lunedì 29 novembre 2021

Guerra in Siria, la situazione oggi

Sono ormai 10 anni che la Siria è contraddistinta da una vera e propria guerra. Nonostante nel 2020 la situazione sul campo sia cambiata, con il governo siriano che ha consolidato il controllo su vaste aree di territorio tra cui Homs, Ghouta orientale, Damasco meridionale e Daraa, la situazione per i civili rimane estremamente difficile. Sono in corso conflitti e sfollamenti nei governatorati settentrionali, con il rischio di ulteriori escalation e insicurezza nel resto del Paese.

Della situazione in Siria si occupa, con un documento, Save the Children.

A fine 2019, nel nord-ovest del Paese, si è verificato un aumento delle violenze, terminato con un cessate il fuoco voluto a febbraio 2020, mentre attacchi aerei, bombardamenti e combattimenti a terra si sono intensificati nelle aree oltre le linee di conflitto nord-occidentali, causando l’uccisione di centinaia di civili e lo sfollamento di più di 850.000 persone.

Il conflitto comunque ha causato centinaia di migliaia di morti, sfollamenti di massa e distruzione di infrastrutture civili.

La forte recessione dell’economia siriana, la svalutazione, l’aumento dei prezzi, il tasso di disoccupazione oltre il 50% hanno portato a un forte aumento dell’insicurezza alimentare che, a luglio 2020, ultimo dato disponibile, colpiva 9,3 milioni di persone.

La pandemia ha ulteriormente aggravato la situazione del Paese, aumentando il tasso di disoccupazione e colpendo un sistema sanitario già fragile, in cui solo il 58% degli ospedali risulta completamente funzionante.

Le infrastrutture civili e i servizi pubblici, tra cui l'approvvigionamento idrico, l'elettricità, scuole e sanità sono state fortemente impattate dal conflitto, e oltre un terzo della popolazione non ha accesso all’acqua corrente.

I campi per sfollati nel Paese presentano condizioni di vita inadeguate, senza accesso a ripari, acqua potabile, cibo, assistenza sanitaria e psicologica adeguata.

Oltre 10 anni di conflitto in Siria hanno colpito più duramente coloro che sono meno responsabili: i bambini e le bambine.

Si stima che quasi 12.000 bambini e bambine siano stati uccisi o feriti in questo arco temporale, e attualmente il 90% dei minori in Siria necessita di assistenza umanitaria.

Oltre 1.300 strutture sanitarie ed educative, incluse le scuole, sono state direttamente oggetto di attacchi.

Il conflitto inoltre ha avuto un impatto drammatico sul benessere fisico, mentale e psicosociale dei minori.

Milioni di bambine e bambini in Siria vivono nella paura quotidiana che bombardamenti aerei possano distruggere le loro case e uccidere i loro cari; hanno paura di non poter più andare a scuola, sono spaventati perché non sanno se riusciranno ad avere un pasto fisso, hanno paura perché potrebbero essere separati dalla propria famiglia in qualsiasi momento.

Attualmente sono 2,4 milioni i bambini e le bambine che non vanno a scuola, con altri 1,3 milioni a rischio di abbandono scolastico, ostacolando gravemente il loro potenziale di sviluppo e mettendone molti a rischio di violenza e sfruttamento.

Molti ragazzi (dai 7 anni in su) vengono reclutati in gruppi armati, mentre chi riesce a sfuggire alle milizie è obbligato a lavorare, alcuni sono impegnati in negozi o garage, altri in lavori occasionali come la vendita di merci per strada o porta a porta.

Spesso si tratta di bambini e bambine provenienti dalle case più povere, o che hanno perso uno o entrambi i genitori.

domenica 21 novembre 2021

Dal 1992 uccisi più di 1.400 giornalisti

Dal 1992 più di 1.400 giornalisti sono stati uccisi per aver svolto il loro lavoro. In almeno 900 di questi casi si è trattato di una rappresaglia diretta. E il 90% di questi omicidi è rimasto impunito. Casi sono stati denunciati, tra gli altri, in Colombia, Russia, Filippine, Slovacchia, Malta, ma il problema è globale.

E’ quanto sottolinea l’atto di accusa consegnato al Tribunale permanente dei popoli, istituzione che ha sede all’Aja e che ha aperto un procedimento sugli omicidi dei giornalisti con l’obiettivo di accendere un faro e contribuire a fermare l’impunità, proponendo vie per riaffermare che gli Stati sono responsabili della protezione dei giornalisti e sono tenuti ad agire in caso di minacce nei loro confronti.

