mercoledì 21 dicembre 2022

Giulio Regeni e Patrick Zaki ormai dimenticati

 

E’ passata sotto silenzio la notizia dell’ennesimo rinvio dell’ inizio del processo, in Egitto, a carico di Patrick Zaki ed inoltre nessun passo in avanti è stato compiuto circa l’effettiva possibilità che si svolga un processo che veda coinvolti gli assassini di Giulio Regeni, già individuati ma di cui non si conoscono gli indirizzi ai quali inviare la comunicazione del loro essere indagati.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha recentemente incontrato il presidente dell’Egitto al Sisi. Non si conoscono i contenuti dell’incontro ma è probabile che non sia stato ottenuto niente relativamente alle vicende Regeni e Zaki.

Del resto l’Italia è di fatto sotto ricatto dell’Egitto che è uno dei Paesi che dovrebbe fornire un consistente aumento del gas per contribuire a controbilanciare la riduzione del gas concesso dalla Russia.

Ancora una volta, pecunia non olet.

In passato si era parlato della possibilità di introdurre nel nostro ordinamento una norma specifica sul caso Regeni che consentisse l’inizio del processo anche senza una comunicazione formale inviata agli indagati, essendo ormai universalmente noto chi sono gli indagati.

Ora non si parla più di questa possibilità.

Aggiungo che l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, in Italia, sulle vicende di Regeni e di Zaki sì è fortemente attenuata.

Anche per questo non mi sembra probabile che nel prossimo futuro si verifichino novità significative rappresentate da un lato dalla condanna degli assassini di Giulio Regeni e dall’altro dalla necessità che Zaki sia definitivamente prosciolto dalle accuse a lui rivolte.

Pertanto sarebbe opportuno che vi sia un cambiamento netto da parte delle autorità governative nell’atteggiamento, ormai remissivo, nei confronti delle vicende in questione, cambiamento che sembra improbabile poiché ormai si è giunti a una normalizzazione dei rapporti tra Italia e Egitto.

Per determinare il cambiamento auspicato sarebbe indispensabile una forte mobilitazione dell’opinione pubblica italiana che spinga il governo a mutare atteggiamento.

Anche in questo caso però non sembra probabile che tale mobilitazione si verifichi effettivamente.

domenica 18 dicembre 2022

In Ucraìna torturano anche i bambini

Nel corso della guerra di aggressione provocata dalla Russia di Putin sono stati colpiti molti civili e addirittura numerosi sono stati gli ucraìni torturati. Ma, incredibilmente, sono stati torturati anche i bambini.

Infatti le autorità ucraine hanno scoperto una camera che i russi usavano per detenere e torturare i bambini durante l'occupazione di Kherson.

Lo ha riferito Dmitry Lubinets, commissario per i diritti umani della Verkhovna Rada, il parlamento unicamerale ucraino, citato da Kyiv Independent.

“Abbiamo registrato la tortura dei bambini per la prima volta”, ha detto Lubinets. “Pensavo che il fondo non potesse essere rotto dopo Bucha, Irpin... ma abbiamo davvero toccato il fondo a Kherson”.

Secondo le testimonianze della gente del posto, altre vittime di torture nella struttura sapevano che i bambini ucraini erano stati tenuti lì dai servizi di sicurezza russi, che avevano chiamato la camera “la cella dei bambini”.

Ai bambini è stata data poca acqua e quasi niente cibo, ha detto Lubinets. Secondo le testimonianze della gente del posto, i bambini sono stati oggetto di abusi psicologici da parte dei loro carcerieri russi, che hanno detto loro che i loro genitori li avevano abbandonati e che non sarebbero più tornati a casa. Un ragazzo di 14 anni è stato arrestato e successivamente torturato solo per aver scattato una foto di attrezzature russe rotte, ha detto Lubinets.

Oltre a Kherson, i russi hanno allestito camere di tortura per i bambini anche nella regione di Kharkiv durante la loro occupazione.

Lo ha denunciato sempre  Dmitry Lubinets, citato da Ukrainska Pravda.

“Ho visto personalmente due camere di tortura a Balakleya”, nell'oblast di Kharkiv, “che erano una di fronte all'altra. Un ragazzo è stato lì per 90 giorni. Ha detto che è stato torturato: lo hanno tagliato con un coltello, hanno riscaldato il metallo e bruciato parte del suo corpo, lo hanno portato fuori più volte per essere colpito e sparato sopra la sua testa”, ha detto Lubinets.

La tortura dei bambini rappresenta l’ulteriore dimostrazione che Putin e il suo esercito si sono resi responsabili di veri e propri crimini di guerra.

E tali crimini, se non durante il conflitto anche dopo la sua fine, che auspico avvenga il prima possibile, devono essere perseguiti. I loro autori non devono restare impuniti.

Quanto avvenuto, inoltre, dimostra con evidenza chi sono gli aggressori e chi invece gli aggrediti. Lo ribadisco perché alcune persone o gruppi di persone, nei Paesi occidentali, non sembrano avere chiaro appunto chi sono gli aggressori.

E quanto avvenuto, poi, dimostra ancora quanto il popolo ucraìno debba essere sostenuto, anche con l’invio di armi.

Certo la pace è auspicabile che si verifichi quanto prima. Ma, finchè Putin non si convince ad interrompere l’invasione dell’Ucraìna, è velleitario ipotizzare che ci possa essere la pace.

E per convincere Putin, a questo punto, la resistenza ucraina, anche con l’invio delle armi da parte dei Paesi occidentali, deve essere sostenuta ed aiutata.

Non ci sono alternative.

mercoledì 14 dicembre 2022

Ucraìna, Putin come Stalin

Putin, nell’ambito della guerra di aggressione da lui promossa ai danni dell’Ucraìna, non si è limitato a provocare, tramite il suo esercito, moltissime morti di civili, ma colpendo le infrastrutture che producono energia, sta impedendo a una parte consistente di ucraìni di riscaldarsi, proprio ora che le temperature scendono anche di diversi gradi sotto zero.

Ancora, ad essere colpiti sono i civili.

Proprio per questa esplicita volontà di Putin di colpire i civili, causando molte vittime, diversi osservatori hanno paragonato Putin a Stalin.

Infatti Stalin provocò, dal 1932 al 1933, una carestia, in Ucraìna, che determinò diversi milioni di morti, carestia denominata holodomor.

Nella seconda metà degli anni ‘20 del del XX secolo, Stalin decise di avviare un processo di trasformazione radicale della struttura economica e sociale dello Stato sovietico, allo scopo di fondare un'economia e una società completamente regolate.

L'Ucraina, assieme ai territori meridionali russi sul mar Nero, dopo la la prima guerra mondiale, aveva confermato la sua vocazione agricola.

Secondo il progetto del governo, la ricchezza prodotta dall'agricoltura doveva essere interamente reinvestita nell'industria, il nuovo motore dell'economia pianificata.

