mercoledì 21 dicembre 2016

Legambiente, le 10 linee pendolari peggiori


Come ogni anno, all’entrata in vigore dell’orario invernale, Legambiente ha lanciato la campagna Pendolaria, www.pendolaria.it, con una prima analisi della situazione del trasporto ferroviario pendolare in Italia e la lista delle 10 peggiori linee, mentre un’analisi puntuale dei finanziamenti e dei processi organizzativi verrà presentata nel rapporto che sarà reso pubblico nel mese di gennaio 2017.

Secondo Legambiente, guasti tecnici, ritardi imprecisati, sovraffollamento mettono alla prova ogni giorno quei milioni di cittadini che utilizzano il treno per raggiungere il luogo di lavoro o di studio.

E mentre cresce ancora l’offerta del servizio ad alta velocità (+276% dal 2007 sulla Roma-Milano), le condizioni in molti casi continuano a peggiorare per chi si muove sulla rete secondaria, sugli intercity e sui regionali dove invece si sono ridotti i treni (in 15 Regioni) o sono state aumentate le tariffe (in 16 Regioni).

E quali sono le 10 linee peggiori, utilizzate dai pendolari? 

Anche nel 2016 a guidare la classifica delle tratte peggiori sono la Roma-Ostia e la Circumvesuviana.

Seguono la Reggio Calabria-Taranto, la Messina-Catania- Siracusa, la Cremona-Brescia, la Pescara-Roma, i collegamenti per Casale Monferrato (con la linea per Vercelli e quella per Mortara che sono state chiuse), la Bari-Martina Franca-Taranto, la Treviso-Portogruaro e la Genova-Acqui Terme.

Nel complesso, in Italia sono quasi 3.300 ogni giorno i treni del servizio regionale.

Il 69% dei treni in circolazione supera i 15 anni d’età, con differenze marcate tra le regioni del centro-nord e quelle del sud.

Nel dettaglio, la regione con la più alta età media dei treni è l’Abruzzo, con 24,1 anni di età seguito dalla Basilicata, con una età media dei treni di 23,3 anni e dalla Sicilia, con 23,2.

Il vicepresidente  di Legambiente Edoardo Zanchini ha dichiarato, a tale proposito:

“Il trasporto ferroviario pendolare deve diventare una priorità nazionale negli investimenti e nelle attenzioni. Oggi non è così, e su troppe linee la situazione in questi anni è addirittura peggiorata, con meno treni, convogli vetusti, ulteriori tagli ad interi collegamenti.

Emblematica è la situazione della Roma-Ostia Lido e della Circumvesuviana dove ogni giorno oltre 300.000 persone subiscono le conseguenze di una gestione indegna per un paese civile. Ma questo non è più accettabile. 

Il nuovo Governo deve individuare le risorse per il rilancio del trasporto pendolare e procedere al commissariamento dove le Regioni non sono in grado di garantire il servizio”.

Zanchini ha così concluso:

“Il nostro Paese ha bisogno di una cura del ferro a partire dalle città, per consentire al trasporto pendolare di raggiungere la stessa qualità ed efficienza dell’Alta velocità.

In questi anni è mancata una regia nazionale rispetto a un servizio ferroviario pendolare trasferito alle Regioni, che ha avuto come conseguenza tagli e aumenti delle tariffe senza che si fissassero obiettivi di efficienza del servizio o controlli su quanto avveniva nelle linee.

Occorre dare speranza ai pendolari che la situazione possa migliorare, e ciò potrà avvenire solo trovando risorse per aumentare il servizio e per acquistare treni nuovi”.

domenica 18 dicembre 2016

10 anni dalla morte di Piergiorgio Welby


Il 20 dicembre 2006 morì Piergiorgio Welby. Sono già passati 10 anni. Mi sembra doveroso, quindi, ricordarlo. E non posso non iniziare, purtroppo, rilevando che sono sì passati 10 anni dalla morte di Piergiorgio ma, in Italia, non c’è ancora né una legge sul testamento biologico né tanto meno una legge sull’eutanasia.

Welby fin da giovane fu colpito da una grave malattia, una distrofia che progredì lentamente. Nel 1997, in seguito ad una crisi respiratoria, fu sottoposto ad una tracheotomia.

Questa sua condizione lo spinse a chiedere più volte che gli venisse “staccata la spina”, ma la sua richiesta non fu accolta, in quanto ritenuta in contrasto con leggi in vigore.