Il Tpp “è consapevole che l’omicidio di giornalisti è un problema universale, non solo nei Paesi non democratici ma in tutto il mondo”, così come è conscio “della gravità e dell’importanza di questa piaga, conseguenza di un ambiente ostile alla libertà di stampa”, ha dichiarato il Segretariato generale del Tpp, motivando l’apertura della procedura e richiamando l’attenzione sulle “gravi conseguenze” della “impunità quasi totale’ anche per la società.

Dopo la sessione di apertura, in cui testimoni ed esperti hanno documentato la natura sistemica dell’impunità per gli omicidi di giornalisti e il suo impatto sull’attività di informazione e sulla società, il Tpp procederà, attraverso una serie di udienze, da gennaio a maggio 2022, ad esaminare tre casi emblematici.

La giuria riunisce diverse competenze che presentano una pluriennale esperienza nel settore, garantendo, al tempo stesso, un’indipendenza di giudizio.

Tra i 9 componenti ci sono 3 italiani: Nello Rossi, che è il vicepresidente del Tpp ed è il direttore di Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica, Mariarosaria Guglielmi, magistrata e vicepresidente di Medel e la giornalista e scrittrice Martina Forti.

 “La violenza e i crimini contro i giornalisti sono al loro apice.

Secondo il calcolo effettuato da Reporters Senza Frontiere, 990 giornalisti e membri degli staff di mezzi di comunicazione sono stati uccisi nel mondo fra il 2010 e il 2020 a causa o nell’esercizio del loro lavoro, consistente nell’informare il pubblico. Dall’inizio del 2021, ne sono stati uccisi già 39”.

E’ la testimonianza resa dal segretario generale di Rsf, Christophe Deloire, al Tribunale.

Le zone di guerra come l’Afghanistan o l’Iraq rimangono “estremamente pericolose per i giornalisti: dall’inizio della guerra in Siria nel 2011, Rsf ha calcolato che sono stati uccisi 270 giornalisti (professionisti e non) e membri degli staff di mezzi di comunicazione.

Negli stessi ultimi 10 anni, in Afghanistan ne sono stati uccisi 63.

Ma anche Paesi che non sono ‘zone di guerra’ possono essere fatali, per i giornalisti: dal 2015, 62 giornalisti sono stati uccisi in Messico, 24 in India, 17 nelle Filippine”.

Gli abusi ai danni dei giornalisti aumentano anche nell’Unione europea: il loro numero “è raddoppiato negli ultimi due anni, e dal 2015, 14 giornalisti sono stati uccisi”.

Tra loro le 8 vittime degli attacchi contro Charlie Hebdo in Francia, gli omicidi di Daphne Caruana Galizia a Malta nel 2017, di Jan Kuciak in Slovacchia nel 2018 e, nel 2021, di Giorgios Karaivaz in Grecia e Peter De Vries in Olanda.

Gli omicidi di Daphne, Jan, Giorgios e Peter restano ad oggi impuniti - ha ricordato Deloire - mentre i mandanti sono ancora in libertà. Lo stesso accade in altre parti del mondo, dove il brutale assassinio di Jamal Khashoggi nel 2018 o l’assassinio di Anna Politkovskaja in Russia nel 2006 restano impuniti”.

mercoledì 17 novembre 2021

La pandemia non ha fermato l'ecomafia

 

Nel 2020, anno nero segnato dalla pandemia Covid-19, l’ecomafia non ha conosciuto lockdown e pause, né ha risparmiato l’ambiente. A fotografare la situazione è il nuovo rapporto Ecomafia 2021, realizzato da Legambiente.

In Italia nel 2020 sono stati 34.867 i reati ambientali accertati (+0,6% rispetto al 2019).

Sono aumentate le persone denunciate: 33.620 (+12% rispetto al 2019), le ordinanze di custodia cautelare eseguite 329 (+14,2%), i sequestri effettuati 11.427 (+25,4%), ma è diminuito il numero complessivo dei controlli passati da 1.694.093 del 2019 a 1.415.907 del 2020, con una flessione del 17% rispetto al 2019.

Sempre alta l’incidenza dei reati ambientali accertati nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (ossia Sicilia, Campania, Puglia e Calabria), esattamente 16.262, il 46,6% del totale nazionale, con 134 arresti, nel 2019 erano stati “soltanto” 86.

Nella classifica regionale, Campania, Sicilia, Puglia sono le regioni più colpite da illeciti ambientali.

