In economia le
credenze prive di fondamento si stanno sviluppando notevolmente. Lo sostiene,
in un articolo pubblicato su www.lavoce.info,
“Contro il negazionismo economico”, l’economista Guido Tabellini.
Le considerazioni di Tabellini mi sembrano molto
interessanti e pertanto ho deciso di riportarne una parte.
“Viviamo in un’epoca in cui il progresso scientifico avanza
a velocità straordinaria. Eppure, spesso le decisioni politiche non incorporano
le migliori e più aggiornate conoscenze, e l’opinione pubblica non solo non è
adeguatamente informata, ma non di rado è vittima di credenze errate e in
contrasto con il consenso scientifico. Paradossalmente, il fenomeno sembra
essersi accentuato con la diffusione di internet.
Il problema esiste in tutti i campi: dalla medicina, alla
climatologia, alle scienze sociali.
Ma è particolarmente rilevante in economia.
Innanzitutto, perché vi sono grandi interessi in gioco.
Organizzazioni, gruppi, imprese hanno un forte incentivo a manipolare
l’opinione pubblica e a influenzare le decisioni politiche, e spesso vi
riescono.
In secondo luogo, perché i fenomeni economici e sociali sono
estremamente complessi e difficili da prevedere e ciò contribuisce a diffondere
l’opinione errata che la scienza economica non abbia nulla di rilevante da
dire.
Infine, perché le implicazioni pratiche dell’economia
riguardano ambiti che sono anche oggetto di visioni ideologiche e di programmi
politici.
E i dati dicono che spesso le opinioni politiche e i giudizi
di valore condizionano anche le credenze individuali circa le conseguenze di
specifici interventi o azioni.
Il risultato è che le conoscenze economiche stentano a
informare il dibattito politico e l’opinione pubblica è spesso vittima di
pregiudizi o credenze che sono in contrasto con il consenso e le conoscenze
consolidate della scienza economica.
Un recente libro di Pierre Cahuc e André Zilberberg illustra
il problema, ne discute le conseguenze e propone possibili rimedi.
Il punto centrale del libro è che negli ultimi anni
l’economia ha attraversato una vera e propria rivoluzione. Grazie alla grande
disponibilità di dati e a importanti innovazioni metodologiche, la conoscenza
economica ora si appoggia su risultati sperimentali o quasi-sperimentali, e
l’evidenza empirica svolge un ruolo fondamentale nel guidarne il progresso.
Da un lato, questo vuol dire che la conoscenza economica ha
ora solide basi empiriche e le sue prescrizioni sono diventate più affidabili.
Dall’altro, il metodo sperimentale può essere esteso per valutare le
conseguenze di specifici interventi di politica economica, senza dover fare
affidamento su ipotesi solo teoriche.
Tuttavia, questi progressi spesso sono ignorati al di fuori
della disciplina, con la conseguenza che il dibattito di politica economica è
di frequente viziato da pregiudizi ideologici…
Ad esempio, anche in Italia il pensiero economico è spesso
additato come un ‘pensiero unico’, adagiato sull’ideologia neoliberista che
vede il mercato come la soluzione di tutti i problemi.
Ma non è così. Innanzitutto, è semplicemente falso che in
economia vi sia un’unica visione dominante. Al contrario, spesso gli economisti
sono accusati di non essere mai d’accordo tra loro, come ci ricorda la battuta
di Winston Churchill: ‘Se metti due economisti in una stanza, hai due opinioni,
a meno che uno di loro sia Lord Keynes, nel qual caso hai tre opinioni’.
In secondo luogo, il neo-liberismo non ha nulla a che vedere
con il consenso scientifico in economia. Basta ricordare che Jean Tirole ha
vinto il premio Nobel in economia nel 2016 per i suoi studi sulla
regolamentazione dei mercati. Chi afferma il contrario semplicemente non sa di
cosa sta parlando.
Il punto è che accusare gli economisti di ‘pensiero unico’ o
di ‘ideologia liberista’ è spesso un modo per screditarne gli argomenti, senza
entrare nel merito delle questioni dibattute.
I nuovi movimenti populisti usano spesso questo argomento,
anche in Italia.
Ciò non deve sorprendere. Sebbene in economia non vi sia un
pensiero unico, infatti, vi è comunque uno stock di conoscenze consolidate e
non vuote di contenuto. Lo stock di conoscenze molte volte è in contrasto con
le ricette populiste.
Anche in Italia, il populismo, di destra come di sinistra,
spesso avanza proposte semplicistiche e miopi: la moneta fiscale come antidoto
all’euro, una flat tax (o tassa unica) al 15%, l’affermazione che un
aumento della spesa pubblica finanziato in disavanzo sia compatibile con la
discesa del debito pubblico.
Queste proposte o affermazioni non stanno in piedi dal punto
di vista economico e si scontrano con le conoscenze consolidate degli
economisti.
Ecco allora che conviene screditare l’economia e accusarla
di pensiero unico e ideologico.
Diffondere la sfiducia verso gli esperti e le élite, cioè, è
un modo per evitare di fare i conti con la realtà…
Ci sono tre ricette per evitare che l’opinione pubblica sia
vittima di credenze prive di fondamento, e per avvicinare il dibattito politico
alle migliori e più consolidate conoscenze in campo economico.
Prima di tutto, gli economisti non devono vendere false
certezze. L’economia ha molte implicazioni rilevanti per la politica economica,
e ormai ci sono tante conoscenze pratiche che possono informare le decisioni
politiche. Tuttavia, in economia non vi sono leggi universali che valgono con
esattezza e precisione e la nostra capacità di prevedere le conseguenze di
specifiche azioni è comunque limitata.
Far valere il principio di autorità scientifica anche quando
non vi sono conoscenze consolidate, o esagerando la portata della nostra
conoscenza, è controproducente perché alimenta lo scetticismo e giustifica le
critiche ideologiche. Non sempre gli economisti si sono astenuti dal commettere
questo errore, anche da noi.
Poi c’è il compito dei giornalisti che devono documentarsi e
sapere che non tutte le opinioni meritano lo stesso peso. Nel nome del
pluralismo, spesso i media danno visibilità e rilevanza a opinioni palesemente
false o contraddette da rigorosi studi scientifici, mettendole sullo stesso
piano di affermazioni che invece sono sostenute da un ampio spettro di ricerche
e approfondimenti…
Infine, è importante trasmettere all’opinione pubblica
l’idea che non esistono ricette semplici o miracoli. Sono decenni che
l’economia italiana stenta a crescere, non dà opportunità ai giovani, ha un
debito pubblico elevato.
Se nessuno si è accorto prima che c’era una scorciatoia per
aumentare la crescita, ridurre la disoccupazione o combattere la povertà, quasi
certamente è perché quella scorciatoia è un vicolo cieco che non porta da
nessuna parte. Anche se è difficile da accettare, probabilmente non vi sono
alternative alle riforme scomode e impopolari che molti osservatori esterni ci
suggeriscono da tempo”.
Io mi permetto di aggiungere due sole osservazioni,
relativamente alle cause che determinano la diffusione di false credenze in
economia.
Innanzitutto il livello medio di conoscenza delle discipline
economiche nella popolazione italiana è molto basso, soprattutto perché nelle
scuole primarie e secondarie l’economia viene insegnata pochissimo e, quando lo
si fa, piuttosto male.
Inoltre gli economisti, nei loro scritti e nei loro
discorsi, rivolti ad un pubblico ampio, utilizzano un linguaggio generalmente
poco comprensibile alla maggioranza delle persone, solo in parte in seguito a
quanto rilevato nella mia prima osservazione.