E Welby si impegnò a favore della possibilità che, in certi casi, anche in Italia fosse consentita l’eutanasia, insieme a sua moglie Mina e all’associazione Luca Coscioni, di cui fu eletto co-presidente. E la sua vicenda determinò, nel nostro Paese, un acceso dibattito sulle questioni del fine vita.

Chiese ufficialmente la sua morte nel 2006. Nel settembre di quell’anno inviò una lettera-aperta al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, chiedendo il riconoscimento del diritto all’eutanasia.

Il 20 dicembre, sempre del 2006, Welby fu sedato e gli fu staccato il respiratore. E l’anestetista Mario Riccio dichiarò di averlo aiutato a morire. Riccio fu imputato per “omicidio del consenziente” ma il 23 luglio 2007 un magistrato di Roma, Zaira Secchi, lo prosciolse definitivamente, ordinando il non luogo a procedere perché il fatto non costituiva reato.

E oggi, a dieci anni dalla morte di Piergiorgio, in Italia, nonostante numerose richieste, provenienti soprattutto dall’associazione Luca Coscioni, non esiste ancora né una legge sul testamento biologico né una legge sull’eutanasia.

Qual è la situazione attuale?

Lo si può desumere da una dichiarazione di Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni e di Matteo Mainardi, coordinatore della campagna “Eutanasia legale”, dopo che l’onorevole Donata Lenzi, relatrice del provvedimento riguardante le disposizioni anticipate di trattamento (il cosiddetto testamento biologico) ha recentemente affermato di “potercela fare” ad approvare il testo entro la fine della legislatura “tanto più se l’opinione pubblica ci sostenesse”.

Questa è la dichiarazione di Cappato e di Mainardi:

“Come associazione Luca Coscioni, a prescindere dai miglioramenti che ancora si potranno e dovranno apportare al testo, ci auguriamo - come affermato dalla relatrice - il proseguimento dei lavori in Commissione e in Aula in tempi brevi per approvare una riforma di civiltà attesa da anni.

Parallelamente alla discussione del testo, rilanciamo il nostro appello al ministero della Salute affinché intervenga con una circolare che dia indicazioni precise affinché non sia più necessario l’intervento di un giudice per far rispettare le volontà della persona malata che chiede solo il rispetto di un diritto costituzionalmente garantito, così come affermato nella sentenza del Tribunale di Cagliari sul ricorso presentato da Walter Piludu. 

Di tutto ciò - in presenza della relatrice Lenzi, della presidente Boldrini, di Emma Bonino, Mina Welby, Beppino Englaro e insieme agli altri protagonisti della campagna per il riconoscimento dei diritti di libertà collegati al fine vita -, discuteremo alla Camera dei Deputati il 20 dicembre  in occasione del decennale della morte di Piergiorgio Welby”.

mercoledì 14 dicembre 2016

La disoccupazione è alta nel Sud, nel Centro-Nord molto meno


Il valore del tasso di disoccupazione in Italia è più elevato rispetto al valore medio che si verifica nei Paesi dell’Unione europea. In realtà ad essere particolarmente alto è il tasso di disoccupazione nelle regioni meridionali. Nelle regioni del Centro-Nord, invece, questo tasso assume un valore inferiore al valore medio relativo ai Paesi dell’Unione.

Questi dati, riferiti al 2015, riguardanti il tasso di disoccupazione lo dimostrano:

Abruzzo 12,6%
Molise 14,3%
Campania 19,8%
Puglia 19,7%
Basilicata 13,7%
Calabria 22,9%
Sicilia 21,4%
Sardegna 17,4%
Sud 19,4%
Centro-Nord 8,8%
Italia 12,6%
Paesi Unione europea 9,0%
Paesi euro 10,4%

E’ bene precisare che il tasso di disoccupazione è dato dal rapporto percentuale tra il numero dei disoccupati e il numero delle forze di lavoro e queste ultime sono costituite dalla somma tra occupati e disoccupati.

Quindi, è evidente che, in Italia, il problema della disoccupazione è soprattutto un problema delle regioni meridionali.

Certo, anche nel Centro-Nord si deve ridurre il tasso di disoccupazione.

Ma è soprattutto nel Sud che sarebbe necessario intervenire per diminuire considerevolmente il valore assunto da quel tasso. Si consideri solamente un dato: nel 2015 il tasso di disoccupazione nelle regioni meridionali era vicino al 20%.

