano la tesi della natura temporanea degli aumenti dei prezzi in questione.

Può essere utile comunque riportare alcune parti dell’articolo di Rony Hamaui, pubblicato di recente su www.lavoce.info e dedicato a questi temi.

Rony Hamaui rileva soprattutto le differenze tra la situazione attuale e quella che caratterizzo gli anni ’70 del secolo precedente spesso contraddistinto appunto dalla stagflazione.

“La situazione di oggi, tuttavia, sembra per molti aspetti diversa da quella degli anni Settanta.

Da un lato, usciamo dalla più pesante deflazione degli ultimi settanta anni e la ripresa appare vigorosa anche se incerta.

In molti Paesi la capacità occupata rimane ancora sotto i livelli precrisi, mentre è ripartita una nuova fase d’investimenti che è destinata a incrementare l’offerta e aumentare l’efficienza produttiva.

Inoltre, le banche centrali godono, almeno nei paesi avanzati, di un’indipendenza e di una credibilità che certamente non avevano negli anni Settanta.

Dall’altro, oggi i bilanci pubblici, ma anche privati, presentano livelli di debito da economia di guerra, che necessitano non solo di bassi tassi d’interesse e di una forte crescita ma anche di un po’ d’inflazione.

Solo così il debito accumulato risulta sostenibile, soprattutto se rapportato al Pil nominale.

Si spiega così l’imbarazzo delle banche centrali nell’abbandonare gli straordinari stimoli che hanno dovuto adottare per contrastare la peggiore epidemia dell’ultimo secolo, ma ciò pone in discussione la loro effettiva indipendenza.

In fin dei conti, è probabile che non assisteremo a una forte e duratura stagflazione, ma il rischio che l’economia mondiale rallenti e che una moderata inflazione duri più a lungo del voluto è certamente da mettere in conto.

Di qua la necessità del governo Draghi di accelerare le riforme previste dal Recovery Plan e di augurarsi che la Banca centrale europea non legga il suo mandato alla stabilità dei prezzi in maniera rigida”.

giovedì 7 ottobre 2021

L'astensionismo è il risultato più importante


I risultati delle elezioni comunali, svoltesi alcuni giorni fa, in primo luogo quelli dei candidati a sindaco e dei diversi partiti, sono stati oggetto di notevole attenzione da parte dei media. Minore attenzione, anche se superiore a quanto avvenuto in passato, è stata rivolta alla forte crescita dell’astensionismo.

Io credo, invece, che la crescita dell’astensionismo può essere considerata anche più importante degli altri risultati.

Nel complesso hanno votato circa il 55% degli aventi diritto al voto, con una riduzione di oltre il 5% rispetto alle elezioni comunali del 2016 e nelle grandi città hanno votato anche meno del 50% degli elettori.

La crescita dell’astensionismo non è un fenomeno nuovo né contraddistingue solo il nostro Paese.

Ma con le elezioni del 3 e del 4 ottobre si è raggiunto un record, ovviamente negativo.

Indubbiamente vi sono delle cause specifiche e forse non ripetibili in futuro: gli effetti della pandemia ad esempio.

Ma altre cause potranno manifestarsi anche in futuro.

Peraltro, nelle grandi città, l’astensionismo è stato più elevato soprattutto nelle zone con maggiore presenza di ceti popolari.

Il fenomeno dell’astensionismo, inoltre, non può essere interpretato esclusivamente come crisi della politica ma, come alcuni attenti osservatori hanno già rilevato, come crisi della democrazia.

Infatti una vera democrazia ha bisogno di una democrazia rappresentativa il più possibile forte, non debole.

Ci sono anche altre forme di democrazia, ad esempio la democrazia diretta, che, tramite i referendum, sembra avere assunto un maggiore peso, considerando, relativamente ai referendum, il notevole numero di firme raccolte per quelli sull’eutanasia e sulla cannabis, anche se in questi casi ha svolto un ruolo importante la possibilità, per la prima volta, di firmare digitalmente.

Ma la democrazia rappresentativa non può che essere considerata la più importante.

E la principale causa dell’estensione del fenomeno dell’astensionismo è rappresentata dalla crescente crisi di fiducia tra partiti e cittadini, dall’affermarsi di alcuni caratteri negativi nell’ambito degli stessi partiti (perdita di una visione generale, scarso radicamento sul territorio).

