giovedì 30 maggio 2019

Quanta acqua bevono gli italiani?



Secondo una ricerca condotta da Assosalute (associazione nazionale farmaci di automedicazione che fa parte di Federchimica) gli italiani tendono a consumare in media 1 litro e mezzo di acqua al giorno, in linea con le indicazioni degli esperti e, per quanto quasi una persona su due ammetta di non bere quanto si dovrebbe, ne riconoscono anche il valore fondamentale per la salute: quasi il 90% dichiara di conoscere i benefici dell’acqua per la salute e il 77% è consapevole che non berne a sufficienza può avere effetti negativi sull’organismo.

Inoltre il 50% degli italiani ritiene che una scarsa idratazione possa creare danni alla salute delle persone anche nella vita quotidiana, mentre l’85% pensa che, soprattutto, non bere adeguatamente quando si fa sport possa avere conseguenze dannose per la salute.

Resta tuttavia alta la percentuale di coloro - quasi il 25% - che dichiara di bere meno di un litro di acqua al giorno.

Significativo poi è che siano gli over 55 e le donne quelli che tendono a bere meno rispetto alla media nonostante proprio le persone più mature e le donne siano più consapevoli, rispetto alle altre fasce della popolazione e agli uomini, dei rischi di una idratazione insufficiente.

In vista dell’estate l’acqua assume un ruolo ancora più centrale, dal momento che, sudando, aumenta la quantità di liquidi che va reintegrata.

Non è un caso che, al primo posto tra i rimedi contro il caldo adottati dagli italiani, ci sia proprio l’abitudine di bere di più, messa in pratica da quasi il 70% delle persone, seguita dall’evitare di uscire nelle ore più calde (46%), mangiare più frutta e verdura (40%) e refrigerarsi accendendo aria condizionata o ventilatore (30%).

Secondo l’indagine Assosalute, infatti, a 8 persone su 10 è capitato di soffrire di almeno un piccolo disturbo in vacanza.

Se al primo posto ci sono stanchezza e spossatezza (44%), seguite da scottature solari ed eritemi (41%), non mancano punture di medusa o insetti - comunissime soprattutto tra i giovani, dove si arriva al 55% a fronte di una media del 34% - e disturbi gastrointestinali, che colpiscono poco più del 15% delle persone in vacanza, in prevalenza uomini. Presenti anche disturbi intimi (10%), micosi (6%) e otiti (5%).

In caso di disturbi in vacanza, il 46% degli italiani si affida all’esperienza di un farmacista in loco, mentre il 39% fa riferimento al medico, sia cercandone uno sul luogo di vacanza che contattando il proprio medico curante.

Più del 20% ricorre invece a rimedi naturali o cerca su internet la soluzione al problema.

C’è poi una buona fetta di viaggiatori (43%) che parte già munita di un kit con farmaci di automedicazione.

Infanzia negata per 690 milioni di bambini



Vivere l’infanzia oggi è un diritto negato per 690 milioni di minori, quasi 1 su 3 al mondo. Bambine e bambini che muoiono troppo presto a causa di malattie facilmente curabili e prevenibili, che non hanno cibo adeguato per vincere la malnutrizione, che non possono studiare e andare a scuola, che sono costretti a lavorare o a sposarsi precocemente. Un quadro che si fa ancor più cupo nei Paesi sferzati dai conflitti, dove in un solo anno 53.000 bambini sono morti.

Questi i principali risultati del nuovo rapporto di Save the Children  sulle condizioni dei bambini nel mondo.

La Repubblica Centraficana è il Paese al mondo dove le condizioni di vita per i bambini sono le peggiori, a seguire Niger e Ciad, con 10 Stati africani, di cui 6 colpiti da conflitti, ad occupare gli ultimi dieci posti della classifica dei Paesi dove l’infanzia incontra le condizioni migliori.

Sul versante opposto, il primato dei Paesi più a misura di bambino spetta a Singapore, seguito da Svezia e Finlandia, con l’Italia all’ottavo posto nella graduatoria, in linea con lo scorso anno, peggio solo di Irlanda, Germania, Slovenia e Norvegia, oltre che dei tre sul podio, sebbene nel nostro Paese oggi si contino 1,2 milioni di minori in povertà assoluta.

Nel 2000, però, i minori derubati della propria infanzia erano 970 milioni, un numero che oggi si è ridotto di 280 milioni, assestandosi a quota 690 milioni.

“Rispetto al passato, le condizioni di vita dei bambini, in tutto il pianeta, stanno facendo registrare miglioramenti enormi: si tratta di una notizia importantissima, che dimostra chiaramente che quando si intraprendono i passi giusti e si mettono in campo le azioni necessarie si possono ottenere risultati straordinari per assicurare un futuro a milioni di minori, anche nei Paesi più poveri e nei contesti più complicati.

Tuttavia, il lavoro è tutt’altro che compiuto perché sono ancora troppi i bambini che continuano a essere privati dell’infanzia che meritano e che soffrono terribilmente a causa di guerre, povertà, cambiamenti climatici.

Per questo è fondamentale che i leader mondiali, che nel 2015 si sono impegnati a raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile entro il 2030, facciano ancora di più e mettano in campo ogni sforzo possibile perché nessun bambino al mondo venga più lasciato indietro”, ha affermato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia. 