Al quarto posto nel 2020 è salito il Lazio con 3.082 reati, con un incremento del 14,5% sul 2019, superando così la Calabria. La Lombardia rimane la regione con il maggior numeri di arresti.

Preoccupante anche il numero dei Comuni commissariati per ecomafia sino a oggi, ben 32, dei quali 11 sono stati sciolti nei primi nove mesi del 2021.

Un quadro nel complesso preoccupante, se si considera che una parte molto significativa degli illeciti analizzati nel rapporto Ecomafia ha a che fare con la violazione di normative connesse ad attività delle imprese, che pure hanno dovuto subìre, in diversi settori, la sospensione delle produzioni, causata, appunto, dai lockdown.

 “Non si deve assolutamente abbassare la guardia contro i ladri di futuro - ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente - a maggior ragione in un momento storico in cui dovremo spendere ingenti risorse pubbliche previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Va scongiurato in ogni modo il rischio di infiltrazioni ecomafiose nei cantieri per la realizzazione di opere ferroviarie e portuali, impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e di riciclo dei rifiuti, depuratori, interventi di rigenerazione urbana, infrastrutture digitali, solo per fare qualche esempio delle opere che servono alla transizione ecologica del Paese.

Il lavoro di repressione ha avuto un’impennata grazie ai delitti contro l’ambiente, che siamo riusciti a far inserire nel Codice penale nel 2015, dopo 21 anni di lavoro incessante.

Ora è fondamentale un deciso cambio di passo che porti a completare il sistema normativo inserendo i delitti ambientali e di incendio boschivo tra i reati per cui è possibile, vista la loro particolare gravità e complessità, prorogare i termini di improcedibilità previsti dalla riforma della giustizia, approvata dal Parlamento.

Va aggiornato il Codice penale inserendo tra i delitti anche le agromafie, il traffico di opere d’arte e di reperti archeologici e il racket degli animali.

E’ poi fondamentale - ha continuato Ciafani -  alzare il livello qualitativo dei controlli pubblici ambientali in tutta Italia, a partire dal Centro-Sud.

Servono nuove risorse finalizzate all’aumento del personale per le valutazioni e le ispezioni e all’acquisto della strumentazione innovativa per effettuare i monitoraggi. Si deve procedere speditamente all’approvazione dei decreti attuativi della legge 132 del 2016, che ha istituito il sistema nazionale per la protezione dell’ambiente”.

 “I dati del rapporto Ecomafia – ha rilevato Enrico Fontana, responsabile osservatorio ambiente e legalità di Legambiente - confermano l’urgenza di completare il quadro normativo a tutela dello straordinario patrimonio ambientale e culturale del nostro Paese, della salute dei cittadini e della buona economia e di rimediare quanto prima a due errori: quello commesso dal Governo e dal Parlamento nell’approvazione della riforma del Codice penale, avvenuta a settembre del 2021, a causa della quale, nonostante i forti appelli lanciati a più riprese da Legambiente, Libera, Wwf, Greenpeace e Focsiv, scatterà la tagliola dell’improcedibilità per i delitti contro l’ambiente, per i quali deve invece essere garantito tutto il tempo necessario per fare giustizia; l’interpretazione restrittiva da parte del ministero dell’Interno della norma che introduce il potere sostitutivo dei prefetti di fronte all’inadempienza dei Comuni, che emettono ma non eseguono ordinanze di demolizione di immobili abusivi, la cui applicazione riguarderebbe solo le ordinanze di demolizione emesse dopo l’approvazione della legge 120/2020, il cosiddetto decreto Semplificazioni entrato in vigore il 15 settembre del 2020”.

Per questo Legambiente, tra le sue principali 10 proposte, chiede:

di inserire, come primo provvedimento utile, i delitti ambientali previsti dal titolo VI-bis del Codice Penale e il delitto di incendio boschivo tra quelli per cui non scatta l’improcedibilità; approvare delle leggi contro agromafie e saccheggio del patrimonio culturale, archeologico e artistico e introduzione nel Codice penale dei delitti contro gli animali; ripristinare, se necessario con una modifica legislativa, la corretta attuazione da parte delle prefetture di quanto previsto dall’articolo 10-bis della legge 120/2020, che ne stabilisce il potere sostitutivo in tutti i casi, anche antecedenti all’approvazione della norma, di mancata esecuzione da parte dei Comuni delle ordinanze di demolizione di immobili abusivi; inasprire le sanzioni previste contro i traffici illegali di rifiuti; emanare i decreti attuativi della legge 132/2016 che ha istituito il sistema nazionale per la protezione per l’ambiente; garantire l’accesso gratuito alla giustizia da parte delle associazioni, come Legambiente, iscritte nel registro unico nazionale del Terzo settore e impegnate di fronte a qualsiasi autorità giudiziaria in qualsiasi grado di giudizio nel perseguimento dei propri fini statutari.

