giovedì 27 febbraio 2020

Conclusa la conferenza nazionale sulla sordità



Si è conclusa a Napoli la terza conferenza nazionale sulla sordità, organizzata dall’Ente nazionale sordi con il patrocinio della Regione Campania. In tre giorni di incontri e relazioni, è stato fornito, a dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Verona, un quadro scientifico aggiornato sulla sordità, dal punto di vista medico, riabilitativo, didattico, sociale e assistenziale. E si è guardato, naturalmente, al futuro, delineando le nuove prospettive tra progresso scientifico e tutela sociale.  

In un articolo pubblicato su www.superabile.it ci si occupa di tale conferenza.

Si è parlato di screening, diagnosi, prevenzione, lingua dei segni, bilinguismo bimodale, prospettive riabilitative per i bambini sordi, ricerche genetiche sulla sordità, tecnologie assistite, interventi e ausili, come l’impianto cocleare, le protesi impiantabili e le protesi acustiche, e la possibile convivenza e cooperazione tra Ic e lingua dei segni.

“Con questa manifestazione - ha commentato il presidente nazionale Ens Giuseppe Petrucci - abbiamo voluto far emergere tutte le sfaccettature della comunità sorda, la complessità e la multidimensionalità della sordità e la necessità di adottare un approccio integrato.

Perché la reale inclusione - ha concluso Petrucci - non passa da pregiudizi o inutili antagonismi, ma da una corretta e continua informazione, dal mettere al centro di tutto la persona nella sua unicità e globalità e dal garantire alle cittadine e ai cittadini sordi tutti i percorsi, gli strumenti e le scelte comunicative per crescere in autonomia, autodeterminarsi e realizzare pienamente se stessi”.

Tante le autorità che hanno voluto essere presenti per dare il proprio contributo alla manifestazione.

Prima dell’inizio dei lavori ci ha tenuto a salutare tutti i presenti il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, che ha dimostrato ancora una volta grande vicinanza alla comunità sorda e alle sue battaglie: "Ci tenevo particolarmente ad essere qui, per affrontare i problemi delle persone con disabilità bisogna avere un sistema di valori e un’idea di società, nella testa e nel cuore, che rispetti in primo luogo le persone più deboli.

Il grado di civiltà di una comunità si misura dal modo in cui si riescono ad affrontare questi problemi. Abbiamo già raddoppiato gli investimenti in politiche sociali in questi anni, ma vogliamo fare sempre di più per combattere il disagio sociale; oggi la nostra priorità è l'inserimento lavorativo delle persone sorde”.

Durante la sessione mattutina della seconda giornata della conferenza, invece, è salito sul palco Giuseppe Recinto, consigliere del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte in tema di disabilità, che ha parlato del riconoscimento della lingua dei segni italiana: “E’ necessaria la collaborazione, il dialogo e il confronto tra tutti i soggetti coinvolti, dalle associazioni come l’Ens ai tecnici fino ai politici.

Iniziative come questa - ha continuato Recinto - sono fondamentali per raggiungere i nostri obiettivi di civiltà e uguaglianza, come il riconoscimento della lingua dei segni italiana. Garantisco la massima determinazione e impegno da parte del Governo per arrivare alla legge che garantirebbe i diritti di cittadinanza delle persone sorde. E’ necessario un approccio privo di colorazione politica”.

Presente anche il ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi: “Oggi abbiamo davanti a noi una grande sfida, quella di abbattere tutte le barriere che le persone sorde incontrano nello studio e nel lavoro, la piena inclusione passa da qui.

Il nostro obiettivo è raggiungere la parità di accesso, non la facilitazione, che permetta agli studenti sordi di raggiungere i massimi livelli di formazione; per far questo potenzieremo nei prossimi mesi gli strumenti di supporto già esistenti nelle nostre università e  investiremo in strumenti didattici innovativi.

Inoltre, di concerto con il ministero della Salute, vogliamo rivedere i percorsi di laurea per professioni sanitarie per aggiornarle all'uso delle nuove tecnologie e competenze. Garantisco - ha concluso il ministro - il massimo impegno su questo tema da parte mia, del Governo e del Presidente Giuseppe Conte, fondamentale il dialogo con tutte le parti coinvolte, come stiamo facendo in questa occasione con l’Ens, per arrivare al migliore risultato possibile, per il bene comune”.

All’ultima sessione della conferenza ha preso parte anche l’onorevole Augusta Montaruoli, prima firmataria dell’ennesima proposta di legge sul riconoscimento della lingua dei segni italiana: “Sono qui per studiare, raccogliere spunti e portarli alla Camera dei deputati, a marzo è previsto l'inizio delle audizioni.