Rispetto a 20 anni fa, emerge dal nuovo rapporto di Save the Children, si registrano 4,4 milioni di morti infantili all’anno in meno, il numero dei bambini colpiti da malnutrizione è sceso di 49 milioni, si contano 115 milioni di bambini in meno tagliati fuori dall’educazione e 94 milioni in meno coinvolti in varie forme di lavoro minorile.

E, ancora, rispetto a venti anni fa, il numero di spose bambine si è ridotto di 10 milioni e quello delle gravidanze precoci, che mettono a forte rischio le vite sia delle mamme che degli stessi bambini, di 3 milioni.

Di contro, peggiorano di gran lunga le condizioni dei bambini coinvolti nelle aree di conflitto.

Oggi, nel mondo, sono circa 31 milioni i minori che sono stati costretti  a fuggire dalle proprie case nel tentativo di mettere in salvo la propria vita, e solo nel 2016 sono stati uccisi 53.000 bambini in seguito ai conflitti. 

Ogni giorno, nel mondo, poi, 15.000 bambini perdono la vita prima di compiere i 5 anni di età.

Tra le cause principali la polmonite, che solo nel 2017 ha provocato la morte di oltre 800.000 bambini e che si rivela quindi una infezione letale che uccide più di diarrea, malaria e Hiv messe insieme. 

Circa 1 bambino su 4 sotto i 5 anni, inoltre, pari a 152 milioni di bambini al mondo, risulta attualmente affetto da malnutrizione, con gravissime ripercussioni sulla propria crescita e sul proprio futuro.

1 bambino su 6 è tagliato fuori da scuola primaria e secondaria, nel complesso 262 milioni di bambini.

Sono invece 152 milioni, 1 su 10 al mondo, i minori coinvolti nella piaga del lavoro minorile, condannati pertanto a rinunciare a vivere la propria condizione di bambini, di cui quasi la metà costretti a svolgere lavori pesanti e pericolosi che ne mettono a grave rischio la salute e la sicurezza.

Ad avere un impatto devastante sulle vite dei minori, sottolinea infine il rapporto, anche la piaga dei matrimoni e delle gravidanze precoci, con 37 milioni di spose bambine stimate nel 2017 e 13 milioni di ragazze tra i 15 e i 19 anni che nel 2016 hanno messo al mondo un figlio, esposte a gravi rischi per la loro salute e per quella dei loro bambini e costrette a rinunciare troppo presto a costruirsi il futuro che meritano.

lunedì 27 maggio 2019

La Lega vince, i grillini perdono e il Pd...



Nelle elezioni europee, in Italia, c’è stato un solo grande vincitore, Salvini, che ha portato la Lega ad una percentuale molto elevata, più del 34% dei voti. I grillini hanno subìto una pesante sconfitta, ottenendo solamente il 17% dei consensi. Il Pd ha riscosso un buon successo, quasi il 23% dei voti.

Una premessa è indispensabile prima di formulare qualsiasi valutazione sugli esiti delle elezioni europee: il confronto con le elezioni politiche dell’anno passato deve essere effettuato con molta attenzione per un motivo, soprattutto, e cioè la diversa percentuale di votanti. Infatti tale percentuale è stata, per le europee, pari al 56%, mentre nelle politiche del 2018 è stata pari al 73%.

Premesso questo, però, l’incremento dei voti della Lega è stato così consistente ed, invece, la riduzione dei consensi dei grillini è stato così rilevante che non si può non concludere che c’è stata una netta vittoria dei leghisti e una pesante sconfitta del movimento 5 stelle.

Per quanto concerne il Pd, questo partito ha ottenuto un buon risultato, in seguito ad un considerevole aumento della propria percentuale di voti, rispetto alle elezioni politiche del 2018, che ha reso il Pd il secondo partito, superando ampiamente il movimento 5 stelle. Ma, in valori assoluti, il numero dei voti del Pd nelle europee non dovrebbe essersi discostato molto dal numero dei voti ottenuti nelle politiche dell’anno passato.

Oltre alla Lega un buon successo lo ha conseguito l’intero centrodestra che, considerando tutte le sue tre componenti, ha ottenuto quasi il 50% dei voti.

A mio avviso il risultato del Pd può essere considerato come una buona base di partenza della nuova segreteria di Zingaretti, il quale, però, per acquisire ulteriori consensi, in occasione delle elezioni politiche, quando si terranno, dovrà introdurre ulteriori e più consistenti cambiamenti nelle politiche seguite e nella classe dirigente, sia a livello locale che nazionale.

Questo risultato nelle elezioni europee avrà ripercussioni sulla tenuta dell’attuale governo?

A Salvini converrebbe, a mio avviso, continuare con il governo presieduto da Conte, con un considerevole aumento del proprio potere contrattuale, in seguito alla vittoria conseguita alle europee.

Infatti, è vero che sarebbe più che probabile, in caso di svolgimento di nuove elezioni politiche a breve termine, una vittoria del centrodestra. Ma in un governo di centrodestra, pur presieduto da Salvini, egli sarebbe piuttosto condizionato da Forza Italia e dal suo leader, seppur “azzoppato”, Berlusconi.

Ma ai grillini conviene continuare con l’attuale governo in cui in misura ancora maggiore il vero leader sarebbe Salvini? In questo modo potrebbero ridursi  di nuovo i loro consensi elettorali.

Però i grillini hanno il coraggio di andare a nuove elezioni politiche, con il rischio di ottenere un ulteriore ridimensionamento del loro peso, entro poco tempo?