Le proposte di Legambiente mi sembrano degne di notevole attenzione e spero, quindi, che, quanto prima, esse possano essere accolte.

domenica 14 novembre 2021

Meno giovani nel lavoro domestico

 

Il lavoro domestico è contraddistinto da una minore presenza di giovani: nell’ultimo decennio, infatti, è drasticamente calata la presenza di colf, badanti e baby sitter under 30 (-61,4%) mentre si è assistito ad un progressivo invecchiamento della forza lavoro. Nel 2020 gli over 50 rappresentavano oltre la metà dei lavoratori impiegati nel comparto: circa 480.000 domestici regolari (di cui 319.000 stranieri) su un totale di 920.000.

E’ questa la fotografia scattata da Assindatcolf, Associazione nazionale dei datori di lavoro domestico, che, insieme al Centro studi e ricerche Idos, ha presentato i dati sul comparto domestico contenuti nel dossier statistico immigrazione 2021.

Sebbene nell’ultimo anno il numero dei lavoratori domestici stranieri sia complessivamente cresciuto del 5,3% anche per effetto dell’ultima procedura di emersione (passando dalle 601.223 unità del 2019 alle 633.122 del 2020), dal 2012 ad oggi si sono “persi” complessivamente circa 189.000 addetti stranieri.

Un trend che, seppure parzialmente compensato dalla crescita degli italiani (+12,8% nell’ultimo anno), rischia di creare pesanti ricadute sul futuro dell’assistenza a domicilio, essendo quello domestico un comparto basato in prevalenza sulla forza lavoro immigrata, che rappresenta il 68,8% del totale.

Il progressivo invecchiamento dei lavoratori riguarda in particolare proprio la componente straniera: ad oggi gli over 50 rappresentano il 65,8% del totale, contro il 34,2% degli italiani.

E se da una parte l’avanzare dell’età porterà, nel giro di un decennio, oltre 480.000 domestici, tra quelli oggi in forza ad andare in pensione (260.000, di cui 175.000 stranieri) o ad avvicinarsi a quella soglia (220.000, di cui 144.000 stranieri), dall’altra parte i dati degli ultimi anni dimostrano come a questo fenomeno non corrisponda un fisiologico ricambio generazionale.

Tale considerazione è valida non solo per gli under 30, la cui presenza dal 2012 al 2020 è calata del 61%, ma anche per i lavoratori tra i 30 e i 39 anni, che nello stesso periodo sono crollati del 47%, e per quelli nella fascia di età 40-49 anni, scesi del 18%.

“Con il graduale invecchiamento della forza lavoro, - ha dichiarato il Presidente di Assindatcolf, Andrea Zini - il mancato ricambio generazionale e la chiusura dei canali di ingresso regolari per i cittadini extracomunitari a cui ormai assistiamo da anni e che la pandemia ha praticamente bloccato, rischiamo nel prossimo futuro di non avere personale a sufficienza che assista i nostri anziani, i bambini e che si prenda cura delle nostre case.

A pagarne il conto più grande potrebbero essere le donne, sulle quali ancora ricade la maggior parte del lavoro di cura, in un momento storico in cui, al contrario, anche grazie ai fondi del Pnrr si punta sull’occupazione femminile.

Per questo chiediamo misure urgenti per il comparto, a cominciare da quelle fiscali, come la deduzione del costo del lavoro domestico.

Servono investimenti sulla formazione per rendere più appetibile il settore anche per i giovani, ma soprattutto è necessario tornare ad una programmazione dei flussi di ingresso con quote dedicate al lavoro domestico calcolate sul reale fabbisogno delle famiglie”.

“Nel 2020 - ha affermato Luca Di Sciullo, presidente del Centro studi e ricerche Idos – l’Italia ha conosciuto il numero più basso di nascite dall’Unità d’Italia, appena 404.000, e il un numero di morti paragonabile a un dopoguerra, 746.000.

Al tempo stesso, da 12 anni restano chiusi i canali regolari di ingresso per giovani lavoratori dall’estero, anche in comparti di attività dalla domanda crescente, come appunto quello domestico, e per settori economici in crisi di manodopera.