E’ necessario un cambio culturale e una nuova sensibilità per andare oltre i pregiudizi ed arrivare a una legge di civiltà. La lingua dei segni è un diritto e un supporto incredibile che non metterà mai ostacolo ai progressi della medicina, io lo so perché ho vissuto la sordità in famiglia, ma il Parlamento no”.

lunedì 24 febbraio 2020

In Afghanistan essere bambini è pericoloso



In Afghanistan il numero di bambini che avrà bisogno di assistenza umanitaria nel 2020 è salito del 40% rispetto allo scorso anno; ciò significa che 1,5 milioni di minori in più avranno bisogno di supporto per sopravvivere. Questa la denuncia di Save the Children, che sottolinea come 18 lunghi anni di conflitto abbiano trasformato l'Afghanistan in uno dei posti peggiori al mondo dove essere bambini.

Nell’anno in corso, specifica Save the Children, altre 3,1 milioni di persone, più della metà delle quali minori, necessiteranno di assistenza umanitaria in un Paese in cui, negli ultimi due anni, la sicurezza è peggiorata notevolmente e il numero di bambini uccisi e mutilati ha raggiunto il suo record.

Secondo le Nazioni Unite, nei primi nove mesi del 2019, i bambini hanno rappresentato il 77% delle vittime civili a causa di armi esplosive.

Questo quotidiano rischio mortale ha un profondo impatto sulla salute mentale dei più piccoli che spesso sono testimoni di atti di estrema violenza e devono affrontare lesioni traumatiche che spesso hanno ripercussioni gravissime sulla loro vita.

Infatti, oggi nel Paese 1 persona su 10 vive con disabilità fisiche.

Una recente analisi di Save the Children ha inoltre rilevato che due terzi dei genitori intervistati in alcune parti dell'Afghanistan hanno affermato che i loro figli hanno paura delle esplosioni, dei rapimenti o di altre forme di violenza durante il tragitto per andare a scuola.

Queste testimonianze danno la misura di quanto i bambini afgani vivano nella paura costante di perdere la vita, senza il necessario sostegno per affrontare questi traumi.

Rischi differenti a seconda che si tratti di bambini o bambine.

Come messo in evidenza nel nuovo rapporto “Stop alla guerra sui bambini” diffuso la scorsa settimana da Save the Children, le ragazze nelle aree colpite dai conflitti corrono infatti rischi molto più elevati di essere vittime di violenza sessuale e di genere, gravidanze e matrimoni precoci forzati.

In tutti i casi verificati di violenza sessuale contro i minori in aree di conflitto, 9 volte su 10 sono proprio le ragazze ad esserne vittime.

I ragazzi hanno invece molte più probabilità di essere esposti ad uccisioni e mutilazioni, rapimenti e reclutamento nei gruppi armati.

“Rispetto ad altre emergenze globali, dopo oltre 18 anni di conflitto l’Afghanistan rimane un Paese dimenticato nonostante le decine di migliaia di morti tra i civili e il fallimento di molteplici tentativi per arrivare alla pace.

I bambini nati e cresciuti qui non hanno conosciuto altro che la guerra nella loro vita, hanno paura di andare a scuola e sono a rischio continuo di abusi e sfruttamento.

I bambini afgani non hanno accesso all'assistenza sanitaria di base e ad un'istruzione di qualità, per non parlare del supporto psicologico di cui hanno bisogno per superare tutto ciò che hanno dovuto subire”, ha dichiarato Onno van Manen, direttore di Save the Children in Afghanistan. 

“I bambini afgani hanno il diritto di vivere al sicuro, di essere protetti e di crescere come ogni bambino dovrebbe, purtroppo però i loro diritti fondamentali continuano ad essere calpestati.

Dobbiamo offrire loro un futuro libero dalla violenza e dalla paura e per questo Save the Children sta intensificando le sue attività in tutto il Paese per rispondere a questa terribile situazione”, ha proseguito Onno van Manen.

giovedì 20 febbraio 2020

Ragazzi sempre più prede del web



Facili prede delle fake news, sempre più vittime di adescamenti, impegnati nelle relazioni amorose virtuali e in ansia quando non sono connessi, al punto di preferire lo smartphone alle ore di sonno. E' il ritratto dei nativi digitali, che emerge dallo studio “La dieta cyber dei nostri figli” condotto dal docente di cyber-psicologia all'Università europea di Roma, Tonino Cantelmi, e presentata dal Moige (movimento italiano genitori).