Abbandonate totalmente le tesi di Bucharin, anzi entrato in contrasto con lui, a partire dal 1927 Stalin dispose che le terre venissero unificate in cooperative agricole (kolchoz) o in aziende di Stato (sovchoz), che avevano l'obbligo di consegnare i prodotti al prezzo fissato dallo Stato. Affinché il processo si realizzasse compiutamente, le terre e tutta la produzione dovevano passare sotto il controllo dello Stato.

Ma l'Ucraina aveva una lunga tradizione di fattorie possedute individualmente. I piccoli imprenditori agricoli (kulaki) costituivano la componente più indipendente del tessuto sociale ed economico locale.

L'azione dello Stato ebbe così in Ucraina effetti particolarmente drammatici.

Sulla popolazione contadina ucraina si concentrò l'azione coercitiva dello Stato sovietico, che non rinunciò al sistematico ricorso alla violenza per attuare il suo piano di trasformazione della società.

La strategia fu attuata in due periodi successivi: dal 1929 al 1932 furono varate due misure, dette “collettivizzazione” e “dekulakizzazione”.

La prima comportava la fine della proprietà privata  della terra. Tutti gli agricoltori dovettero trovare un impiego nelle fattorie collettive create dal partito.

La “dekulakizzazione” consisteva nell'eliminazione fisica o nella deportazione (nelle regioni artiche) di milioni di contadini piccoli proprietari terrieri.

Queste misure estreme furono prese durante la “Seconda Rivoluzione” o "Rivoluzione di Stalin" fra il 1927-1928 e negli anni 1932-1933 furono attuate misure governative tali da mettere in ginocchio la popolazione sopravvissuta, e per la prima volta nelle campagne ucraine il tasso di mortalità divenne superiore a quello di natalità.

Con queste misure il governo di Mosca aggravò la carestia (per altro prevedibile) che nello stesso periodo colpì i territori interessati.

In pochi mesi, la campagna ucraina, una regione storicamente molto fertile, si trasformò in uno scenario nel quale imperversava appunto una terribile carestia.

La penuria alimentare colpì soprattutto la popolazione che viveva nelle campagne.

La carestia è costata milioni di vite, soprattutto perchè il sistema delle fattorie collettive doveva restare.

Il Congresso degli Stati Uniti ha sostenuto che la carestia 1932-1933 fu un deliberato atto politico.

Il polacco Raphael Lemkin  utilizzò il termine genocidio, da lui inventato, per descrivere la carestia, sostenendo che il governo sovietico l'avrebbe provocata volontariamente per sterminare i contadini ucraini e così distruggere la nazione e la cultura ucraina, portando a compimento, a suo dire, il piano di russificazione del Paese da parte del partito comunista sovietico

Il congresso canadese-ucraino del 2005 riconobbe l'Holodomor come genocidio di oltre 7 milioni di persone.

L'Unione sovietica ha taciuto a lungo sugli effetti della carestia, cominciando a parlarne solo negli anni '80 durante la perestrojka.

Le ricerche accademiche stimano le vittime in Ucraina tra gli 1,5 milioni di Wheatcroft, secondo cui non vi fu pianificazione, e i 5 milioni] di Conquest, che ritenne la carestia una conseguenza delle politiche e delle misure adottate da Stalin, che avrebbe potuto essere evitata se lo stesso non avesse posto avanti gli “interessi sovietici”.

Il ministro degli esteri ucraino dichiarò alla 61ª assemblea delle Nazioni Unite che le vittime furono tra i 7 ed i 10 milioni.

Comunque anche se non è certo il numero preciso delle vittime, esse furono senza dubbio milioni e sono altrettanto indubitabili le responsabilità di Stalin.

domenica 11 dicembre 2022

A Baidoa in Somalia morti per fame molti bambini

In un singolo cimitero di Baidoa, città meridionale della Somalia, sono già stati seppelliti i corpi di 230 bambini uccisi dalla malnutrizione che sta salendo a livelli mai visti dall'ultima carestia dichiarata nel Paese 11 anni fa. Famiglie esauste - molte delle quali hanno camminato per giorni dai villaggi colpiti dalla siccità per cercare aiuto nella città - vi stanno seppellendo i propri bambini ogni giorno. Ogni piccola tomba è segnata da rocce e cespugli spinosi su cui le famiglie piangono e pregano.

A Baidoa il numero di bambini trattati per la peggiore forma di malnutrizione è aumentato di oltre cinque volte tra gennaio e ottobre, secondo i dati raccolti dalle organizzazioni umanitarie, tra cui Save the Children. 

Ed è proprio Save the Children, in un comunicato a riferire quanto è avvenuto e quanto sta avvenendo in quella città della Somalia.

“I dati preliminari di un'indagine condotta dagli operatori sanitari della comunità su 90.000 bambini della città indicano che i tassi di malnutrizione acuta sono pari a quelli del 2011. Circa 260.000 persone sono morte durante la carestia del 2011-12, metà delle quali prima ancora che fosse dichiarata. Circa il 50% delle vittime erano bambini di età inferiore ai cinque anni.

Anche se non c’è ancora stata una dichiarazione ufficiale di carestia, chi scava le fosse per seppellire le vittime sta lavorando sotto il sole cocente con temperature di 35 gradi, sebbene questa dovrebbe essere la stagione delle piogge mentre è caduto meno del 60% della pioggia attesa, un segnale di allarme che preannuncia la quinta stagione mancata consecutiva.

Più di 600.000 persone costrette a lasciare le loro case dalla crisi climatica si sono accampate in 500 campi intorno alla città alla disperata ricerca di acqua e cibo, dopo che i loro pozzi si sono prosciugati, sono mancati i raccolti e il bestiame è morto. Molti sono arrivati troppo tardi per poter ricevere le cure salvavita per i loro bambini malati…

Migliaia di donne si stanno riversando negli accampamenti di fortuna di Baidoa dove montano strutture di bastoni e le coprono con indumenti e tessuti dai colori vivaci per proteggere le loro famiglie dalle intemperie. Alcune si sono fatte strada attraverso i combattimenti mentre le forze governative cercano di respingere Al-Shabaab, un gruppo armato che controlla ampie zone della campagna…

Il centro di stabilizzazione di Save the Children a Baidoa è un’opportunità di salvezza per i bambini più gravemente malnutriti che vi accedono. Oltre il 90% dei bambini ricoverati recupera abbastanza da essere dimesso entro 14 giorni. Molti vengono sottoposti a flebo per idratarli e ricevono latte arricchito di vitamine e una pasta di arachidi ricca di proteine. Alcuni vengono trattati per la polmonite con semplici antibiotici. Il sollievo sui volti delle madri è evidente.

“Abbiamo perso sette bambini il mese scorso. Non è normale. Sono impegnato 24 ore al giorno per la mia gente e la mia città”, ha raccontato il dottor Mohamed Orman Wehliye, mentre con 12 infermieri si stava occupando di 70 bambini sotto i cinque anni, parlando con grande passione del loro lavoro….