Quindi, io credo, la decisione spetterà ai grillini, una decisione non certo facile. 

giovedì 23 maggio 2019

Alle europee votare Pd



Domenica 26 maggio anche in Italia si voterà per il rinnovo del Parlamento europeo. Io voterò per il Pd, guidato da Nicola Zingaretti, e invito a votare per il Pd anche i lettori di questo post.

Per quali motivi voterò e invito a votare per il Pd?

Innanzitutto perché le elezioni sono per il rinnovo del Parlamento europeo, anche se molti se lo dimenticano e considerano tali elezioni come se fossero elezioni politiche, una replica delle votazioni del 4 marzo 2018.

E il Pd non vuole che l’Italia abbandoni l’Unione europea. E’ un partito europeista. Certo, è favorevole a introdurre cambiamenti profondi nelle modalità di funzionamento dell’Unione, ad esempio evitando che si adottino politiche economiche contraddistinte da un’ “austerità” eccessiva, se si verificherà una nuova crisi, come invece avvenuto nel recente passato.

Nella consapevolezza però che per migliorare le prospettive future dell’Italia sia necessario un rafforzamento dell’Unione europea, non certo un indebolimento, come invece diversi altri partiti vorrebbero.

Però, non ci si può dimenticare che l’esito delle elezioni europee produrrà effetti di notevole rilievo anche per quanto riguarda le vicende politiche italiane.

Una crescita dei consensi rivolti al Pd, rispetto a quanto avvenuto nelle elezioni politiche del 2018, rappresenta l’alternativa più credibile, l’unica in realtà, ai partiti sovranisti che governano il nostro Paese, e cioè la Lega e il movimento 5 stelle.

Un’alternativa soprattutto alle loro politiche assolutamente inaccettabili e che determineranno ancora pesanti effettivi negativi, soprattutto relativamente al sistema economico, se non verranno sconfitte e in questo modo interrotte.

Si tratta di sconfiggere, soprattutto, l’evidente svolta a destra realizzata dall’attuale governo, prevalentemente realizzata dalla Lega e dal suo “capitano” Salvini, che non è stata affatto contrastata dal movimento 5 stelle, nonostante gli interventi del tutto propagandistici attuati dai grillini nelle ultime settimane, volti esclusivamente ad accrescere i propri consensi elettorali.

Il Pd, certamente, ha ancora di fronte a sé una strada lunga e complessa se intende davvero promuovere un’alternativa di governo credibile alla maggioranza gialloverde.

Qualche piccolo risultato è stato conseguito da quanto è diventato segretario Nicola Zingaretti ma, moltissimo, è ancora da fare. Soprattutto è necessario dare a vita a un classe dirigente nuova, non solo anagraficamente ma anche nei comportamenti, nel proprio modo di essere, a livello nazionale e a livello locale.

Nonostante questo, lo ripeto, il Pd rappresenta l’unica alternativa per contrastare la Lega di Salvini e il movimento 5 stelle.

lunedì 20 maggio 2019

Si spende troppo in pensioni?


Spesso si sostiene che la spesa pubblica in Italia sia troppo elevata. E proprio vero? Sarebbe opportuno, invece, considerare la composizione della spesa pubblica. Infatti si arriverebbe alla conclusione, tra l’altro, che rispetto ad altri Paesi, in Italia la spesa per le pensioni è più alta. Questo non vuol dire ovviamente che le singole pensioni per molti italiani siano molto alte, tutt’altro.

Tali problematiche sono analizzate in un articolo di Mariasole Lisciandro e Pietro Mistura, pubblicato su www.lavoce.info.

E’ proprio vero che la spesa pubblica in Italia è molto elevata, rispetto ad altri Paesi europei?

Tenendo presente il documento di economia e finanza, si può concludere che nel 2019 il Paese che spenderà di più in percentuale al proprio Pil è la Francia con il 55,5%, seguita dall’Italia con il 48,9%, e dalle meno spendaccione Germania e Spagna con, rispettivamente, il 44,5% e il 41,5%.

Di questi quattro Paesi l’Italia è l’unica che prevede un aumento della spesa per il 2020, con una lieve decrescita nel biennio successivo, mentre la Germania mantiene le proprie spese costanti nel triennio 2019-2022 (mentre le aumenta dal 2018 al 2019, ma può permetterselo), invece Francia e Spagna attuano una riduzione (quest’ultima di un livello già di per sé basso).

L’Italia nel 2019 prevede quindi una spesa in linea con questi Paesi, sebbene in crescita.

Considerando l’intera Eurozona, nel 2017 la spesa pubblica (Italia esclusa) era del 46,7% del Pil, due punti percentuali in meno rispetto al nostro Paese.

E nella Ue a 28 solo sei Paesi presentavano una spesa pubblica superiore alla nostra.

L’Italia è perciò in linea con i Paesi paragonabili, ma sempre nella parte alta della classifica complessiva europea.

E’ poi interessante capire per quali finalità viene impiegata, soprattutto con un occhio a cosa servirà l’aumento di spesa previsto.

Nel documento di economia e finanza viene indicato che nel triennio 2019-2021 le maggiori spese saranno dovute a interventi nel settore lavoro e pensioni, in particolare con l’introduzione di reddito di cittadinanza e quota 100: rispettivamente +23,5 e +20,5 miliardi nel triennio 2019-2021.