Secondo l'indagine - effettuata su un campione di 2.778 bambini e adolescenti di scuola elementare, media e superiore fino ai 22 anni e con un'età media di 13 anni e mezzo - un ragazzo su due ha creduto almeno una volta ad una fake news sui social mentre solo il 18% verifica la fonte.

E gli adolescenti sono sempre più dipendenti dal web: il 40,5% va in ansia se non è connesso, il 24,8% (1 su 4) rinuncia alle ore di sonno per rimanere connesso, mentre il 40% (quasi 1 su 2) prova un senso di delusione per l'assenza di like e richieste di amicizia.

Numeri allarmanti, ma che non dovrebbero sorprendere se si pensa che il 22% dei ragazzi possiede almeno cinque “devices” tra computer, tablet, pc portatile, smartphone e console.

Solo l'1,4% dei ragazzi non ha una connessione internet.

L'incapacità di separarsene viene confermata dal fatto che la maggior parte dei ragazzi (56,3%) porta con sé e non spegne il cellulare anche nei luoghi dove sa di non poterlo utilizzare. Il 70,5% dice di non aver mai o raramente vissuto l'esperienza di stare un giorno intero senza il cellulare.

Anche le relazioni amorose si trasformano e diventano “connesse”: il 34,3% dei ragazzi ha almeno una volta iniziato una relazione su internet (al 3,8% di loro è addirittura capitato sempre).

In molti sperimentano e costruiscono una nuova identità, diversa da quella reale: il 44,5% sostiene di aver utilizzato, almeno una volta, un'identità virtuale diversa dalla propria, vissuta come più glamour ed amabile di quella reale.

Immagini, video e post che vengono pubblicati spesso senza immaginare le conseguenze di quanto resta in rete: il 48,3% è solito condividere foto di se stesso attraverso il proprio smartphone, in prevalenza le ragazze (32%), mentre i ragazzi prediligono la condivisione di altri tipi di foto (19%).

Le dipendenze e i vuoti colmati con il web espongono i ragazzi alle insidie che si annidano su internet: il 71,2% (7 su 10) ha accettato l'amicizia di un estraneo sui social, almeno una volta. Il 21% dichiara di aver incontrato personalmente estranei conosciuti on line e l'8,1% ha scambiato foto personali.

E aumentano del 18% i casi trattati dalla Polizia postale che vedono vittima sulla rete un minorenne: sono state 460 le vittime nel 2019, di cui 52 di età inferiore a 9 anni.

E raddoppiano i casi di detenzione e diffusione di materiale pedopornografico.

lunedì 17 febbraio 2020

La repressione del dissenso in Arabia Saudita



Il Tribunale speciale, in Arabia Saudita, è utilizzato come un’arma per ridurre sistematicamente al silenzio il dissenso. La denuncia è contenuta in una ricerca di Amnesty International, basata sull’analisi dei casi di 95 persone, per lo più uomini, processate, condannate o rinviate a giudizio tra il 2011 e il 2019.

Il Tribunale speciale  è stato istituito nell’ottobre 2008 per processare imputati di reati di terrorismo. 

Dal 2011 è stato sistematicamente usato per giudicare persone incriminate in modo del tutto vago di reati di terrorismo che spesso non sono altro che pacifiche azioni politiche.

Grazie al lavoro di ricerca di Amnesty International, sono stati esaminati accuratamente gli atti giudiziari di 8 processi del Tribunale speciale che hanno riguardato 68 imputati della minoranza scita, incriminati per lo più di aver preso parte a proteste antigovernative, e altre 27 persone  processate per l’espressione pacifica delle loro idee e per il loro attivismo in favore dei diritti umani.

Rispetto a ognuno dei 95 imputati i processi sono stati gravemente irregolari.

Le condanne, in molti casi alla pena capitale, sono state inflitte sulla base di accuse vaghe  legate alla criminalizzazione dell’opposizione politica o per fatti di violenza.

Ogni singolo imputato nei processi esaminati non ha potuto disporre di un avvocato dal momento dell’arresto e per tutti gli interrogatori.

Gli appelli contro le sentenze del Tribunale speciale si svolgono a porte chiuse in assenza degli imputati e degli avvocati.

Uno degli aspetti più sconvolgenti è l’utilizzo delle “confessioni” estorte con la tortura.

Almeno 20 sciiti processati dal Tribunale speciale sono stati condannati a morte sulla base di tali “confessioni” e 17 condanne sono state già eseguite.

La retorica governativa sulle riforme, aumentata dopo la nomina del principe della corona Mohammed Bin Salam, è profondamente in contrasto con la situazione reale dei diritti umani nel Paese.

Proprio mentre introducevano provvedimenti in favore dei diritti delle donne, le autorità avviavano un duro giro di vite nei confronti delle attiviste più note che per anni avevano lottato per quelle riforme e di altri cittadini che spingevano per un cambiamento.