Pertanto, la situazione del mercato del lavoro nel Sud del nostro Paese rappresenta un’ulteriore dimostrazione di quanto sia indispensabile attuare un’efficace politica economica rivolta soprattutto a favorire la crescita economica delle regioni meridionali, tale da aumentare notevolmente il numero degli occupati.

Fino ad ora una tale politica economica non è stata realizzata o, quanto meno, è stata insufficiente.

La nomina di Claudio De Vincenti a ministro per la coesione territoriale e per il Sud, nel governo Gentiloni, potrebbe - il condizionale è d’obbligo - rappresentare la volontà di attuare, da parte del nuovo governo, una politica di maggiore rilievo, rispetto a quanto avvenuto in passato, per affrontare i problemi economici ed occupazionali delle regioni meridionali.

domenica 11 dicembre 2016

I diritti umani sono importanti? Più importanti l'economia e la politica estera, purtroppo


Il 10 dicembre come ogni anno è stata celebrata la giornata internazionale dei diritti umani, e in questa occasione vorrei formulare alcune brevi considerazioni. Mi sembra che nel mondo i diritti umani, sebbene siano molto spesso oggetto di violazioni, talvolta drammatiche, sempre più frequentemente non siano tenuti nella giusta considerazione. Più importanti sono considerati gli interessi economici e le esigenze di politica estera.

Purtroppo è così.

Gli esempi che dimostrano la validità di questa mia valutazione sono numerosi.

Almeno due possono essere citati, riguardanti l’Europa.

In Turchia, soprattutto negli ultimi mesi, le libertà individuali e collettive sono state oggetto di notevoli restrizioni. Molti gli arresti, del tutto ingiustificati, di persone la cui unica colpa è l’opposizione al regime di Erdogan.

Eppure il governo turco è ancora ritenuto un interlocutore credibile da parte dei governi europei, preoccupati che dalla Turchia possano essere espulsi gran parte dei molti migranti, soprattutto siriani, che attualmente sono presenti in quel Paese.

Nella Russia di Putin i diritti umani sono frequentemente violati. Putin poi sostiene il governo del dittatore siriano Assad, responsabile di un notevole numero di assassini.

Eppure i governi di diversi Paesi europei ritengono opportuno eliminare le sanzioni che furono decise nel periodo della guerra in Ucraina, perché in questo modo la situazione dei sistemi economici di quei Paesi migliorerebbe.

Certo, gli interessi economici, le esigenze di politica estera, sono importanti, non possono essere trascurati.

Ma la salvaguardia dei diritti umani dovrebbe essere almeno ugualmente importante.
Ciò, ripeto, molto spesso non avviene.

Ma, tutti, ci dovremmo impegnare affinchè i diritti umani assumano sempre maggiore rilievo.

E’ questo il motivo principale che mi ha spinto prima a diventare socio e poi attivista di Amnesty International.

Non possiamo e non dobbiamo, infatti, delegare completamente ai governi quell’impegno.


giovedì 8 dicembre 2016

Le tasse sono troppo alte. Le possiamo ridurre?


Recentemente, è stato reso noto un rapporto dell’Ocse nel quale viene esaminato il livello raggiunto nel 2015 dalla pressione fiscale, cioè il rapporto tra il gettito derivante delle imposte e il Pil, in diversi Paesi, tra i quali l’Italia. L’Italia rimane nel gruppo dei Paesi con la pressione fiscale più elevata.

L’Italia è in sesta posizione, come la Svezia, con una tassazione complessiva pari al 43,3% del Pil.
E’ preceduta solamente dalla Danimarca, che è al primo posto con una pressione fiscale pari al 46,6%, dalla Francia, dal Belgio, dalla Finlandia e dall’Austria.

Si può rilevare, tra l’altro, che la Germania aveva una pressione fiscale pari al 36,9% e gli Stati Uniti pari al 26,4%.

Peraltro i valori raggiunti dalla pressione fiscale andrebbero comparati con il livello e la qualità dei servizi pubblici erogati dai diversi Paesi e quindi anche con il livello e la “qualità” della spesa pubblica.

Ora, quanto meno in diverse regioni italiane, il livello e la qualità dei servizi pubblici sono senza dubbio inferiori rispetto a quanto si verifica nei Paesi con una pressione fiscale più alta o simile a quella che contraddistingue l’Italia.