Claire Sanford, vicedirettore umanitario di Save the Children in Inghilterra, ha sottolineato che i bambini stanno morendo di fame indipendentemente dal fatto che la soglia tecnica ufficiale della carestia non sia stata raggiunta.

‘I nostri centri sono invasi da madri che fanno tutto il possibile per evitare che i loro figli diventino un altro tumulo in un cimitero. C'è un disperato bisogno di più denaro per aiutarle a salvarli’, ha affermato Sandford.

Gli ultimi dati delle Nazioni Unite mostrano che la metà dei 15 milioni di abitanti della Somalia sta affrontando una grave carenza di cibo e si prevede che più di 300.000 persone si troveranno in condizioni di carestia entro dicembre di quest'anno.

Il numero di persone colpite dalla grave siccità è salito a 7,8 milioni nell'agosto di quest'anno, rispetto ai 3,2 milioni dello scorso dicembre”.

martedì 22 novembre 2022

Cosa succederà in Iran?

Da diverse settimane ormai in Iran si è sviluppata una vera e propria rivolta popolare, che ha avuto inizio con l’uccisione di Mahsa Amini arrestata dalla polizia locale con l’accusa di indossare in modo poco consono il velo.

La repressione è durissima, con oltre 300 morti tra cui una quarantina di bambini secondo gli attivisti per i diritti umani, oltre a 14.000 arresti e alle prime condanne a morte.

Con il passare del tempo la stretta del regime potrebbe prevalere come già accaduto in passato, ma finora non ha avuto alcun impatto.

Il movimento va avanti con slogan sempre più diretti, come “morte al dittatore” rivolto contro la guida suprema Ali Khamenei.

Quali potranno essere gli sviluppi futuri di questa situazione?

Non è certo facile rispondere a questa domanda, ma qualche ipotesi è già possibile formularla.

Pierre Haski in un suo scritto ha rilevato tra l’altro: “A questo punto si aprono diversi scenari.

Considerando le immagini che arrivano da Mahabad, le voci in merito a una spaccatura nel regime e la determinazione dei giovani ma anche dei falchi del governo, non possiamo escludere l’ipotesi di una guerra civile.

Già in passato l’Iran di Khomeini ha vissuto diversi periodi vicini alla guerra civile, e se una parte delle forze di sicurezza si schierasse con i manifestanti questa possibilità diventerebbe più concreta.

Ma c’è una seconda opzione.

Gli analisti ipotizzano infatti uno scenario ‘alla pachistana’, ovvero una militarizzazione del potere a scapito del dominio dei religiosi.

In questo caso i guardiani della rivoluzione, braccio armato della repubblica islamica, diventerebbero più nazionalisti che messianici, un vero potere ombra a immagine dei militari pachistani.

Questa svolta militare permetterebbe di fare concessioni sul piano sociale ai manifestanti, in particolare ai giovani delle città, preservando al contempo la realtà del potere politico.

Difficile immaginare uno sviluppo di questo tipo fino a quando l’imam Khamenei è in vita, ma un deterioramento della situazione potrebbe far precipitare gli eventi.

Infine bisogna lasciare aperto uno spiraglio, minimo per ragioni di realismo ma comunque esistente, a una vittoria del movimento di protesta.

Affinché ciò accada sarebbe indispensabile una profonda rottura degli equilibri attuali e dei rapporti di forze.

Ma l’Iran non smette di stupirci, e di sicuro continuerà a farlo”.

Io non mi avventuro nel formulare ipotesi alternative su quanto potrà avvenire in futuro in Iran.

Intendo però rilevare che, rispetto all’inizio delle manifestazioni, l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, nei Paesi occidentali, è andata riducendosi.

Inoltre, le prese di posizione dei governi e delle istituzioni internazionali sono state del tutto insufficienti.

Io credo, invece, che un maggiore interesse, soprattutto da parte dei governi e delle istituzioni internazionali, sarebbe necessario perché potrebbe agevolare gli artefici della rivolta popolare che sono, in primo luogo, giovani, ulteriore motivo che giustifica un sostegno aperto di vari soggetti, all’esterno dell’Iran.

Un sostegno molto utile quanto meno per limitare il numero dei morti che potrebbe anche accrescersi notevolmente, nel prossimo futuro.

 

 

 

martedì 15 novembre 2022

Il lavoro sempre più precario e poco remunerato

 

Sette su dieci nuovi contratti sono a tempo determinato. L’11,3% dei lavoratori in part time involontario (contro il 3,2% della media Ocse). Il 10,8% degli occupati sotto la soglia di rischio povertà (contro una media Ue dell’8,8%). Solo l’8,6% delle imprese ha adottato politiche in tema di sostenibilità. L’Italia unico Paese dell’area Ocse in cui il salario medio annuale è diminuito (-2,9%) nell’ultimo trentennio (1990-2020).

Questi dati sono contenuti nel rapporto  2022 dell’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche pubbliche). I dati si riferiscono al 2021.

“Malgrado alcuni segnali confortanti - ha affermato Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp - alcune debolezze del nostro sistema produttivo sembrano essersi cronicizzate, con il lavoro che appare intrappolato tra bassi salari e scarsa produttività.

Per questo occorre pensare ad una ‘nuova stagione’ delle politiche del lavoro, che punti a migliorare la qualità dei posti di lavoro, soprattutto per i neoassunti e per i lavoratori a basso reddito, per le posizioni lavorative precarie e con poche possibilità di carriera, dove le donne e i giovani sono ancora maggiormente penalizzati.

Le politiche del lavoro devono integrarsi con le politiche industriali e con le politiche di sviluppo, in una strategia unitaria orientata al rafforzamento della struttura produttiva, alla crescita del capitale umano e dell’innovazione tecnologica, al rafforzamento della coesione e della sicurezza sociale. Una strategia che deve essere disegnata ed attuata a tutti i livelli territoriali con un coordinamento capace di rispondere alle sfide del profondo cambiamento strutturale in atto”.

Nel 2021 il 68,9% dei nuovi contratti sono stati a tempo determinato (il 14,8% a tempo indeterminato). Nell’insieme il lavoro atipico (ovvero tutte quelle forme di contratto diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato full time) rappresentava l’83% delle nuove assunzioni con un aumento del 34% negli ultimi 12 anni.

“Il tema del crescente aumento dei contratti non standard – ha precisato Fadda - rappresenta una costante del modello di sviluppo occupazionale italiano, che ha attraversato la prima crisi 2007-2008, sino a diventare requisito ‘strutturale’ della ripresa post Covid”.

Nel 2021 il part time involontario (la quota di lavoratori che svolgono un lavoro a tempo parziale non per scelta) rappresentava l’11,3% del totale dei lavoratori contro il solo 3,2% nell’area Ocse.