Praticamente tutte le voci indipendenti dell’Arabia Saudita (difensori dei diritti umani, scrittori, esponenti religiosi e altri ancora) stanno scontando lunghe condanne inflitte a partire dal 2011 dal Tribunale speciale o da altre corti oppure sono sotto processo per accuse relative alle loro attività pacifiche.

Il Tribunale speciale ha condannato tutti i fondatori dei gruppi indipendenti per i diritti umani, sciolti nel 2013.
Dal 2011 oltre 100 sciiti sono stati processati dal Tribunale speciale per aver criticato pacificamente il governo nel corso di interventi pubblici o tramite i social media e per aver preso parte a proteste antigovernative.

Erano accusati, in modo generico e vago, di aver organizzato o sostenuto proteste, aver preso parte ad azioni violente o aver spiato in favore dell’Iran.

Il Tribunale sociale ha anche condannato a morte diversi imputati per reati commessi quando erano minorenni a seguito di “confessioni” estorte con la tortura o sotto costrizione. Alcune condanne a morte sono state eseguite.

Amnesty International sollecita l’immediato e incondizionato rilascio di tutti i prigionieri di coscienza e l’introduzione di riforme fondamentali delle procedure del Tribunale speciale in modo che possa condurre processi equi e tutelare gli imputati dalla detenzione arbitraria e dalla tortura.

Chiede anche l’avvio di indagini indipendenti sulle denunce di maltrattamenti e torture in carcere e che sia fornita piena riparazione alle vittime della tortura e di altre violazioni dei diritti umani commesse da funzionari dello stato o da altri su loro comando.

giovedì 13 febbraio 2020

In aumento gli alunni con disabilità



E’ stato recentemente reso noto lo studio dell’Istat. “L’inclusione scolastica degli alunni con disabilità nell’anno scolastico 2018-2019”. Si conferma l’aumento del numero di alunni con disabilità (+10.000) che frequentano le scuole italiane (3,3% del totale degli iscritti). Scarsa l’accessibilità per gli alunni con disabilità motoria, soltanto nel 15% degli edifici scolastici sono stati effettuati lavori per abbattere barriere architettoniche. Il rapporto alunno-insegnante per il sostegno è migliore delle previsioni di legge, ma è carente la formazione: un insegnante su 3 è selezionato dalle liste curriculari.

Nell’anno scolastico 2018/2019 gli alunni con disabilità che frequentano la scuola primaria e secondaria di primo grado erano poco più di 177.000.

Notevoli le differenze in termini di genere: gli alunni con disabilità erano prevalentemente maschi, 212 ogni 100 femmine.

Il problema più frequente era la disabilità intellettiva (42% degli studenti con sostegno), seguivano i disturbi dello sviluppo (26,4%), meno diffusi i problemi sensoriali (8%).

Il 40% degli alunni con disabilità aveva più di un problema di salute. Questa condizione era più frequente tra gli alunni con disabilità intellettiva che vivevano una condizione di pluridisabilità nel 51% dei casi.

Con riferimento alla tipologia di problema, negli ultimi 5 anni sono aumentati gli alunni con disturbo dell’attenzione, del linguaggio e dello sviluppo; questi ultimi hanno subìto l’incremento maggiore, passando dal 17% al 26,4%.

Nell’anno scolastico 2018/2019, gli insegnanti per il sostegno nelle scuole italiane erano quasi 173.000.

A livello nazionale il rapporto alunno-insegnante (pari a 1,6 alunni ogni insegnante per il sostegno) era migliore di quello previsto dalla legge 244/2007 che prevede un valore pari 2.

Tuttavia mancavano gli insegnanti specializzati e il 36% dei docenti per il sostegno veniva selezionato dalle liste curriculari; sono docenti che rispondono ad una domanda di sostegno non soddisfatta, ma non hanno una formazione specifica per supportare al meglio l’alunno con disabilità.

Il numero medio di ore settimanali di sostegno fruite da ciascun alunno del primo ciclo ammontava a 14,1: il confronto tra i due ordini scolastici mette in evidenza una maggiore dotazione nella scuola primaria (15,4 ore) rispetto alla scuola secondaria di primo grado (12,3).

A livello territoriale si osservavano differenze per entrambi gli ordini scolastici, con un numero di ore maggiore nelle scuole del Mezzogiorno: mediamente 2 ore settimanali in più rispetto a quelle rilevate nelle scuole del Nord.

Negli ultimi cinque anni le ore di sostegno settimanali hanno subito un incremento del 18% (2,1 ore in più a settimana per entrambi gli ordini scolastici).