Pertanto, il rapporto dell’Ocse conferma il fatto che in Italia la pressione fiscale è molto elevata, troppo elevata.

E tale situazione non può che essere valutata negativamente in quanto ostacola gli investimenti delle imprese, o meglio di quelle imprese che pagano le tasse, e i consumi dei lavoratori dipendenti.

Quindi una riduzione della pressione fiscale potrebbe contribuire alla necessaria crescita della domanda effettiva, favorendo così l’incremento del Pil ed anche dell’occupazione.

Si potrebbe sostenere che in realtà una parte consistente delle imprese evadono il fisco e quindi non si dovrebbe ridurre la pressione fiscale quanto meno per le imprese.

Però la soluzione migliore sarebbe quella di intensificare il contrasto all’evasione fiscale e di ridurre le imposte per le imprese che già le pagano regolarmente.

Comunque, supponendo che nel breve periodo non sia possibile diminuire considerevolmente l’evasione fiscale, è opportuno ugualmente, ed anche possibile, ridurre le pressione fiscale in Italia?

A mio avviso, non solo è opportuno ma è anche possibile. Poi, si tratta di stabilire se ridurre la pressione fiscale in misura uguale per le imprese e per i lavoratori dipendenti, oppure no.

Ma questo è un altro discorso.

E come diminuire la pressione fiscale?

Un modo potrebbe essere quello, ricollegandomi a quanto ho scritto in un precedente post, di ridurre la spesa pubblica improduttiva, di ridurre gli sprechi, attuando un’efficace politica di spending review, cioè di revisione della spesa delle pubbliche amministrazioni.

Per ora tale politica, da molti anni ormai, non è stata attuata, ma il problema rimane.

E rimane anche il problema di ridurre la pressione fiscale, se si vuole davvero accrescere in misura notevole il Pil e, contemporaneamente, ridurre considerevolmente la disoccupazione.

lunedì 5 dicembre 2016

Il no ha vinto, purtroppo. Ora il Pd deve cambiare davvero


Il no ha vinto, o meglio ha stravinto, purtroppo. Purtroppo perché non è stata approvata una buona, seppure con qualche difetto, riforma costituzionale e perché il governo Renzi sarà costretto a dare le dimissioni, un governo che poteva e doveva fare di più ma che, nel complesso, ha ben operato. Ed ora? Il mio più importante auspicio è che il Pd cambi davvero e assuma realmente le caratteristiche per le quali nel 2007 fu fondato.

Infatti, i motivi alla base della vittoria del no sono senza dubbio diversi.

Lo stesso Renzi ci ha messo del suo.

Ma uno dei motivi principali, a mio avviso, è rappresentato dal fatto che la vittoria del no è stato soprattutto un voto di protesta nei confronti di quello che, generalmente, è definito l’ “establishment”.
La stessa situazione si è verificata in altri Paesi, in Inghilterra con il la vittoria del Brexit, negli Stati Uniti con la vittoria di Trump e con i notevoli consensi elettorali ottenuti da movimenti populisti, e talvolta razzisti, in Francia e in Germania, ad esempio.

E cosa c’entra il Pd?

C’entra, soprattutto perché tra i vari obiettivi che si dovevano perseguire con la sua fondazione uno dei più importanti era la realizzazione di un profondo rinnovamento della politica di cui fossero protagonisti, all’interno del Pd, non solo fra gli iscritti ma anche nei gruppi dirigenti, cittadini fortemente critici nei confronti del modo tradizionale di fare politica.

In realtà il Pd è nato, quasi esclusivamente, dalla fusione tra due partiti, i Ds e la Margherita, spesso prendendo il peggio e non il meglio della loro azione politica.

E, soprattutto, il Pd non ha contribuito, se non in una misura minima, a rinnovare davvero la politica italiana, a considerarla non solo ricerca e gestione del potere, ma anche e soprattutto progetto e strumento per soddisfare le esigenze dei cittadini, in primo luogo tramite un loro coinvolgimento attivo.

E solo così il Pd non verrà visto dalla maggioranza degli elettori come componente dell’establishment, da combattere a tutti i costi.

Anche prima che divenisse segretario del Pd Renzi, quanto ci si aspettava dal Pd non è avvenuto. E con Renzi si è continuato nella direzione, sbagliata, perseguita da Bersani e dagli altri segretari che lo hanno preceduto.