In Germania, invece, le maggiori nuove voci di spesa del 2019 riguardano un programma di aiuto ai genitori lavoratori, per i quali sono stati stanziati 5,5 miliardi nel corso del prossimo triennio. Un’altra grande voce di spesa riguarda il trasferimento di risorse ai Paesi dai quali provengono le quote maggiori di rifugiati per i quali sono previsti 6,9 miliardi di euro. Altri 5,2 miliardi saranno aggiunti nel 2019 ai 47,3 miliardi per la spesa militare, come richiesto dalla Nato.

Per quanto riguarda le pensioni vengono previsti 2 miliardi aggiuntivi dal bilancio federale per ogni anno nel triennio 2021 e 2024 per salvaguardare il bilancio dall’effetto demografico.

Anche la Francia prevede un intervento sulle pensioni che saranno rivalutate dello 0,3%, mentre sono previsti ulteriori 10 miliardi di spesa in particolare per le nuove assunzioni nella pubblica amministrazione, obiettivo analogo per la Spagna.

Da questo rapido confronto emerge come il governo italiano abbia dato molta importanza al tema dell’assistenza e delle pensioni, cosa che è stata fatta anche negli altri Paesi ma con minore enfasi.

E un dato su tutti mostra la peculiarità della spesa pubblica italiana: dalle previsioni di lungo periodo, si nota come l’Italia concentri più risorse di tutti gli altri Paesi in esame sul tema delle pensioni.

Tutti i Paesi prevedono un aumento della spesa pensionistica fino al 2050, dovuto al fatto che in concomitanza con il 2030 si ritireranno dal mondo del lavoro coloro che appartengono alla generazione detta del “baby boom”.

Ma l’Italia è comunque il Paese che sia oggi che domani destina la più ampia porzione di Pil al pagamento delle pensioni.

Viene quindi da chiedersi se fosse necessario caricare il bilancio pubblico italiano di nuove risorse destinate alle pensioni.

La risposta è no, se si pensa a quanto meno spendono gli altri paesi.

Tuttavia, spesso si giustifica l’eccesso di spesa pensionistica con il fatto che la popolazione italiana è molto più vecchia rispetto a quella di altri Paesi.

Ma i dati Ocse indeboliscono questa narrazione.

L’Italia è effettivamente al secondo posto dei Paesi Ocse per quota di over-65 sulla popolazione in età lavorativa, con il 37,8%. Questo valore però non è troppo distante da quelli di Germania (34,8) e Francia (33,3). O quantomeno forse non così distante da giustificare una differenza così ampia di spesa pensionistica sul Pil.

In ogni caso, aumentare la spesa è un grosso errore per un paese che cresce a velocità  zero virgola come l’Italia.  Soprattutto se la si aumenta per spesa corrente e non per investimenti o capitale umano.

E, aggiungo e termino, in considerazione dell’elevato tasso di disoccupazione giovanile e dell’insufficiente livello della spesa pubblica per l’istruzione, piuttosto che prendere provvedimenti come la cosiddetta quota 100, che, oggettivamente, ha contribuito e contribuirà ad innalzare la spesa pensionistica, sarebbe stato necessario prevedere interventi volti a favorire l’occupazione giovanile e ad accrescere la spesa pubblica per l’istruzione.

Ma, si sa, al di là delle chiacchiere, i giovani, le loro esigenze, non rappresentano la priorità per questo governo.

Peraltro, provvedimenti rivolti a favorire i giovani potrebbero aver anche l’effetto di ridurre, seppure in misura limitata, l’invecchiamento della popolazione, contribuendo ad accrescere il tasso di natalità, oggi particolarmente basso.

giovedì 16 maggio 2019

Save the Children, 100 anni dalla fondazione


Sono passati 100 anni dalla nascita di Save the Children. Cento anni di storia segnati da emergenze umanitarie, in Italia e nel mondo, rimaste impresse nella memoria collettiva e in cui a pagare il prezzo più alto sono i bambini. E ieri come oggi conflitti e disastri naturali, carestie, siccità, epidemie e povertà che rappresentano le sfide più grandi che ancora oggi mettono a repentaglio l’infanzia e il futuro dei minori.

In occasione delle celebrazioni per il centenario dalla sua fondazione, che avvenne nel 1919 proprio per portare aiuto alle vittime del primo conflitto mondiale, Save the Children ha lanciato, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la campagna globale “Stop alla guerra sui bambini”. 

La denuncia di Save the Children arriva attraverso i dati del nuovo dossier dal titolo “La guerra sui bambini”: ancora oggi 1 minore su 5, pari a 420 milioni di bambini e bambine (il doppio dalla fine della Guerra Fredda) vive attualmente in aree di conflitto,  sempre più esposto a violazioni dei propri diritti, tra i quali i continui attacchi contro le scuole.

Solo nel 2017 sono stati bombardati oltre 1.400 edifici scolastici: nelle aree di conflitto, l’istruzione è uno dei principali diritti negati all’infanzia e sono 27 milioni i bambini sfollati a causa delle guerre a non avere più accesso all’educazione.

Un tema, quello dell’educazione durante i conflitti, che rischia di essere sottovalutato ma che ha conseguenze drammatiche per l’infanzia e per la ricostruzione dei paesi stessi che vivono il conflitto: ad oggi è difficile stabilire quanti siano esattamente i bambini che a causa della guerra sono stati costretti a lasciare non soltanto le loro case, ma anche la scuola, divenendo la “generazione perduta” che senza educazione rischia di non poter contribuire alla ricostruzione del proprio paese al termine delle ostilità.