L’incremento si osservava su tutto il territorio, ma era più elevato nelle regioni del Nord dove superava il 22% (2,3 ore in più a settimana) ed era minimo nel Mezzogiorno (11%, 1,6 ore in più) che però partiva da valori più elevati.

I bisogni degli alunni non sembravano soddisfatti dall’offerta di sostegno: quasi il 6% delle famiglie ha presentato ricorso al Tar, ritenendo l’assegnazione delle ore non idonea.

Nel Mezzogiorno i ricorsi raggiungevano una quota doppia rispetto al valore nazionale (10,2%) mentre nel Nord scendeva a 2,7%.

Un’ulteriore criticità riguardava la discontinuità nel rapporto tra docente per il sostegno e alunno a causa dei numerosi cambi d’insegnante che avvenivano non solo nel corso dell’anno, ma durante l’intero ciclo scolastico.

Una quota non trascurabile di alunni, il 10%, ha cambiato insegnante per il sostegno nel corso dell’anno scolastico. Questa situazione si verificava più spesso nelle scuole primarie del Nord, dove la percentuale saliva al 12%.

Gli alunni con limitazioni nell’autonomia disponevano mediamente di 8,9 ore settimanali di presenza di un assistente all’autonomia e alla comunicazione, per i più gravi le ore medie salivano a 11,5.

Nelle scuole italiane gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione (assistente ad personam) che affiancano gli insegnanti per il sostegno, erano poco meno di 54.000 (19 per 100 alunni con disabilità).

Si tratta di operatori specializzati, finanziati dagli enti locali, la cui presenza può migliorare molto la qualità dell’azione formativa facilitando la comunicazione dello studente con disabilità e stimolando lo sviluppo delle abilità nelle diverse dimensioni della sua autonomia.

A livello nazionale il rapporto alunno/assistente era pari a 4,8; nel Mezzogiorno era pari 5,8.

La domanda di assistenza non era totalmente soddisfatta: il 5,7% degli alunni con disabilità avrebbe avuto bisogno del supporto di questa figura professionale, ma non ne usufruiva. Tale quota saliva al 7,3% nelle scuole del Mezzogiorno mentre diminuiva nel Centro al 4%.

Nell’anno scolastico 2018-2019 erano ancora troppe le barriere fisiche presenti nelle scuole italiane: solamente una scuola su 3 risultava accessibile per gli alunni con disabilità motoria.

La situazione appariva migliore nel Nord del Paese dove si registravano valori superiori alla media nazionale (38% di scuole a norma) mentre peggiorava, raggiungendo i livelli più bassi, nel Mezzogiorno (29%).

lunedì 10 febbraio 2020

200 milioni le donne con mutilazioni genitali



Oggi, nel mondo, almeno 200 milioni di donne e ragazze sono state sottoposte a mutilazioni genitali femminili, uno degli atti di violenza di genere più disumani al mondo. E nella giornata internazionale della tolleranza zero contro tali mutilazioni, tre agenzie dell’Onu, Unicef, Unfpa, Un-Women, hanno riaffermato il loro impegno a porre fine a questa violazione dei diritti umani.

I rappresentanti delle tre agenzie hanno redatto, a tale proposito, un breve documento.

“Questo impegno è importante perché le  mutilazioni genitali femminili causano conseguenze fisiche, psicologiche e sociali di lungo periodo. 

Esse violano i diritti delle donne alla salute sessuale e riproduttiva, all'integrità fisica, alla non discriminazione e alla libertà da trattamenti crudeli e umilianti. 

Rappresentano inoltre una violazione dell’etica medica: le mutilazioni genitali femminili non sono mai sicure, non importa chi sia a praticarle e quanto sia pulito il luogo in cui vengono effettuate.

Almeno 200 milioni di ragazze e donne vivono oggi nel mondo con le cicatrici di qualche forma di mutilazione genitale subìta nel corso della propria vita.

Altri 68 milioni di ragazze subiranno queste mutilazioni di qui al 2030 se non vi sarà una forte accelerazione nell'impegno per porre fine a questa pratica tradizionale. 

Oltre 20 milioni di donne e ragazze in 7 Stati (Egitto, Sudan, Guinea, Gibuti, Kenia, Yemen e Nigeria) sono state sottoposte a questa pratica per mano di un operatore sanitario.

Medicalizzare le mutilazioni non significa renderle più sicure, perché si tratta sempre della rimozione o del danneggiamento di tessuti sani e normali, interferendo con le funzioni naturali del corpo di una bambina, di una ragazza o di una donna.