Ci sono poi quanti, pur lavorando (dipendente o autonomo) sono in una famiglia a rischio povertà, cioè con un reddito disponibile equivalente al di sotto della soglia di rischio povertà. Nell’ultimo decennio (2010-2020) il tasso di “lavoro povero” è stato pressoché costante con un valore medio pari all’11,3% e una distanza rispetto all’Unione europea superiore mediamente del 2,1%. 

L’8,7% dei lavoratori (subordinati e autonomi) percepisce una retribuzione annua lorda di meno di 10.000 euro mentre solo il 26% dichiara redditi annui superiori a 30.000 euro, valori molto bassi se comparati con quelli degli altri lavoratori europei.

Se consideriamo il 40% dei lavoratori con reddito più basso, il 12% non è in grado di provvedere autonomamente ad una spesa improvvisa, (quindi non ha risparmi o capacità di ottenere credito), il 20% riesce a fronteggiare spese fino a 300 euro e il 28% spese fino a 800 euro. Quasi uno su tre ha dovuto posticipare cure mediche.   

Tutto questo in un contesto generale in cui il nostro Paese nel corso degli ultimi 30 anni (1990 -2020) è l’unico ad aver registrato un calo dei salari (- 2,9%) a fronte di una crescita media dei Paesi Ocse del 38,5%.

Nello stesso periodo la produttività è cresciuta del 21,9%, non sembrano dunque aver funzionato i meccanismi di aggancio dei livelli salariali alla performance del lavoro. Nell’ultimo decennio (2010-2020), in particolare, i salari sono diminuiti dell’8,3%.

“Questa condizione di stagnazione dei salari è resa più preoccupante dalla ripresa dell’inflazione – ha concluso il presidente dell’Inapp - per cui si torna a porre il problema dei meccanismi idonei a contrastare la riduzione del potere d’acquisto di tutti i redditi fissi.

Le cause di una dinamica salariale così contenuta sono diverse, una di queste è il meccanismo di negoziazione dei salari. Resta bassa la quota di imprese che dichiarano di applicare entrambi i livelli di contrattazione (4%). Inoltre, in sette anni si è ridotto il numero di aziende che dichiarano di applicare un contratto nazionale di lavoro (-10%), mentre si è più che duplicata la quota di imprese che dichiarano di non applicare alcun contratto (dal 9% nel 2011 al 20% nel 2018)”.

Nel rapporto si parla anche di fabbisogni di professioni e competenze. Nel 2021 solo 22,8% delle imprese italiane ha segnalato la necessita di adeguare le conoscenze e le competenze di specifiche figure professionali, nel 2017 erano un terzo.

Sono le realtà produttive medio-grandi a registrare con maggiore frequenza la necessità di aggiornare le conoscenze e le competenze del personale (37,1% per le imprese con 50-249 addetti e 40,2% per quelle con 250 addetti e oltre). Tra le professioni ad alta qualificazione quelle tecniche sono il segmento per il quale emerge una maggior esigenza di aggiornamento in presenza di processi di innovazione di impresa. In particolare, per il 16,7% delle professioni tecniche viene indicato un fabbisogno professionale laddove sono stati avviati interventi volti a potenziare la competitività di impresa.

Rispetto agli interventi attuati, si segnala come nel sistema produttivo italiano sussistano ancora significative difficoltà e ritardi nello sviluppo di politiche in tema di sostenibilità, adottate tra il 2018 e il 2020 solo dall’8,6% delle imprese (in misura maggiore da quelle medio-grandi).

I principali interventi in media hanno infatti riguardato il miglioramento della gestione dei rifiuti (25%), l’efficienza e il risparmio energetico (14,2%) e la prevenzione/riduzione dell’inquinamento ambientale (12,4%). Il 10,2% delle imprese italiane ha, invece, introdotto innovazioni in tema di competitività (in particolare le imprese medio-grandi, 20% circa). Oltre un quarto (35%) ha introdotto modifiche nell’organizzazione del lavoro, anche in risposta alla pandemia.

E io ritengo che affrontare con decisione i problemi rappresentati dal lavoro precario e dall’insufficiente livello delle retribuzioni dovrebbe essere il principale obiettivo del centro sinistra, e in primo luogo del Pd, per poter accrescere i propri consensi.

mercoledì 9 novembre 2022

Molti giovani italiani emigrano all'estero

 

Si era soliti affermare che l’Italia da Paese di emigrazione si è trasformato negli anni in Paese di immigrazione: questa frase non è mai stata vera e, a maggior ragione, non lo è adesso perché smentita dai dati e dai fatti. Lo dimostra un rapporto redatto dalla fondazione Migrantes.

Dall’Italia non si è mai smesso di partire e negli ultimi difficili anni di limitazione negli spostamenti a causa della pandemia, di recessione economica e sociale, di permanenza di una legge nazionale per l’immigrazione sorda alle necessità del tessuto lavorativo e sociodemografico italiano, la comunità dei cittadini italiani ufficialmente iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) ha superato la popolazione di stranieri regolarmente residenti sul territorio nazionale.

Una Italia interculturale in cui l’8,8% dei cittadini regolarmente residenti sono stranieri (in valore assoluto quasi 5,2 milioni), mentre il 9,8% dei cittadini italiani risiedono all’estero (oltre 5,8 milioni).

Fino a quando l’estero rimane per i giovani e i giovanissimi attualmente residenti in Italia un desiderio, il problema, per il nostro Paese, resta poco grave e circoscritto; la storia nazionale, però, insegna che la mobilità è qualcosa di strutturale per l’Italia e il passato più recente ha visto e vede proprio le nuove generazioni sempre più protagoniste delle ultime partenze. D’altronde non potrebbe essere altrimenti considerando quanto la mobilità sia entrata a far parte pienamente dello stile di vita, tanto nel contesto formativo e lavorativo quanto in quello esperienziale e identitario.

L’attuale comunità italiana all’estero è costituita da oltre 841.000 minori (il 14,5% dei connazionali complessivamente iscritti all’Aire) moltissimi di questi nati all’estero, ma tanti altri partiti al seguito delle proprie famiglie in questi ultimi anni. Ai minori occorre aggiungere gli oltre 1,2 milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni (il 21,8% della popolazione complessiva Aire, che arriva a incidere per il 42% circa sul totale delle partenze annuali per solo espatrio).

Non bisogna dimenticare, infine, tutti quelli che partono per progetti di mobilità di studio e formazione - che non hanno obbligo di registrazione all’Aire - e chi è in situazione di irregolarità perché non ha ottemperato all’obbligo di legge di iscriversi in questa Anagrafe.

Una popolazione giovane, dunque, che parte e non ritorna, spinta da un tasso di occupazione dei giovani in Italia tra i 15 e i 29 anni pari, nel 2020, al 29,8% e quindi molto lontano dai livelli degli altri Paesi europei (46,1% nel 2020 per l’Ue-27) e con un divario, rispetto agli adulti di 45-54 anni, di 43 punti percentuali. I giovani occupati al Nord, peraltro, sono il 37,8% rispetto al 30,6% del Centro e al 20,1% del Mezzogiorno. Al divario territoriale si aggiunge quello di genere: se i ragazzi residenti al Nord risultano i più occupati con il 42,2%, le ragazze della stessa fascia di età ma residenti nel Mezzogiorno non superano il 14,7%.