 “Ogni guerra è una guerra contro i bambini, diceva Eglantyne Jebb, la fondatrice di Save the Children, ed è vero oggi esattamente come cento anni fa.

Per questo motivo, nel celebrare questo importante anniversario, Save the Children è tornata alle ragioni originarie per cui è nata.

“Sono troppi i bambini nel mondo a cui sono negati i diritti principali dell’infanzia a causa dei conflitti e, oggi più che mai, abbiamo il dovere di indignarci e fare qualcosa di fronte a tutte quelle guerre - spesso dimenticate dall’opinione pubblica”, ha dichiarato Claudio Tesauro, presidente di Save the Children Italia.

 “Di fronte agli egoismi e ai nazionalismi dilaganti, non possiamo più volgere lo sguardo dall’altra parte e non sentirci responsabili: la guerra, ovunque essa sia e con qualunque arma venga combattuta, è una guerra contro i bambini, che continuano a perdere la vita ogni giorno. E non importa in quale paese vivano, da quale famiglia provengano e a quale gruppo o etnia appartengano: i bambini sono bambini e devono essere protetti, soprattutto dalle guerre degli adulti”, ha proseguito Tesauro.

A 100 anni dalla sua fondazione, Save the Children ha ricordato poi che nonostante gli enormi progressi che il mondo ha compiuto negli ultimi decenni per i bambini - dal dimezzamento della mortalità infantile e del numero di minori tagliati fuori dalla scuola primaria alla vittoria contro la poliomielite, che negli anni ’70 uccideva mezzo milione di minori ogni anno - oggi, nel mondo, più di 1 bambino su 2 è minacciato da guerre, povertà e discriminazioni.

In particolare, circa 5,4 milioni di bambini sotto i 5 anni, inoltre, perdono la vita ogni anno a causa di malattie facilmente curabili e prevenibili, mentre in Africa subsahariana e in Asia si calcola che fino a 500 milioni di persone siano attualmente esposte agli effetti dei cambiamenti climatici, spesso costrette ad abbandonare le proprie terre.

Ben 27 milioni di minori nel mondo sono tagliati fuori dall’educazione perché le loro scuole sono state distrutte, danneggiate o occupate e oltre 1 miliardo di loro vivono in contesti dove ogni giorno sono costretti a fare i conti con la povertà, anche nei paesi più avanzati come l’Italia dove attualmente 1,2 milioni di minori si trovano in condizioni di povertà assoluta.

“Questo dimostra che anche oggi c’è tanto da fare per proteggere fino all’ultimo bambino ed è quello che i nostri operatori continuano a fare ogni giorno anche nel più remoto angolo del pianeta.

Ma allo stesso tempo non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla mancanza di volontà politica con cui il mondo continua a rimanere inerte davanti alle sofferenze indicibili che stanno patendo i bambini a causa di guerre, povertà o cambiamenti climatici.

Il futuro dei bambini non può più attendere oltre ed è arrivato il momento che la comunità internazionale si assuma finalmente in pieno fino all’ultima delle proprie responsabilità”, ha concluso Claudio Tesauro.

lunedì 13 maggio 2019

Se l'Italia si disoccupa dei giovani



L’Italia non si occupa dei suoi giovani. E questo non è certo una novità. Se si considerano solamente le politiche attuate dai governi, è da molto tempo che i giovani sono trascurati. Ad esempio la decisione dell’attuale governo di attuare, per le pensioni, la cosiddetta quota 100 è la manifestazione più evidente del suo disinteresse nei confronti delle esigenze dei giovani.

Tale problematica viene esaminata da Alessandro Rosina, un docente universitario di demografia e statistica sociale, in un articolo pubblicato su www.lavoce.info.

Cosa sostiene Rosina?

“Il nostro paese non sembra animato da una grande volontà di impegnarsi per migliorare la condizione delle nuove generazioni, requisito fondamentale per mettere le basi di un solido percorso di crescita.

Non si tratta solo della condizione lavorativa, ma del ruolo loro assegnato all’interno dei processi di innovazione e sviluppo competitivo del paese. Oggi l’Italia è senza progetto per il proprio futuro e i giovani italiani sono senza ruolo.

I dati lo riflettono in modo coerente.

Nel 2008, all’inizio della recessione, il tasso di disoccupazione giovanile era in Italia del 21,2% contro una media europea pari al 15,9%, con un divario quindi di poco più di 5 punti percentuali.

Nel 2018, ultimo dato completo disponibile, il tasso europeo risulta leggermente più basso rispetto al 2008 (15,2%) mentre il nostro è sensibilmente più alto (32,2%), con un divario salito a oltre 15 punti percentuali…

Il problema non è solo la carenza di politiche efficaci, manca a monte una vera attenzione nei confronti dei giovani e un approccio strategico nell’affrontare il tema della crescita con le nuove generazioni.

Tutto quello che riguarda i giovani è sconsolatamente al ribasso nel nostro paese rispetto al mondo con cui ci confrontiamo.

Le nascite sono al ribasso, il peso elettorale dei giovani è al ribasso, gli investimenti in formazione, ricerca e sviluppo sono al ribasso, la loro presenza attiva nei processi di crescita del paese è al ribasso, di conseguenza anche la loro fiducia nelle istituzioni è bassa.