Dato che la mutilazione genitale femminile è una forma di violenza di genere, non possiamo contrastarle in modo isolato rispetto alle altre forme di violenza contro le donne e le ragazze o ad altre pratiche nocive come i matrimoni precoci o forzati. 

Per porre fine alle mutilazioni genitali femminili, si deve affrontare affrontare alla radice il problema della disuguaglianza di genere e lavorare per l' “empowerment”  sociale ed economico delle donne.

Nel 2015, i leader del mondo sono convenuti sull'urgenza dell’eliminazione delle mutilazioni, inserendola tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile per il 2030.  

E’ un traguardo raggiungibile, ma si deve agire immediatamente se si vuole che questo impegno politico si traduca in risultati concreti.

A livello dei singoli Stati, servono nuove politiche e leggi che tutelino il diritto delle ragazze e delle donne a vivere libere da violenza e discriminazione.

I governi degli Stati in cui le mutilazioni sono ancora diffuse devono sviluppare dei piani di azione nazionali per porre fine a questa pratica.

Per essere efficaci, questi piani devono prevedere però risorse di bilancio dedicate ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva, all’istruzione femminile, al welfare e ai servizi legali.

A livello di cooperazione regionale, occorre che le istituzioni e le comunità economiche sovranazionali collaborino per prevenire i trasferimenti di donne e ragazze verso Paesi con leggi meno restrittive in materia di mutilazioni genitali femminili.

A livello locale, c’è bisogno di leader religiosi che smontino il mito secondo cui le mutilazioni genitali femminili hanno una base religiosa.

Dato che spesso sono le pressioni sociali a mantenere viva questa tradizione, è cruciale che individui e famiglie ricevano maggiori informazioni sui benefici dell’abbandono di questa pratica.

Le manifestazioni pubbliche della promessa di abbandonare le mutilazioni genitali femminili - in particolare quelli promossi da intere comunità - sono un modello concreto di impegno sociale.

Ma tale impegno deve essere abbinato a una strategia più ampia per contrastare le norme sociali, le pratiche e i comportamenti che giustificano le mutilazioni.

Campagne di sensibilizzazione e l'uso dei social media possono amplificare il messaggio secondo cui porre fine alle mutilazioni genitali femminili salva e migliora le vite.

Grazie all’azione collettiva di governi, società civile, comunità e individui, le mutilazioni genitali femminili sono in declino.

Ma noi non puntiamo soltanto a ridurre il numero di casi. Noi vogliamo arrivare a zero”.

giovedì 6 febbraio 2020

I giovani rassegnati per il loro futuro


“Un buco nero nella forza lavoro”, una ricerca promossa dal Laboratorio Futuro dell’istituto Toniolo e curata da Alessandro Rosina e Mirko Altimari dell’Università Cattolica, fornisce un’approfondita analisi del futuro lavorativo dei giovani italiani, esaminando soprattutto gli effetti della congiunzione negativa di riduzione demografica e deboli percorsi professionali.

Particolarmente interessante mi è sembrata la parte dello studio riguardante l’atteggiamento verso il futuro lavorativo manifestato dai giovani, componenti il campione utilizzato, che sono stati intervistati da chi ha curato la ricerca.

E’ stata riscontrata una rassegnazione crescente.

Particolarmente marcato è l’effetto del titolo di studio.

Chi teme di doversi rassegnare a trovarsi al centro della vita adulta senza lavoro è tre volte tanto tra chi ha titolo di studio basso rispetto ai laureati.

Questo divario è ancor più preoccupante se si pensa che il tasso di laureati in Italia è tra i più bassi in Europa e crescente è il saldo netto dei giovani più qualificati verso l’estero.

Più contenute, pur sensibili, appaiono le differenze di genere (si passa dal 23,3% dei maschi al 27,7 delle donne).

Anche le aspettative legate alla qualità del lavoro sono fortemente legate all’età e al titolo di studio.

Quelli che pensano di trovarsi realizzati nell’attività che faranno sono oltre il 40% dei laureati e oltre il 45% di chi ha poco più di vent’anni (generazione Z).

Si precipita a valori dimezzati tra chi ha titolo basso e tra chi ha attorno i 30 anni (millennials).

L’Italia, quindi, non solo si trova con meno giovani, ma anche con rassegnazione crescente con l’età della possibilità di trovare un impiego e vedersi adeguatamente valorizzati.

Inoltre, la grande maggioranza dei giovani intervistati, in questo caso senza rilevanti distinzioni di età e di genere, considera in ogni caso un limite per l’idea di sé e i progetti di piena realizzazione personale il trovarsi a 45 anni senza un lavoro.