Nel frattempo continuiamo a impiegare poco e male la forza lavoro straniera già presente, peraltro crollata di 160.000 unità nell’anno della pandemia.

In poche parole: il Paese invecchia drasticamente e noi, per ragioni puramente ideologiche, ne impediamo il necessario ringiovanimento e ricambio delle leve produttive attraverso l’apporto che l’immigrazione potrebbe vitalmente già offrire, se solo fosse gestita anche solo più pragmaticamente.

Quel che sta avvenendo nel comparto domestico è paradigmatico di una situazione generale che dovrebbe interpellare i decisori politici, richiamandone la responsabilità verso l’intero sistema Paese”.

Il problema evidenziato da Assindatcolf è, senza alcun dubbio, molto importante.

Ed è pertanto necessario che le autorità competenti intervengano quanto prima.

Del resto sia Assindatcolf che il centro Idos hanno presentato alcune proposte, prima esposte, che mi sembrano degne di notevole attenzione.

mercoledì 10 novembre 2021

In Europa 20 milioni i bambini poveri

 

In Europa sono in aumento i livelli di povertà minorile. Sono quasi 20 milioni i bambini che crescono in povertà: sebbene l’Unione europea sia una delle regioni più ricche e con meno diseguaglianze nel mondo, i bambini di tutti i Paesi stanno affrontando livelli di povertà inaccettabili, nessun Paese escluso.

Questo è quanto emerge dal rapporto “ Garantire il futuro dei bambini – come porre fine alla povertà minorile e all’esclusione sociale”, realizzato da Save the Children.

In Italia le stime dimostrano che nel 2020 i bambini in povertà assoluta erano 2000.000 in più rispetto all’anno precedente.

In Germania, uno dei Paesi più ricchi al mondo, un bambino su quattro cresce a rischio di povertà, mentre in Spagna e Romania un bambino su tre vive al di sotto della soglia di povertà.

Nei Paesi dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo ad esempio) la situazione è ancora più grave.

I bambini più vulnerabili e più colpiti dalla povertà sono coloro che crescono in famiglie numerose o monoparentali, i bambini migranti, con disabilità, appartenenti a minoranze etniche e quelli che vivono nelle aree rurali o più svantaggiate.

Milioni di bambini in tutta Europa non hanno alcun accesso o hanno accesso limitato all’istruzione e ai servizi educativi per la prima infanzia.

Molti altri milioni non hanno accesso a cibi sani causando un aumento dei livelli di obesità e di malnutrizione cronica infantile.

La salute mentale dei bambini è una sfida chiave in tutti i Paesi e la maggior parte dei bambini poveri in Europa vive in condizioni abitative inadeguate o in situazioni di sovraffollamento, devono far fronte alla perdita della casa e il rischio di sfratto è all’ordine del giorno per la maggior parte di loro.

Il rapporto contiene anche delle raccomandazioni su come migliorare le politiche nazionali di riduzione della povertà minorile dal momento che i decisori politici della maggior parte dei Paesi europei non stanno sfruttando a pieno le risorse disponibili dell'Ue come la garanzia europea per l'infanzia e il piano d'azione del pilastro europeo dei diritti sociali.

“E’ assurdo vedere che, nonostante l'Ue si sia impegnata ad investire per le generazioni future, molti Stati membri non riescano ancora a stanziare risorse adeguate per garantire che tutti i bambini possano emanciparsi dalla loro situazione di svantaggio ed esclusione sociale” ha dichiarato Anita Bay Bundegaard, direttrice di Save the Children Europa. 

“Nessun bambino dovrebbe andare a scuola a stomaco vuoto, dormire al freddo, saltare le gite scolastiche con i compagni di classe o aver paura di uno sfratto perché i genitori non possono pagare l'affitto, ma per milioni di bambini in tutta Europa questa è la realtà quotidiana e il prezzo da pagare a causa delle disuguaglianze sta diventando troppo alto. I bambini che crescono in povertà hanno più probabilità di essere poveri da adulti e a loro volta anche i loro figli”.

“In questo momento critico, Save the Children si augura che i dati raccolti nel rapporto possano influenzare i piani d'azione della garanzia europea per l'infanzia in modo che non siano solamente una risposta immediata alla crisi, ma possano garantire riforme sostenibili per fornire un futuro migliore per le generazioni di bambini di oggi e di domani in modo efficace” ha aggiunto Anita Bay.