Ciò che è cresciuto in questi anni tra i giovani è l’incertezza nel futuro e la mobilità verso l’estero…

Lo stesso discorso pubblico sui giovani è pieno di luoghi comuni, di schemi interpretativi datati, di superficialità nel descrivere la loro condizione.

Abbiamo visto, anche sui giornali più autorevoli, servizi in prima pagina sui giovani che rifiutano offerte di lavoro ben pagate.

Esempi del peggior giornalismo, quello che estrae dalla realtà i casi più in sintonia con la propria chiave di lettura e li piega in funzione del luogo comune che funziona per far notizia, senza sforzarsi di cercare di rappresentare la realtà nella sua complessità e gettar luce sulle cause.

Un ulteriore segnale che conferma la disattenzione pubblica è il basso impegno a interpretare in modo adeguato gli indicatori che riguardano le nuove generazioni. I Neet (giovani che non studiano e non lavorano) vengono spesso rappresentati in modo polarizzato come ‘quelli che non vogliono lavorare’ o come ‘quelli così scoraggiati che nemmeno più cercano il lavoro’.

Nessuna delle due interpretazioni è corretta. Nei Neet entrano tutti i giovani fuori dal percorso formativo e senza occupazione, ovvero tutti gli inattivi (sia chi cerca lavoro, sia chi non è interessato, sia chi è scoraggiato).

Analoga sorte subisce il tasso di disoccupazione giovanile (che, è bene chiarire, si riferisce alla classe 15-24 anni).

Quando nella sua lunga cavalcata al rialzo durante la grande crisi il tasso ha superato il 33%, i mass media hanno pubblicato titoli di apertura che affermavano che ‘oltre un terzo dei giovani è senza lavoro’.

Con l’inasprirsi del fenomeno, questi titoli si sono ripetuti più e più volte, tanto che a un certo punto l’Istat ha sentito l’esigenza di diffondere, nel 2012, un comunicato stampa di precisazione spiegando che non corrisponde ad alcun dato reale il fatto che un giovane su tre sia senza lavoro.

Rispetto a tutti i giovani, quelli che non lavorano sono oltre 8 su 10 (il complementare del tasso di occupazione), mentre chi non trova lavoro pur cercandolo (i disoccupati in senso stretto) sono meno di 1 su 10.

Nessuno dei due valori corrisponde a ‘un terzo dei giovani’.

Quindi? Il fatto è che al denominatore del tasso di disoccupazione non ci sono tutti i giovani, ma solo quelli che si offrono al mercato del lavoro (quindi non studenti e non scoraggiati o disinteressati).

Nella sua nota del 2012, l’Istat precisava coerentemente che ‘non è corretto affermare che più di un giovane su tre è disoccupato’, mentre sarebbe più corretto segnalare che ‘più di uno su tre dei giovani attivi è disoccupato’.

Siamo nel 2019, il dato sulla disoccupazione giovanile è ancora superiore al 30% e sui titoli dei giornali, in occasione del primo maggio, ci troviamo a leggere che ‘un giovane su tre non ha lavoro’. Una coazione a ripetere che ci imprigiona in un presente senza prospettiva di vero miglioramento”.

E allora cosa manca veramente, secondo Rosina?

“Se non vogliamo passare così anche il primo maggio dei prossimi anni dobbiamo sforzarci di cambiare sia la qualità dell’attenzione verso i giovani nel dibattito pubblico (capacità di raccontare la realtà), sia l’approccio nelle politiche pubbliche (capacità di agire sulla realtà).

Dobbiamo pensare all’Italia non come a un paese nel quale manca il lavoro per i giovani, ma nel quale mancano giovani qualificati al lavoro, la risorsa chiave per produrre crescita innovativa e competitiva.

Le nuove generazioni sono quantitativamente scarse, mentre quelle demograficamente più consistenti stanno andando in pensione.

Solo un paese in declino può trasformare la carenza di giovani in alta disoccupazione. Ma un paese che non investe nel capitale umano delle nuove generazioni e nell’inserimento solido nei settori più strategici e produttivi, non può crescere e condanna i giovani, pur pochi, a esser sempre più marginali”.

giovedì 9 maggio 2019

L'Italia, un Paese di idioti, violenti e barbari



In un’intervista pubblicata su www.huffingtopost.it, il noto psichiatra Vittorino Andreoli è esplicito e molto duro nel commentare alcune vicende verificatesi in Italia nelle ultime settimane: il nostro è un Paese di idioti, violenti e barbari.

Mi sembra utile e opportuno riportare integralmente l’intervista.

Professore Andreoli, l’impressione che arriva dalla cronaca è che in Italia sia ormai diffuso un bullismo trasversale, tutti bullizzano tutti. Stiamo diventando un Paese di bulli?

Non mi piacciono i termini “bulli” e “bullismo”, che dilagano pur non avendo fondamento né antropologico né scientifico. Qui non si tratta di bullismo, termine inventato dai giornalisti per riferirsi prevalentemente a comportamenti che riguardano i giovani.

Di cosa si tratta, allora?

Di violenza, caratteristica umana, biologica, che non essendoci più freni inibitori e in assenza di regole, principi, esempi, diventa comportamento dominante. 

Dilaga la violenza, dunque, professore. 