Il triplice rifiuto percepito dai giovani italiani - anagrafico, territoriale e di genere - incentiva il desiderio di estero e soprattutto lo fa mettere in pratica. Dal 2006 al 2022 la mobilità italiana è cresciuta dell’87% in generale, del 94,8% quella femminile, del 75,4% quella dei minori e del 44,6% quella per la sola motivazione “espatrio”.

Una mobilità giovanile che cresce sempre più perché l’Italia ristagna nelle sue fragilità; ha definitivamente messo da parte la possibilità per un individuo di migliorare il proprio status durante il corso della propria vita accedendo a un lavoro certo, qualificato e abilitante (ascensore sociale); continua a mantenere i giovani confinati per anni in “riserve di qualità e competenza” a cui poter attingere, ma il momento non arriva mai. Il tempo scorre, le nuove generazioni diventano mature e vengono sostituite da nuove e poi nuovissime altre generazioni, in un circolo vizioso che dura da ormai troppo tempo.

E’ da tempo che i giovani italiani non si sentono ben voluti dal proprio Paese e dai propri territori di origine, sempre più spinti a cercar fortuna altrove. La via per l’estero si presenta loro quale unica scelta da adottare per la risoluzione di tutti i problemi esistenziali (autonomia, serenità, lavoro, genitorialità, ecc.). E così ci si trova di fronte a una Italia demograficamente in caduta libera se risiede e opera all’interno dei confini nazionali e un’altra Italia, sempre più attiva e dinamica, che però guarda quegli stessi confini da lontano.

Al 1° gennaio 2022 i cittadini italiani iscritti all’Aire erano 5.806.068, il 9,8% degli oltre 58,9 milioni di italiani residenti in Italia.

Mentre l’Italia ha perso in un anno lo 0,5% di popolazione residente (-1,1% dal 2020), all’estero è cresciuta negli ultimi 12 mesi del 2,7% che diventa il 5,8% dal 2020.

Non c’è nessuna eccezione: tutte le regioni italiane perdono residenti aumentando, però, la loro presenza all’estero.

Il 48,2% degli oltre 5,8 milioni di cittadini italiani residenti all’estero è donna (2,8 milioni circa in valore assoluto). Si tratta, soprattutto, di celibi/nubili (57,9%) o coniugati/e (35,6%). I/le divorziati/e (2,7%) hanno superato i/le vedovi/e (2,2%). Da qualche anno si registrano anche le unioni civili (circa 3.000).

I dati sul tempo di residenza all’estero indicano che il revival delle partenze degli italiani non è recentissimo, ma risale alla profonda crisi vissuta nel 2008-2009 dal nostro Paese. Infatti, il 50,3% dei cittadini oggi iscritti all’Aire lo è da oltre 15 anni e “solo” il 19,7% è iscritto da meno di 5 anni. Il resto si divide tra chi è all’estero da più di 5 anni ma meno di 10 (16,1%), e chi lo è da più di 10 anni ma meno di 15 (14,3%).

Gli oltre 5,8 milioni di italiani iscritti all’Aire hanno un profilo complesso: sono giovani (il 21,8% ha tra i 18 e i 34 anni), giovani adulti (il 23,2% ha tra i 35 e i 49 anni), adulti maturi (il 19,4% ha tra i 50 e i 64 anni), anziani (il 21% ha più di 65 anni, ma di questi l’11,4% ha più di 75 anni) o minori (il 14,5% ha meno di 18 anni).

Oltre 2,7 milioni (il 47,0%) sono partiti dal Meridione (di questi, 936.000 circa, il 16%, dalla Sicilia o dalla Sardegna); più di 2,1 milioni (il 37,2%) sono partiti dal Nord Italia e il 15,7% è, invece, originario del Centro Italia.

Il 54,9% degli italiani (quasi 3,2 milioni) sono in Europa, il 39,8% (oltre 2,3 milioni) in America, centro-meridionale soprattutto (32,2%, più di 1,8 milioni).

Gli italiani sono presenti in tutti i Paesi del mondo. Le comunità più numerose sono, ad oggi, quella argentina (903.081), la tedesca (813.650), la svizzera (648.320), la brasiliana (527.901) e la francese (457.138).

domenica 6 novembre 2022

Pericoloso il decreto anti rave party

 

Come è noto, il governo, tra i primi provvedimenti presi, ha approvato un decreto, apparentemente solo contro i rave party, ma che in realtà potrebbe essere utilizzato anche in molti altri casi, determinando di fatto una forte limitazione delle libertà dei cittadini, in contrasto con quanto prevede la Costituzione.

Infatti il decreto in questione non è chiaro nella sua formulazione e il nuovo reato che istituisce potrebbe colpire, ad esempio, anche gli studenti che occupano una scuola o i partecipanti ad una manifestazione di critica alle decisioni del governo.

Peraltro, quanto avvenuto recentemente in provincia di Modena, dimostra che è possibile sciogliere un rave party anche utilizzando la normativa già esistente, senza la necessità di prevedere un nuovo reato, punibile addirittura con una pena fino a 6 anni di reclusione.

La prima domanda che ci si può porre è la seguente: quel decreto, così come formulato, è il frutto di un errore nella formulazione oppure volutamente si è varato un decreto che limitasse, appunto, le libertà dei cittadini?

Difficile rispondere a questa domanda.

Quello che è certo, considerando che quel decreto riguarda anche altre questioni, come l’anticipo del reintegro nel lavoro dei medici e degli infermieri no vax, che cioè non si sono vaccinati, i provvedimenti presi nella prima riunione effettiva del Consiglio dei Ministri, rappresentano una sorta di norme-manifesto, che indicano come il nuovo governo vorrà muoversi, soprattutto sul tema dei diritti, con un atteggiamento autoritario e che lo connotano come un governo di estrema destra, quanto meno appunto sul tema dei diritti.

E’ vero che, ritornando al provvedimento anti rave party, sembra possibile che la maggioranza in Parlamento intenda modificare il provvedimento in questione, ma intanto quel decreto è già in vigore e poi occorrerà verificare se effettivamente sarà modificato e come sarà modificato.

Che il nuovo governo voglia assumere una connotazione di natura autoritaria, quanto meno su certe questioni, è inoltre dimostrato dal tentativo di impedire lo sbarco delle navi delle Ong che, nel Mediterraneo, hanno soccorso circa un migliaio di migranti, tra i quali molti minori non accompagnati.

E pertanto è necessario che in Parlamento e fuori di esso si manifesti un’opposizione forte nei confronti del governo che, certamente, approvi i suoi provvedimenti quando li ritenga positivi, ma che, nel caso in cui le decisioni governative abbiano le caratteristiche del decreto fino ad ora esaminato, contrasti duramente la loro approvazione in Parlamento, anche ricorrendo ad iniziative che si svolgano all’ esterno del Parlamento stesso.

mercoledì 2 novembre 2022

Ma i ministri e gli imprenditori non hanno figlie?