Quindi si avverte sempre di più la necessità di procedere ad una riforma dei partiti che, però, non può essere attuata solamente dagli attuali gruppi dirigenti ma che deve essere richiesta, e forse imposta, dagli stessi cittadini.

Potrebbe anche essere utile attuare quella parte della Costituzione che prevedeva l’approvazione di leggi che regolassero le modalità di funzionamento dei partiti, rimasta fino ad ora inattuata.

Per la verità, avvisaglie della profonda crisi che caratterizza i partiti in Italia da tempo si erano manifestate. L’esempio più evidente il loro “commissariamento” con la nascita del governo presieduto da Mario Draghi.

Ma non si può continuare in questo modo.

Attendere, passivamente, che, elezione dopo elezione, l’astensionismo si accresca sempre di più. A quel punto la crisi della democrazia, connessa, come già ho notato, a quel fenomeno, diventerebbe ancora più preoccupante di quanto non lo sia già.

Quindi affrontare con decisione la crisi dei partiti, tramite una loro profonda riforma, è, senza dubbio, un obiettivo prioritario da perseguire, relativamente al sistema politico italiano.

domenica 3 ottobre 2021

I magistrati sempre meno credibili

 

La pesante e apparentemente ingiustificata sentenza nei confronti di Mimmo Lucano rende, a mio avviso, sempre meno credibile una parte almeno, però piuttosto consistente, dei magistrati italiani. A tale conclusione si perviene anche considerando il ruolo più che criticabile assunto dalle “correnti” dei magistrati per la scelta degli incarichi nelle diverse procure e tribunali. Poi, va considerata 888l’inefficienza che si riscontra in una parte dei tribunali.

In passato, soprattutto nel periodo di “Mani pulite”, la magistratura riscuoteva una grande credito nell’opinione pubblica italiana.

Molti la ritenevano l’istituzione più credibile fra tutte le altre, a cui facevano affidamento parti rilevanti della società italiana. Tanto che si sosteneva che la magistratura si era assunta, di fatto, un potere sostitutivo nei confronti soprattutto della politica, svolgendo alcuni compiti che non avrebbe dovuto svolgere ma che era costretta a svolgere.

Con il passare degli anni, le critiche nei confronti dei magistrati sono, progressivamente e fortemente, aumentate.

A parte alcune sentenze, come quella nei confronti di Mimmo Lucano, molto discutibili, devastante è stato il trasformarsi delle “correnti” dei magistrati in centri di potere la cui funzione, pressocchè esclusiva, era quella di esercitare pressioni affinchè i loro aderenti assumessero incarichi di notevole rilievo nelle procure e nei tribunali, anche perché una parte dei componenti del Csm, il Consiglio superiore della magistratura, sono magistrati che fanno riferimento ai vertici delle “correnti” di appartenenza.

Le “correnti” dei magistrati, infatti, con il tempo hanno perso la loro iniziale connotazione ideale, che le distinguevano fra di esse per una diversa concezione del ruolo e degli obiettivi della magistratura, per diventare appunto soprattutto, se non esclusivamente, centri di potere, tendenti a favorire i loro aderenti.

L’inchiesta che ha visto al centro Luca Palamara è stata, a tale proposito, emblematica.

Inoltre, parte delle inefficienze dei tribunali sono addebitabili ai singoli magistrati, altrimenti non si comprenderebbe perché i tempi della giustizia siano molto diversi nei vari tribunali che operano in Italia.

Poi, i magistrati delle cosiddette supreme corti quali la Corte di Cassazione, il Consiglio di Stato, ad esempio, godono di privilegi, economici e nono solo, indubbiamente eccessivi.

Quanto la già approvata riforma della giustizia penale e quella che, nei prossimi mesi dovrà essere varata, della giustizia civile quanto modificheranno in meglio l’operato dei magistrati italiani rendendoli più credibili?

Staremo a vedere.

Quello che è certo è che attualmente la credibilità dei magistrati italiani si è fortemente ridotta e che sarebbe necessario anche un processo di autoriforma da parte loro.

mercoledì 29 settembre 2021

La scuola media allo sfascio?