E’ un fatto diffuso - pensi anche alle violenze tra persone anziane - e di grosse dimensioni, che va spiegato tenendo sì presenti i comportamenti di chi compie l’atto violento specifico, ma mai dimenticando che essi sono derivati ed espressione di una grande crisi di civiltà. L’uomo che incontriamo è sempre meno razionale, sempre più pulsionale.

Che significa?

Parlando dello sviluppo della civiltà, Giambattista Vico spiegava come via via, nel corso dei secoli, si è passati dalla barbarie alla società della ragione, chiarendo che è la parte più umana - la ragione ma pure il rispetto degli affetti - che riesce a dominare gli istinti. Senza questi freni siamo barbari. Ecco, attualmente viviamo una fase di regressione verso la barbarie. Le sembra che oggi si applichi la ragione?.

No.

La mia era una domanda pleonastica. Questa regressione ci riporta al punto inverso del percorso di cui parlava Vico.

Da cosa dipende secondo lei?

Mancano le regole, gli esempi. Non ci sono più le leggi, che, diceva Platone, devono servire perché ci si rispetti tutti. La legge oggi è diventata una modalità per fare quello che si vuole giustificandosi. Non valgono più regole, parole che erano a fondamento del vivere civile.

A cosa si riferisce?

Alla coerenza, per esempio, oggi considerata un segno di scarsa capacità di adattamento alla società. Nel nostro Paese c’è chi sta esaltando il valore dell’incoerenza. Ancora, da quanto tempo non si sente più usare la parola “ladro”, che è uno che si adatta? Ormai c’è una perdita di ragione generalizzata, una prevalenza di istinti e pulsioni non più inibiti. Mi piace una donna? La pulsione da soddisfare è possederla. Mi piace un telefonino che non posso acquistare? Lo rubo. Non è un caso che per avere successo bisogna essere idioti. Per non dire del potere.

No, dica pure.

Il potere è in mano ai cretini, la cultura è considerata inutile, il sapere non conta. Conta il potere come verbo, faccio perché posso non perché è utile. Il potere è la più grande malattia sociale che esiste. Di fronte a certe imbecillità non si può stare zitti.

Di quali imbecillità parla?

Pensi alla stupidità di tirare fuori la castrazione chimica per stupratori e pedofili. Con questo andamento ci avviciniamo all’homo stupidus stupidus, altro che homo sapiens sapiens”.

All’homo stupidus stupidus ha intitolato un suo celebre saggio. Ci siamo arrivati?

Guardi, io non offendo nessuno, piuttosto faccio diagnosi. “Stupidus” ha la stessa radice di “stupor”, “stupore” e io sono stupito che un Paese come il nostro, con la sua illustre civiltà, si stia riducendo alla barbarie. Purtroppo lo stupido non sa cos’è l’intelligente e pensa di esserlo, mentre l’intelligente qualche volta ha il dubbio di essere stupido.

La proposta della castrazione chimica è stata rilanciata dopo i fatti di Viterbo.

Quando si parla di castrazione chimica penso ad Alan Turing, il grande matematico britannico che riuscì a decodificare i messaggi criptati che durante il secondo conflitto mondiale si scambiavano le potenze dell’Asse, contribuendo in modo determinante alla vittoria degli Alleati. Ebbene, a guerra finita, Turing, perché omosessuale fu emarginato e incarcerato e, sottoposto a castrazione chimica, si suicidò. Solo un imbecille che non conosce la storia può riproporre una tale stupidità. Ignorando l’elemento fondamentale della questione.

Quale?

“Ciò che attrae una persona violenta o un pedofilo non è l’atto sessuale quanto il fatto di poter dominare la vittima, ricorrendo alla sopraffazione. E’ possibile che ci sia qualcuno convinto che la castrazione chimica eliminerà la violenza? Non è il testosterone, è la mente, è il fatto che senza la ragione, gli affetti, i principi a fare da freno, diventiamo crudeli. Il problema è tutto quello che questa regressione ci sta portando via, per cui assistiamo a spettacoli indegni: ruba chi accusava gli altri di farlo, si delegittima la magistratura, si insufflano paure”.

È un atto d’accusa ai nostri politici, a quanti ci governano?

Non so se i destinatari sono gli attuali o ci sono di mezzo anche quelli che ci hanno governato sei o otto mesi fa. Mi importa di più far capire che stiamo regredendo e molto velocemente. La conquista di civiltà non è un fatto biologico, non è che abbiamo i geni della civiltà. È un fatto che riguarda l’essere umano, la sua parte umana. E, per come stanno andando le cose, rischiamo di perdere le conquiste guadagnate con fatica nei secoli, nel giro di due generazioni. 

Nel 2013 lei dichiarava “L’Italia è un malato di mente grave”. Sei anni dopo a che punto è la notte?

La situazione è gravissima, mi creda. Penso a Camus, al medico che ne “La peste”, nonostante non abbia mezzi, non si ferma davanti al dilagare dell’epidemia, continua a curare i malati e alla fine la malattia passa. Sei anni fa credevo ci fossero i medici per curare la malattia del Paese, adesso non intravedo possibilità di cura”.

Chi erano i medici che non ci sono più?

“Le regole sociali, gli esempi, l’umanesimo. Il potere è degenerato. Anche nei periodi più duri della nostra democrazia c’era chi, una volta eletto, si impegnava ad aiutare tutti gli italiani”.

Oggi invece?