Che non vi siano distinzione di genere e generazionali è un segnale positivo dell’importanza, al di là dei timori e delle difficoltà, di sentirsi parte attiva nella costruzione del proprio futuro e dei processi di crescita del proprio Paese.

Preoccupa, però, d’altro canto, che oltre un giovane su cinque sia così rassegnato da togliere valore (anche come meccanismo psicologico di autodifesa) al sentirsi e considerarsi soggetto attivo e proiettato positivamente e con impegno verso il futuro.

Un dato che sale a uno su tre tra chi ha titolo di studio basso.

In definitiva, la voglia di realizzarsi nel lavoro è simile tra ragazzi e ragazze e nelle varie classi di età, ma più ci si avvicina ai trent’anni e per le donne scende la convinzione di riuscirci davvero (per gli ostacoli e le difficoltà sperimentate).

E’ il ritratto di una generazione non incoraggiata a formarsi al meglio, a compiere in modo efficace la transizione scuola-lavoro attraverso esperienze positive di crescita, a orientarsi nel mondo del lavoro che cambia, a trovare valorizzazione nel sistema produttivo.

Una generazione che alla debolezza quantitativa (per il minor peso demografico) rischia di sommare - spostandosi ad occupare progressivamente il centro della vita attiva del paese - fragilità qualitative (sia in termini di formazione che di incertezza del percorso professionale).

“Questi dati - osserva il professor Alessandro Rosina, coordinatore scientifico dell’osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo - mostrano come non si tratti meramente di quantificare quante persone in meno avremo come forza lavoro nei prossimi dieci anni, ma di capire quali scelte mettere in atto per rafforzare la presenza qualificata nel mercato del lavoro (e nel sistema produttivo), a partire dalle potenzialità, dalle fragilità e dalle aspettative delle generazioni che si avvicendano, in coerenza con le grandi trasformazioni in atto e le specificità del paese.


Senza risposte solide e convincenti in grado di riqualificare il contributo delle nuove generazioni ai processi di crescita, l’opzione del declino è destinata a rimanere per l’Italia senza credibili alternative”.

martedì 4 febbraio 2020

Tossicodipendenze, forte aumento dell'eroina



Nella relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, redatta dal dipartimento per le politiche antidroga della presidenza del Consiglio dei Ministri, relativa al 2019 ma che utilizza dati del 2018, sono contenuti informazioni molto interessanti sulla diffusione di tale fenomeno nel nostro Paese.

Pertanto mi è sembrato opportuno riportare alcune parti di tale relazione.

“…Così come a livello globale, anche in Italia la cannabis si conferma la sostanza più diffusa sul mercato illegale. Gli indicatori descrivono un quadro stabile del mercato con una spesa stimata intorno ai 4,4 miliardi di euro l’anno e una percentuale di purezza alta, del 12% in media per la marijuana e del 17% per l’hashish…

Dati questi che danno la misura delle dimensioni della domanda di cannabis in Italia, soprattutto se letti insieme alla diffusione della sostanza anche fra i giovanissimi: un terzo degli studenti delle scuole superiori l’ha utilizzata almeno una volta nella vita e per oltre la metà di questi l’età di iniziazione è stata intorno ai 15-16 anni.

Nel corso degli ultimi 10 anni risultano diminuiti i giovani che, in termini percentuali, hanno iniziato ad utilizzare la sostanza prima dei 13 anni, passando da quasi il 5% degli anni 2009- 2011 all’attuale 3%. Un quarto degli studenti superiori riferisce l’uso di cannabis nel corso dell’anno 2018 e la quasi totalità di questi la consuma in modo esclusivo, senza cioè associarla ad altre sostanze…

Il quadro di grande diffusione dei consumi di cannabis non si riflette tuttavia nella cura e nel trattamento di problemi correlati all’uso: l’utenza dei servizi per le tossicodipendenze in trattamento per uso primario di cannabis rappresenta l’11% del totale, e i ricoveri ospedalieri da imputare a questa sostanza costituiscono una parte ridotta, pari al 5%, di quelli direttamente droga-correlati.

Una tra le più importanti sfide per le politiche nazionali in materia di sostanze stupefacenti consiste nell’individuare gli strumenti adatti a fornire una risposta rapida ed efficace allo sviluppo di un mercato dinamico come quello delle nuove sostanze psicoattive, che imitano gli effetti di sostanze illegali già note: le cosiddette Nps - nuove sostanze psicoattive (che comprendono ad esempio cannabinoidi, catinoni e oppioidi sintetici).