 

Il tasso di fecondità delle giovani con meno di 30 anni è in Italia tra i più bassi in Europa e lo stesso accade per il tasso di occupazione femminile per chi ha un’età compresa tra i 25 e i 29 anni. E fino ad ora non è stata attuata una politica organica tendente a migliorare la situazione esistente.

Mi sembra legittimo quindi porsi una domanda: ma coloro che sono al vertice degli organismi di governo e i gli imprenditori non hanno figlie?

E comunque se non si cambia in breve tempo ciò che avviene ora, è inevitabile che il tasso di natalità resti molto basso, provocando una costante e notevole riduzione della popolazione, un processo di invecchiamento ancora maggiore dell’attuale, e pertanto notevoli problemi per la sostenibilità del sistema previdenziale fin dai prossimi anni.

L’Italia, è noto, non è un Paese per i giovani e tanto meno lo è per le giovani donne.

Cosa si potrebbe fare quindi affinchè si verifichi un’inversione di tendenza?

Alcune proposte sono contenute in un articolo scritto dal demografo Alessandro Rosina:

“…richiedono che venga favorito un processo di convergenza parallela tra donne e uomini…Agire solo sulla convergenza è come pretendere che le donne possano eccellere solo se adottano un ‘avatar’ maschile esterno. La conseguenza è una carenza di donne al vertice o la possibilità di arrivarci solo se si rinuncia ad avere figli e si adottano schemi maschili, spesso accentuandoli..

In questa prospettiva il primo fronte su cui agire è la formazione. Le giovani donne presentano una più bassa dispersione scolastica e raggiungono titoli di studio più elevati dei coetanei. Sono però molto meno messe nelle condizioni di combinare le sensibilità e le modalità di apprendimento che le caratterizzano con competenze tecniche ed informatiche avanzate…

Come le donne non sono meno predisposte alle materie tecniche, ma vanno aiutate a trovare la declinazione più adatta per appassionarsi a esse e metterle in coerenza con proprie sensibilità, così gli uomini  non sono meno predisposti all’attività sociale e di cura…

Questo è il secondo cruciale fronte su cui agire. La combinazione tra sovraccarico di accadimento materno con rinuncia al lavoro e sovraccarico di lavoro paterno con rinuncia al rapporto di attaccamento, è parte di un modello che pone vincoli anziché promuovere benessere.

E’ necessario, allora, superare persistenti stereo tipi anche attraverso nuovi modelli culturali favoriti da politiche mirate, in grado di rendere la scelta e l’esperienza di un figlio condivisa tra i genitori, ma anche armonizzata con le altre scelte nei percorsi paralleli di carriera.

A ben vedere, quindi, l’aumento dell’occupazione femminile (o ancor, meglio, la valorizzazione dello specifico capitale femminile in ogni ambito), inserita nella giusta prospettiva, non è solo una questione di rivendicazioni e diritti, verso il quale l’attuale governo appare tiepido, ma aiuta, pragmaticamente, tutto il Paese a funzionare meglio…

Consente, inoltre, di contenere gli squilibri demografici di una popolazione che invecchia, ma anche di ridurre le diseguaglianze sociali e territoriali, dato che la bassa occupazione femminile penalizza soprattutto le regioni del Sud e l’accesso a un secondo reddito delle famiglie con figli. Favorisce, per essere più espliciti, la natalità e riduce la dipendenza passiva dal reddito di cittadinanza….)”.

Aggiungo alle considerazioni già svolte da Rosina, la necessità che il sistema di welfare si estenda, aumentando considerevolmente il numero degli asili nido, che si estenda il tempo pieno per quanto concerne il sistema scolastico e che siano varati provvedimenti di natura fiscale che favoriscano le famiglie con figli.

Ma tutti questi interventi devono essere varati il prima possibile, prima che sia troppo tardi per consentire un’inversione di tendenza relativamente al progressivo decremento della popolazione italiana.

giovedì 27 ottobre 2022

La marcia su Roma spiegata ai ragazzi

 

Oggi ricorrono i 100 anni dalla marcia su Roma, la manifestazione armata dell'ottobre 1922 con la quale Benito Mussolini e le sue camicie nere presero il potere instaurando il ventennio fascista. Non si deve dimenticarla né si devono dimenticare le nefandezze di cui Mussolini e i fascisti si resero responsabili. Né si deve dimenticare che un elemento costitutivo della repubblica italiana è stato l’antifascismo.

E la marcia su Roma va spiegata a chi non lo conosce, ad esempio ai ragazzi.

Pertanto ho deciso di riportare integralmente uno scritto, pubblicato su www.focusjunior.it, denominato appunto “La marcia su Roma spiegata ai ragazzi”.

Che cosa è stata la marcia su Roma?

Prima di tutto inquadriamo con precisione in fatti. La marcia su Roma, realizzatasi il 28 ottobre 1922, fu quell'evento storico in cui circa 20.000 uomini, armati e appartenenti al neonato Partito Nazionale Fascista (PNF), entrarono nella capitale del Regno d'Italia con l'intento di occuparla e costringere il re Vittorio Emanuele III ad affidare il governo a Mussolini.

Lo scopo della marcia fu effettivamente raggiunto, tanto che due giorni dopo il re incaricò ufficialmente il futuro Duce di formare un nuovo governo per garantire stabilità a un Paese in tumulto. Da quel momento, Mussolini e i suoi non abbandonarono il potere per i successivi 20 anni e la Marcia su Roma venne celebrata dal nuovo regime come una rivoluzione che aveva consegnato l'Italia a un futuro libero e glorioso.

Tuttavia per comprendere appieno che cosa accadde davvero in quei giorni, occorre andare un po' più a fondo.

Qual’era la situazione politica nel 1922?

Dopo la fine della prima guerra mondiale, l'Italia era una nazione in forte crisi. Nonostante la vittoria al fianco delle forze dell'Intesa (Regno Unito e Francia in testa) infatti, il Paese non solo non aveva ottenuto tutti i territori a cui mirava al momento dell'ingresso nel conflitto (Trieste, Fiume, tutta la Dalmazia), ma era anche uscita molto impoverita dallo sforzo bellico.

Tale precarietà, combinata con l'avvento delle ideologie che predicavano la fine delle disuguaglianze e la riscossa della classe operaia (socialismo e poi comunismo), diede vita a un periodo di grande instabilità - il cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920) - durante il quale si accese una violenta lotta tra le masse proletarie, operai e contadini che chiedevano aumenti di salari e abbassamenti dei prezzi e la classe borghese (industriali, proprietari terrieri, ecc...).