 

La scuola media inferiore è contraddistinta da una situazione di grave crisi. Lo sostiene il rapporto scuola media 21 redatto dalla fondazione Agnelli. E rispetto a dieci anni fa la situazione non è migliorata. Gli apprendimenti restano insoddisfacenti, i divari territoriali e le disuguaglianze sociali sono ancora più evidenti, i docenti non sono meglio formati né la didattica è stata rinnovata, rimanendo molto tradizionale.

Nel 2011 fu realizzato il primo rapporto della fondazione Agnelli sullo stato di salute della scuola media che già rilevava l’esistenza d diversi problemi.

Quali i principali risultati del rapporto del 2021?

La qualità degli apprendimenti degli allievi di secondaria di primo grado resta critica, inferiore non solo a gran parte degli altri Paesi avanzati, ma anche ai livelli che ci si poteva attendere sulla base dei risultati alla primaria.

Il rapporto segnala, ad esempio, come nelle ultime rilevazioni internazionali Timss (matematica e scienze) gli apprendimenti in matematica degli studenti italiani siano sempre ampiamente sopra la media internazionale in IV primaria, ma in III media scendano decisamente al di sotto.

“Le disuguaglianze dovute all’origine socio-culturale, misurate in base al titolo di studio dei genitori - ha spiegato Barbara Romano che ha curato il rapporto - sono ben visibili già alla scuola primaria, con una differenza in media di 26 punti tra uno studente figlio di laureati e uno studente i cui genitori hanno la licenza elementare.

Ma poi deflagrano alla scuola media, arrivando fino a 46 punti, che equivalgono, alla fine del ciclo, a una differenza di quasi tre anni di scuola”.

I divari territoriali, che la primaria riesce a contenere, nella scuola media esplodono più che in passato, prevalentemente nelle regioni meridionali

A differenza di 10 anni fa, si manifestano anche i divari di apprendimento che penalizzano gli studenti di origine straniera rispetto ai loro pari con genitori italiani.

Stabili rispetto alla primaria sono, invece, le differenze di genere, con le ragazze indietro rispetto ai ragazzi in matematica e scienza: nel corso del tempo le distanze si sono ridotte, ma soltanto per via di un più consistente peggioramento dei maschi.

Il rapporto dà, inoltre, evidenza di quanto conti un orientamento ben fatto e ben recepito da ragazzi e famiglie per scelte più consapevoli: i dati di ricerca mostrano che quando gli studenti scelgono gli indirizzi formativi che più rispondono alle proprie competenze e interessi, seguendo i consigli orientativi che derivano anche da prove psicoattitudinali, la probabilità di essere bocciati al primo anno delle superiori si riduce considerevolmente, mentre è quasi doppia per chi non segue il consiglio orientativo.

Le difficoltà degli studenti in larga misura si spiegano con quelle dei loro docenti: molti problemi che già 10 anni fa ostacolavano i docenti di scuola media risultano, infatti, confermate o aggravate.

Nell’a.s. 2020-21 erano 202.000 i docenti della secondaria di I grado (a tempo indeterminato e determinato), circa il 13% in più del 2011 (nello stesso periodo la popolazione studentesca alle medie è scesa del 3%).

Poiché il numero di docenti di ruolo è rimasto quasi invariato (144.000 nel 2011, l’anno scorso poco più di 142.000), l’incremento si deve interamente alla crescita dei docenti precari: gli incarichi annuali o “fine al termine delle attività didattiche” erano circa 35.000 (19%), l’anno scorso quasi 60.000 (30%).

In particolare, nell’a.s. 2020-21 era drammatica la percentuale di precari nel sostegno (60% del totale del sostegno).

A dispetto delle attese, nonostante le numerose assunzioni in ruolo della legge della Buona Scuola del 2015 e il recente aumento dei pensionamenti, non si è verificato in questi anni il ringiovanimento dei docenti di ruolo della secondaria di I grado che auspicavamo nello scorso rapporto: l’età media era poco più di 52 anni nel 2011, ora è poco meno. Mentre 1 docente su 6 ha 60 anni e oltre, coloro che vanno in cattedra prima di 30 anni sono invece un minuscolo drappello: 1 su 100.