È la prima volta che ci sono i partiti, ma non c’è il Governo. E chi governa dice: “Ci sono io, faccio io, questo non mi piace, lo caccio”. Magari se chi sostiene cose del genere leggesse la Costituzione capirebbe che ci sono anche delle prerogative precise del Capo dello Stato. Ancora, di fronte all’emergenza sull’educazione dei giovani, non si può rispondere dicendo: “Non è nel contratto di governo”. Qui ci stiamo giocando la democrazia.

E’ davvero così grave la situazione?

Assolutamente. Gli italiani non credono più nel fondamento della democrazia, che è il voto. E’ inaudito che l’espressione della preferenza di una persona, come purtroppo vediamo accadere nel nostro Paese, venga addirittura monetizzata, venduta. È un segno chiaro che la democrazia è in pericolo. Anzi è in agonia. Bisogna stare attenti.

Lei quindi vede  il rischio di una deriva democratica?

Certo. La nostra democrazia non è mai stata perfetta, ma a differenza di quanto accadeva in passato, oggi non ci si sforza più di renderla compiuta. E il fascismo, un fatto storico definito, non si può neanche nominare. Qui si sta castrando la democrazia, altro che castrazione chimica.

Intanto nel Paese dilaga la paura, altro sentimento al quale lei ha dedicato anni di studi e diversi saggi. 

Oggi in Italia tra i sentimenti più diffusi non c’è la paura, che può essere anche positiva quando ci permette di percepire i rischi, quanto piuttosto la paura della paura. Ci inducono paure, frutto non di esperienza diretta ma veicolate attraverso i mezzi di comunicazione, per mostrarci di sapere risolvere determinate questioni mentre in realtà non sanno farlo.

Si riferisce ai migranti? 

Certo, ma anche all’idea che stiamo morendo tutti di fame, all’importanza del Pil, alle conseguenze che possono derivare dai vaccini. Quando manca la cultura si può dire di tutto. Ci stanno spaventando perché il potere diventa forte se spaventa. È tutto regolato dal “dito su-mi piace, dito giù-non mi piace”.”

Anche lei demonizza la cultura digitale, internet e i social network?

“Il digitale è una delle più grandi scoperte della modernità, internet è uno strumento straordinario che ha consentito al sapere di fare grandi passi avanti, ma nella vita quotidiana buttarsi dentro i social - vere e proprie fughe dai sentimenti, dalle relazioni - assorbiti da video, post, commenti, rischia di far smarrire l’umanità. I figli dimenticano i padri e i padri i figli”.

Nel suo ultimo libro “Il rumore delle parole”, il protagonista, un anziano che ha trovato nella rete il modo di addomesticare l’abbandono, “alla fine capisce che la cosa migliore è suonare il campanello del vicino e vedere cosa può fare per loro”. Vale solo per gli anziani?

Vale per tutti.

La situazione è degenerata, professore. Esiste una strada per invertire la rotta?

Ho ancora fiducia nei giovani. Ce ne sono di bravissimi, che si impegnano, animati da grande passione. Penso anche a quei bambini che diffondono messaggi positivi, speriamo non li strumentalizzino. Ma siamo in grande pericolo. Voglio credere nei giovani, ecco perché non utilizzo il termine bullismo, creato per riferirsi prevalentemente a loro. Affido le mie speranze non al potere, ma ai giovani che non ce l’hanno.  

Per quanto mi riguarda, io condivido in pieno i contenuti delle risposte di Andreoli.

lunedì 6 maggio 2019

Salvini si occupi dei camorristi non dei migranti



A Napoli si continua a sparare, in pieno centro. I conflitti tra i clan camorristi hanno colpìto anche persone che non c’entravano niente, dei semplici passanti, l’ultima delle quali una bambina di 4 anni. E Salvini che fa? Continua ad occuparsi dei migranti, di un’emergenza che non c’è e non si preoccupa di accrescere la lotta contro i clan camorristi.

Salvini, che come ministro dell’Interno sovraintende a tutte le forze di polizia, dovrebbe combattere soprattutto le mafie, che costituiscono, in tutta  Italia, la vera emergenza, il principale pericolo per l’ordine pubblico, per la sicurezza nazionale.

Ma non lo fa, assolutamente.

A parole, sostiene di essere in prima linea nella lotta alle mafie, come quando, il 25 aprile, si è recato a Corleone, invece di partecipare ad una delle numerose manifestazioni realizzate in occasione della festa della liberazione.

Solo propaganda.

Infatti, non si preoccupa di intensificare l’azione contro i clan camorristici napoletani, per ridurre il numero delle sparatorie a cui ho fatto riferimento all’inizio.

Forse perché la Lega ha rapporti con esponenti mafiosi?

Non so.

Forse perché non considera le mafie la principale emergenza per la sicurezza nazionale?

Forse perché considera il contrasto nei confronti dei migranti molto più utile per accrescere i propri consensi, sebbene la presenza di migranti in Italia sia molto meno pericolosa dello strapotere che le mafie hanno conseguito in tutte le regioni, non solo in quelle meridionali?

Al di là dei motivi alla base dei suoi comportamenti, il fatto che Salvini trascuri la lotta contro le mafie deve essere fortemente censurato, anche se non stupisce se si considera che egli si occupa molto più di propaganda, soprattutto a fini elettorali, piuttosto che di promuovere azioni concrete nei settori di intervento del suo ministero.