Scioperi, scontri e violenze erano all'ordine del giorno e in tale clima d'incertezza fecero la loro comparsa i fasci di combattimento guidati da Benito Mussolini: un'organizzazione para-militare (gente armata ma non inquadrata nell'esercito militare) che con manganelli e camicie nere attaccava i manifestanti e gli oppositori socialisti per riportare l'ordine nelle piazze.

L’avvento del fascismo

Benito Mussolini era un maestro di scuola, giornalista ed ex-socialista che all'indomani dello scoppio della Grande Guerra era stato espulso dal partito per le sue idee interventiste (cioè a favore dell'ingresso in guerra dell'Italia) e nazionaliste. Dopo il 1915, Mussolini si arruolò volontario nell'esercito e una volta terminata la guerra divenne il punto di riferimento per tanti ex-combattenti e nazionalisti scontenti dalla cosiddetta “vittoria mutilata” (così venivano chiamate le condizioni di pace che non riconoscevano all'Italia tutti i territori che le erano stati promessi).

Forte del suo seguito di patrioti e giovani agguerriti, nel 1919 Mussolini fondò i Fasci Italiani di Combattimento. Ben presto tali picchiatori divennero il braccio armato della borghesia, la quale usava i Fasci per stroncare gli scioperi e sedare qualsiasi forma di protesta nelle fabbriche.

Nel 1920 poi, Mussolini trasformò questo movimento in un vero partito politico, fondando, in Piazza San Sepolcro a Milano, il Partito Nazionale Fascista. Tale partito, benché privo di una vera e propria ideologia e guardato con sospetto per l'indole violenta dei suoi membri,  godeva dell'appoggio sia di una parte della classe dirigente (che come detto usava i fascisti per soffocare il malcontento), sia di una fetta della popolazione, la quale temeva che una vittoria dei socialisti avrebbe provocato una sanguinosa rivoluzione, come era accaduto in Russa nel 1917. 

Come si arrivo alla marcia su Roma?

Dopo un'apertura ai socialisti del vecchio Giovanni Giolitti, probabilmente il politico più importante e influente dei primi 20 anni del Novecento italiano, nel 1921 si tennero nuove elezioni e alcuni fascisti, tra cui Mussolini, vennero eletti come deputati. Tuttavia il governo rimase debole e fragile, tanto che Mussolini e suoi iniziarono a pensare di poter prendere il potere con la forza.

Da mesi infatti, benché le “squadracce” di picchiatori fascisti terrorizzavano con la violenza gli oppositori politici, scioperi e proteste stavano incendiando il Paese e Mussolini si era convinto di essere l'unico in grado d'impedire che l'Italia cadesse nelle mani dei “rossi” (così venivano chiamati socialisti e comunisti). Fu così che nel 1922 prese sempre più piede l'idea di una “rivoluzione fascista”.

Chi organizzò la marcia su Roma?

Per far sì che il Re Vittorio Emanuele III destituisse il governo in vigore per dare mandato ai fascisti, Mussolini e i suoi gerarchi volevano occupare Roma con un vero esercito di volontari e squadristi.

A orchestrare le operazioni furono i capi delle milizie fasciste Emilio De Bono, Italo Balbo, Michele Bianchi e Cesare Maria De Vecchi, che vennero insigniti da Mussolini del titolo di “quadrumviri”, in richiamo alla storia romana  e ai più celebri triumviri Cesare, Crasso e Pompeo.

Sede delle operazioni fu la città di Perugia e il 27 ottobre 1922 treni carichi di fascisti iniziarono a confluire sulla capitale. Il giorno dopo, il fatidico 28 ottobre, circa 20.000 camicie nere si erano radunati nella capitale per occupare le sedi del potere politico. Mussolini, invece, rimase a Milano a seguire l'evolversi della situazione.

Come si svolse la marcia su Roma?

Il giorno della marcia su Roma, quasi 30.000 unità dell'esercito regio italiano erano schierate a difesa della capitale. Alle cinque del mattino Luigi Facta, capo del governo, aveva dichiarato lo stato d'assedio, un provvedimento che avrebbe dato il via libera all'esercito per attaccare e reprimere gli squadristi fascisti. Per eseguire però, tale ordine doveva essere controfirmato dal re, il quale invece si rifiutò di appoggiare la dichiarazione di Facta, lasciando che i fascisti sfilassero in città.

Se Vittorio Emanuele III avesse firmato, i soldati avrebbero presumibilmente disperso senza molti problemi le forze mussoliniane, inferiori per numero ed equipaggiamenti; tuttavia il re non si fidava molto dell'esercito e non voleva scatenare una guerra civile.

Il giorno dopo la marcia, il capo di casa Savoia si mise, dunque, in contatto con Mussolini, il quale partì verso Roma per ricevere il nuovo incarico. Il 30 settembre 1922, i due s'incontrarono e il leader del Pnf ottenne di formare un nuovo governo.

Nessuno lo sapeva, ma in quel giorno era iniziato il ventennio fascista, che si concluderà solo dopo una nuova e ancora più sanguinosa guerra mondiale.

Si trattò di un vero e proprio colpo di stato?

Nonostante nei 20 anni di regime il fascismo continuò a celebrare la marcia su Roma come l'inizio della rivoluzione fascista, non si trattò di un vero e proprio colpo di mano. Come abbiamo appena detto, infatti, Mussolini era già appoggiato da molti dei potenti del Paese, sovrano compreso, che speravano di poterlo controllare o, almeno, inglobare all'interno del sistema per arginare l'ondata socialista ed evitare nuove proteste da parte dei lavoratori.

Dal conto suo, lo stesso Mussolini non esitò a giurare fedeltà alla monarchia e allo Stato, anche se finì per trasformarlo in una dittatura. Emblematico in tal senso fu il suo discorso di presentazione al Parlamento:

“Avrei potuto fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”.

mercoledì 26 ottobre 2022

No alla ricetta Meloni per il Covid

Diverse sono le critiche che io potrei esporre ai contenuti del discorso di Giorgia Meloni alla Camera per l’ottenimento della fiducia. Ma una delle principali, secondo me, riguarda quanto ha detto  e quanto non ha detto a proposito di come è stata affrontata dai precedenti governi la pandemia.

Giorgia Meloni ha criticato aspramente le restrizioni effettuate per contrastare la pandemia e non ha fatto alcun riferimento ai vaccini, alla loro utilità.

E’ noto che la pandemia in Italia ha provocato un elevato numero di morti.

Ma se non fossero state adottate le restrizioni, quali i lockdown, l’utilizzo del green pass, l’obbligo delle mascherine, il numero dei morti sarebbe stato ancora maggiore.

La stessa considerazione può essere svolta per la campagna vaccinale. Se non fosse stata così estesa, come lo è stata, il numero dei morti sarebbe stato ancora più alto.

Meloni ha quindi strizzato l’occhio ai no vax e ai no green pass.

Ma tale atteggiamento è inaccettabile e molto pericoloso.

Molto pericoloso per il futuro.

Infatti nessuno può escludere che vi siano nuove ondate delle varianti che già ci sono state o di quelle, nuove, che potrebbero manifestarsi.