La scuola media, inoltre, è anche il grado più soggetto alla “giostra degli insegnanti”: da un anno all’altro soltanto il 67% dei docenti rimane nella stessa scuola (83% nella primaria, 75% nelle superiori, dati dell’a.s. 2017-18), con le prevedibili conseguenze negative per la qualità didattica.

I limiti della formazione ricevuta dagli insegnanti della scuola media per quanto riguarda la didattica e la pratica d’aula sono rivelati anche da alcuni dati di ricerca, che mostrano come - sebbene non sistematicamente - spesso essi siano meno efficaci dei colleghi della primaria nelle strategie didattiche, come pure nella creazione di un clima in classe favorevole agli apprendimenti e alla crescita personale.

Le proposte della fondazione Agnelli quali sono?

In primo luogo, occorre lavorare sugli insegnanti, valorizzandoli, e sulla qualità dell’insegnamento.

Servono percorsi di formazione iniziale per la secondaria con un forte orientamento alla didattica, a partire da una laurea magistrale per l’insegnamento; qualsiasi direzione prenda la riforma del reclutamento, criteri di abilitazione molto selettivi con prove pratiche per valutare le competenze didattiche; formazione in servizio obbligatoria, che comprenda un costante aggiornamento dei metodi di insegnamento e una periodica valutazione; miglioramento dello status professionale e delle motivazioni dei docenti (incentivi di carriera e retribuzioni), anche per attirare verso l’insegnamento i migliori laureati.

In secondo luogo, la didattica va modellata sulle esigenze specifiche della scuola media.

Intanto, con metodologie più coerenti all’evoluzione cognitiva ed emotiva degli adolescenti (gruppi di apprendimento fra pari, strategie metacognitive); inoltre, pensando la scuola media come percorso di orientamento al futuro, con strumenti e metodologie didattiche che favoriscano la scoperta e la valorizzazione delle inclinazioni personali, dando indicazioni per le scelte successive (apprendimento per mezzo di progetti individuali, didattica per compiti di realtà, apprendimento socioemotivo).

Infine, si ritiene necessaria un’estensione del tempo scuola alla secondaria di I grado, con la scuola del pomeriggio come scelta ordinamentale.

Tempi più lunghi e distesi favoriscono le pratiche didattiche orientate a percorsi di apprendimento individualizzati e quelle attività (sportive, artistiche ed espressive, musicali, applicative, laboratoriali) fondamentali anche per lo sviluppo di competenze non cognitive.

Ripensare la secondaria di I grado è dunque un’altra delle priorità che il nostro sistema d’istruzione dovrà affrontare con le risorse del Pnrr dopo che la pandemia ne ha messo in luce criticità antiche e gravi?

“Pensiamo che oggi per la scuola ci sia una sola priorità, che riassume tutte le altre: fare crescere gli apprendimenti dei ragazzi – ha spiegato Andrea Gavosto, il direttore della fondazione Agnelli - .

Il riscatto degli apprendimenti è allora ovviamente fondamentale nella scuola media, dove esplodono divari e disuguaglianze.

Le politiche di cui si parla nel Pnrr vanno per forza declinate nel grado scolastico più in difficoltà: in particolare, l’orientamento, la formazione e il reclutamento dei docenti, la didattica, proprio le aree di intervento che abbiamo indicato”.

 “Oggi apprendimenti inadeguati nella secondaria di I grado possono condizionare in modo decisivo il futuro di un ragazzo - ha concluso Gavosto - forse ancora di più che negli altri gradi scolastici, tenendo conto del momento focale di sviluppo cognitivo ed emotivo dei ragazzi a quell’età. Non si può lasciare la scuola media ancora indietro”.

Non posso che condividere le proposte avanzate dalla fondazione Agnelli.

Sono però molto scettico sulla possibilità che esse siano accolte. Lo stesso “Recovery Plan” solo in minima parte sarà in grado di affrontare i problemi che contraddistinguono la scuola media.

E, come ho già rilevato in un precedente post, la situazione critica in cui si trova la scuola media dipende principalmente dal fatto che la scuola, il sistema formativo più in generale, non rappresenta, da tempo, una priorità per le istituzioni, sia amministrative che politiche.