Per migliorare la situazione dei bambini che vivono in condizioni di povertà ed esclusione sociale in Europa, Save the Children chiede ai Governi di: adottare un approccio olistico per affrontare la povertà minorile; di includere adeguate misure di riduzione della povertà minorile nei piani d'azione nazionali della garanzia europea dell'infanzia; nei suddetti piani promuovere e specificare in modo trasparente l'allocazione delle risorse per affrontare la povertà minorile; fissare obiettivi nazionali ambiziosi per la riduzione della povertà minorile, con l'obiettivo di superare l'obiettivo dell'Ue di far uscire 5 milioni di bambini dalla povertà entro il 2030; infine, di garantire la sostenibilità delle riforme, assicurando che le risorse finanziarie continuino a finanziare i servizi nel lungo periodo.

Io sono pienamente d’accordo con le proposte di Save the Children e spero che esse siano accolte.

Infatti, la riduzione del numero dei bambini poveri dovrebbe rappresentare, senza alcun dubbio, un obiettivo prioritario per tutti i Paesi dell’Unione europea.

mercoledì 3 novembre 2021

Gli immigrati i più colpiti dalla crisi Covid

 

La crisi economica determinata dalla diffusione del Covid ha colpito soprattutto gli immigrati., poiché tale crisi ha interessato in primo luogo i lavoratori precari e i settori caratterizzati da un ampio utilizzo di lavoro stagionale, ad esempio turismo ed agricoltura. E infatti gli stranieri hanno subìto una riduzione del tasso di occupazione maggiore di quella degli italiani.

Queste considerazioni rappresentano una delle principali conclusioni a cui è pervenuto il rapporto 2021 sull’economia dell’immigrazione, realizzato dalla fondazione Leone Moressa.

Comunque gli stranieri producono ancora il 9% del Pil e risultano determinanti in molti settori.

Gli occupati stranieri in Italia nel 2020 erano 2,35 milioni, in calo (-6,4%) rispetto al 2019 (per gli italiani la variazione è stata -1,4%).

Tra i 456.000 posti di lavoro persi nel 2020, un terzo ha riguardato i lavoratori stranieri, in prevalenza donne.

Per la prima volta, quindi, il tasso di occupazione degli stranieri (57,3%) è sceso al di sotto di quello degli italiani (58,2%).

Dopo i forti aumenti dei primi anni 2000, la popolazione straniera in Italia è sostanzialmente stabile dal 2014.

Oggi gli stranieri residenti sono 5 milioni, l’8,5% della popolazione (e superano il 10% in molte Regioni).

Tuttavia, da 10 anni è diminuita la natalità e nel 2020 è aumentata la mortalità (effetto Covid). Il saldo migratorio (differenza arrivi-partenze) è ancora positivo, ma a livelli più bassi che in passato.

Se fino al 2010 si registravano più di 500.000 nuovi permessi di soggiorno ogni anno, negli ultimi anni si è registrato un calo drastico.

E nel 2020 si è toccato il picco minimo, con solo 106.000 permessi. Di questi, la maggior parte è per motivi familiari (58,9%), mentre quelli per lavoro sono stati appena 10.000 (meno del 10% del totale).

La crisi Covid non ha fermato l’espansione di imprese a conduzione da parte di immigrati.

Nel 2020 gli imprenditori nati all’estero erano 740.000, pari al 9,8% del totale e in aumento rispetto al 2019 (+2,3%).

Rispetto al 2011, i nati all’estero sono aumentati del 29,3%, mentre i nati in Italia hanno registrato un -8,6%.

Le nazionalità più numerose sono Cina, Romania, Marocco e Albania, ma la crescita più significativa si registra tra i nati in Bangladesh, Pakistan e Nigeria. L’incidenza maggiore si registra nell’edilizia (16,0% degli imprenditori del settore).

I contribuenti stranieri in Italia sono 2,3 milioni e nel 2020 hanno dichiarato redditi per 30,3 miliardi e versato Irpef per 4,0 miliardi.

Sommando le altre voci di entrata per le casse pubbliche (Irpef, Iva, imposte locali, contributi previdenziali e sociali, ecc.), si ottiene un valore di 28,1 miliardi.

Dall’altro lato, si stima un impatto per la spesa pubblica per 27,5 miliardi.

Il saldo, dunque, è positivo (+600 milioni). Gli stranieri sono giovani e incidono poco su pensioni e sanità, principali voci della spesa pubblica. Ma i lavori poco qualificati e la scarsa mobilità sociale possono portare nel lungo periodo ad un peggioramento della situazione.