E’ evidente, infatti, che la velocità di comparsa di queste nuove molecole, la vendita tramite siti web e il fatto che le informazioni disponibili su effetti e danni derivati dall’uso siano limitate, continueranno a costituire gli elementi-chiave alla base di importanti sfide per la salute pubblica e per le politiche pubbliche di settore nei prossimi anni…

Nel corso del 2018 sono state individuate trentanove nuove molecole per la maggior parte appartenenti alla classe dei catinoni sintetici e delle triptamine…

I segnali che emergono raccontano una realtà estremamente fluida con sostanze che restano sul mercato pochi mesi e poi scompaiono…

A fronte di un mercato molto fiorente, stimato per una spesa di 6,5 miliardi, i dati relativi alla cocaina descrivono una situazione apparentemente stabile per ciò che riguarda la sua diffusione.

I quantitativi di sostanza sequestrata e i prezzi al dettaglio non sono cambiati negli ultimi due anni e, anche se le percentuali dei giovanissimi che l’hanno utilizzata almeno una volta sono in leggera diminuzione (2,8% rispetto al 3,4% del 2017), rimane, dopo la cannabis, la sostanza maggiormente consumata dai poliutilizzatori.

Questa sostanza rappresenta a oggi uno dei pericoli sociali di maggiore rilevanza.

La cocaina è, infatti, la sostanza maggiormente accertata sui conducenti di veicoli controllati dalla Polizia Stradale nell’ambito della campagna di prevenzione dell’incidentalità stradale notturna droga-correlata condotta nel 2018.

Risulta inoltre la sostanza principale per la quale oltre un terzo delle persone inserite nelle comunità terapeutiche del privato sociale ha iniziato un percorso terapeutico-riabilitativo, così come il 20% degli utenti trattati presso i servizi pubblici per le dipendenze.

Si è registrato, inoltre, sia un aumento della percentuale di principio attivo contenuto nei campioni di cocaina sequestrati, che da una concentrazione media del 33% del 2016 è passata al 68% nell’ultimo biennio, sia un aumento del 10% delle denunce alle Autorità Giudiziarie per i reati di cosiddetto spaccio e di associazione finalizzata al traffico illecito di cocaina.

La stessa tendenza in aumento si registra sia per le ospedalizzazioni sia per i decessi direttamente correlati al consumo della sostanza, che in termini assoluti risultano aumentati rispettivamente del 38% e del 21% rispetto all’anno precedente…

I segnali che emergono dagli indicatori utilizzati per il monitoraggio della diffusione di oppiacei sono tutti concordi nel descrivere un mercato in crescita.

Nel corso del 2018 è stato osservato, in termini assoluti, un incremento del 60% di sostanza sequestrata nel nostro Paese, sfiorando per poco la tonnellata di eroina intercettata dalle forze dell’ordine, con un principio attivo mediamente superiore del 18% rispetto al 2017.

Indicatori confermati anche dal 28% in più di ricoveri e di circa il 6% in più di decessi correlati all’uso di oppiacei.

A confermare importanti modifiche nel mercato, oltre all’aumento della purezza della sostanza (il principio attivo risulta infatti superiore del 18% a quello mediamente rinvenuto nei campioni di eroina analizzati nel 2017), si evidenzia sia un aumento del prezzo medio di spaccio sia delle denunce per associazione finalizzata al traffico, raddoppiate in un anno…

Fra le cronicità più diffuse tra gli utilizzatori di droghe ci sono le malattie infettive direttamente correlate al consumo di alcune sostanze. Sebbene i casi di epatite B e C mostrino un trend in costante diminuzione, così come quelli per Hiv e Aids, in generale, queste patologie continuano a rappresentare un importante rischio, soprattutto fra gli utilizzatori di sostanze per via iniettiva.

Nell’ultimo anno, tuttavia, si è verificato un incremento dei decessi direttamente droga-correlati che, dai 296 casi del 2017, sono passati a 334 nel 2018, particolarmente rilevante tra le donne over 40 (+92%)…

Uno degli effetti cronici legati all’uso di sostanze è notoriamente la dipendenza, alla cui diffusione hanno dato risposta, assistendo oltre 133.000 soggetti, i 568 servizi pubblici per le dipendenze insieme alle 839 strutture socio-riabilitative censite sul territorio nazionale (delle 908 presenti).

Servizi che assistono all’invecchiamento della propria utenza, che per la maggior parte chiede aiuto per problemi legati all’uso di eroina e cocaina.

A ciò vanno aggiunti i dati riguardanti le ospedalizzazioni che, per quanto concerne i ricoveri con diagnosi principale droga-correlata, sono più numerosi tra i giovani, e in aumento anche tra i giovanissimi.

Più della metà di tali diagnosi fa riferimento a sostanze miste o non conosciute…”.