E se il ministero della Salute, guidato peraltro dal rettore dell’università di Tor Vergata a Roma, un medico, Schillaci, non certo no vax, dovesse seguire le indicazioni di Giorgia Meloni, si verificherebbe un grande problema.

E non solo perché si potrebbe determinare, di nuovo, un considerevole numero di morti ma perché alla fine, pur se con ritardo, le restrizioni, in primo luogo i lockdown dovrebbero comunque essere imposte, con evidenti conseguenze economiche negative, non certo auspicabili in un periodo in cui è probabile che si verifichi una recessione causata dagli elevati costi dei prodotti energetici.

L’Italia seguirebbe, in questo modo, il cattivo esempio dell’Inghilterra dove i lockdown furono ritardati e le altre restrizioni furono molto più lievi, con effetti negativi molto forti in termini di morti e di problemi economici.

Invece, il nuovo governo dovrebbe rilanciare la campagna vaccinale, favorendo le quarte e le quinte dosi. Ma non mi sembra che il nuovo governo, se seguirà le indicazioni di Giorgia Meloni, lo vorrà fare.

Anche il professor Andrea Crisanti, microbiologo e neosenatore del Pd, non ha apprezzato per niente il passaggio sulla pandemia nel discorso di Giorgia Meloni.

Ha infatti detto che liberticida non è stata la strategia anti-Covid, ma “le regioni del centro-destra che prima hanno negato il virus  e poi hanno remato contro le misure restrittive”.

Ha poi aggiunto che le parole della neopremier sono “prive di qualsiasi supporto scientifico e pronunciate da una smemorata. Meloni dovrebbe ricordare che a fare disastri senza paragoni al mondo durante la prima ondata è stata proprio la Regione Lombardia, amministrata dal centrodestra.

Che ha negato per parecchio tempo le pericolosità del virus e che negli anni ha costruito un modello di sanità centrato tutto sull’ospedale, lasciando sguarnito il territorio, che infatti non è riuscito a fare alcun filtro durante la prima ondata. Quando le persone morivano senza nemmeno arrivarci, in ospedale”.

Per il professore “anche in seguito, nel 2021, sono state le Regioni di centrodestra a sbracciarsi per chiedere misure meno restrittive. Avremmo potuto evitare decina di migliaia di morti rispetto agli 80.000 che abbiamo contato nonostante i vaccini”.

Infine, per Crisanti  è sbagliato oggi promettere che non si tornerà indietro nelle misure restrittive: “Predire il futuro con questo virus significa privilegiare un approccio ideologico anziché scientifico. Sono affermazioni preoccupanti, perché significano che se mai ci dovessimo ritrovare in situazioni di necessità non verrebbero adottare le misure che servono”.

domenica 23 ottobre 2022

In Qatar più di 6.500 lavoratori immigrati morti per i mondiali di calcio

Più di 6.500 lavoratori immigrati sono morti in 10 anni per costruire gli stadi di calcio in Qatar, Paese che ospiterà la Coppa del mondo del 2022. Questa è l’analisi del “Guardian”, giornale inglese, che spiega anche come la maggior parte delle vittime siano lavoratori immigrati trattati come dei veri e propri schiavi.

Il Qatar è il primo Paese arabo che ospiterà i Mondiali di calcio: dopo l’assegnazione nel dicembre 2010, è iniziato un maxi-piano per la costruzione degli impianti. Sette stadi, un nuovo aeroporto, strade, sistemi di trasporto pubblico, hotel e una città per la finale.

I lavori però sono costati una media di 12 vittime a settimana: più di 6.500 in totale.

I dati provenienti da India, Bangladesh, Nepal e Sri Lanka hanno rivelato che sono state 5.927 le persone morte dal 2011 al 2020.

A questi si uniscono i dati dell’ambasciata del Pakistan in Qatar che hanno segnalato altri 824 decessi sul lavoro di cittadini pakistani.

Ai 6.500 morti vanno aggiunti i decessi di immigrati da altri Paesi come Filippine e Kenya  e le vittime degli ultimi mesi del 2020.

La maggior parte dei decessi è per cause naturali, in special modo insufficienza cardiaca  o respiratoria acuta. Diversi i decessi causati da stress termico: un rapporto dell’Onu stabilisce che per almeno 4 mesi all’anno i lavoratori hanno faticato sotto le temperature  del Qatar (che oscillano intorno ai 40° d’estate, arrivando fino ai 48°  quando ci sono le correnti desertiche).

Le famiglie delle vittime sono state lasciate senza risarcimenti o spiegazioni su come siano morti i loro cari.

Un portavoce del governo a Doha ha affermato che l’elevato numero di decessi è proporzionato alla quantità dei lavorati impiegati, oltre due milioni, pur sottolineando che ogni morte sul lavoro “è una tragedia”.

Il portavoce ha inoltre spiegato che tutti i cittadini e gli stranieri dispongono di un’assistenza sanitaria gratuita di prima classe. Versione smentita dagli avvocati  delle vittime, secondo i quali il Qatar non consente un’autopsia  per chiarire le morti “inaspettate e improvvise”.

“Con le misure di salute e sicurezza molto rigorose in loco… la frequenza degli incidenti nei cantieri della Coppa del Mondo Fifa è stata bassa rispetto ad altri importanti progetti di costruzione in tutto il mondo”, ha detto la Fifa, organo di governo del calcio mondiale, senza però fornire prove, come sottolinea sempre il “Guardian”,

La gran parte dei lavoratori immigrati sono stati trattati come degli schiavi.

Si è verificato infatti un totale loro assoggettamento al datore di lavoro. Vale a dire il sistema della kafala, la cosiddetta sponsorizzazione, che impedisce al dipendente di lasciare il Paese o di cambiare lavoro senza il necessario permesso.

Il patrocinio da parte del datore è dunque fondamentale nell’applicazione delle condizioni contrattuali per l’impiego dei lavoratori migranti, dal momento che uno straniero necessita di uno sponsor (kafeel) per superare le frontiere.

Non era il governo ad assegnargli uno status giuridico, bensì il datore stesso, responsabile di tutte le condizioni formali, dal permesso di soggiorno alla cessazione del rapporto, dal cambio di sponsor a qualsiasi altra autorizzazione.

A fronte di molteplici pressioni internazionali, iniziate proprio con l’assegnazione del Mondiale, il Qatar è intervenuto pesantemente sul sistema della kafala nel settembre del 2020, dopo oltre un decennio, e pochi operai hanno potuto usufruire del nuovo regime, approvato a soli due anni dal fischio d’inizio iridato.

I lavoratori immigrati, giunti in prevalenza dall’Asia meridionale (Nepal, India, Bangladesh e Filippine) ma anche dall’Africa, soprattutto da Ghana e Kenya, si sono a lungo ritrovati in un vicolo cieco che prevedeva un’espressa autorizzazione da parte del datore per cambiare lavoro o per abbandonare il Qatar.