Se veramente si vuole che la politica non riduca il proprio ruolo, a vantaggio soprattutto del sistema finanziario, e se si intende contrastare realmente i partiti populisti e razzisti, in Italia sarebbe necessario che il Pd cambi realmente, incamminandosi con decisione nella strada che ho appena delineato.

Infatti, se si rinnova, il Pd è l’unico partito che in Italia potrebbe davvero svolgere un ruolo da protagonista nel tentare di governare bene il nostro Paese, in modo tale da affrontare una volta per tutte i noti problemi strutturali che da molti anni ormai, troppi, lo caratterizzano.

Il centrodestra  è profondamente diviso è quindi non è in grado di svolgere quel ruolo, così come il movimento 5 stelle, le cui capacità di governo sono assolutamente inadeguate come è avvenuto quando si devono affrontare problemi complessi, come quelli che contraddistinguono Roma, città ora guidata dai grillini, rivelatisi del tutto incapaci di governarla.

Il Pd sarà in grado quindi di rinnovarsi?

Non lo so.

Peraltro il problema non è tanto o soltanto Renzi e i renziani, perché la cosiddetta sinistra del Pd ha già ampiamente dimostrato di non essere all’altezza delle sfide cui si trova di fronte il Pd.

Ma se ciò non avverrà non si verificherà solamente una progressiva riduzione dei consensi di quel partito, questione peraltro non di primaria importanza, ma, soprattutto, il sistema politico italiano si rivelerà sempre più inadeguato a governare il nostro Paese. 

mercoledì 30 novembre 2016

Spesa pubblica, per ridurre gli sprechi impossibile la spending review?


In Italia da molti anni ormai si evidenzia la necessità, relativamente alla spesa pubblica di realizzare un’efficace azione di “spending review”, un’efficace azione di revisione della spesa tendente a ridurre la spesa pubblica corrente, soprattutto la parte che determina sprechi che andrebbero comunque eliminati, per liberare risorse finanziarie da utilizzare o per aumentare le spese in conto capitale, gli investimenti pubblici cioè, o per diminuire le imposte. Ma fino ad ora i risultati ottenuti sono stati, del tutto insufficienti.

Non solo, hanno dato le dimissioni (o sono stati costretti a dare le dimissioni?) diversi esperti nominati commissari o consulenti per la spending review. Mi riferisco a Enrico Bondi, a Carlo Cottarelli e a Roberto Perotti.

Quindi si deve concludere che un’efficace azione di revisione della spesa pubblica in Italia è impossibile, anche perché gli insuccessi hanno interessato diversi governi, dal governo Monti a quello presieduto da Letta e per ultimo al governo Renzi, per non parlare poi di quelli ancora precedenti?

Io spero che non si debba pervenire a tale conclusione, anche se quanto avvenuto, ormai da molti anni purtroppo, potrebbe avvalorarla.

E i motivi degli insuccessi nell’azione di spending review? E i responsabili?

Per quanto riguarda i responsabili sono da individuare certamente nei presidenti del Consiglio e nei ministri che si sono succeduti nel corso degli anni. Ma non solo loro. Le responsabilità vanno attribuite anche ai dirigenti di maggiore livello dei diversi ministeri. Ai burocrati insomma.

Per quanto riguarda i motivi, è più difficile individuarli, anche perché sono diversi.

A mio avviso, il motivo principale risiede nel fatto che si riducono certe spese pubbliche correnti vengono danneggiati gli interessi di diverse componenti della società italiana, spesso piuttosto ampie e senza dubbio molto influenti.

Quindi il motivo principale può essere individuato nel timore di alienarsi il consenso politico di alcune parti della società italiana, quanto meno nel breve periodo.

Ciò che sfugge, però, a chi frappone ostacoli di varia natura, per quel motivo, alla realizzazione di un’efficace azione di spending review è che, se essa invece fosse attuata, si potrebbero ottenere, forse non nel breve periodo, ma sicuramente nel medio periodo,  vasti consensi politici in ceti sociali i quali attualmente sono molto attratti dalla cosiddetta antipolitica e che spesso non vanno nemmeno più a votare, astenendosi.

Concludo questo post riportando una parte delle conclusioni di Carlo Cottarelli, contenute nel suo libro “La lista della spesa, la verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare”, relativamente ai quattro ostacoli strategici che a suo avviso impediscono la realizzazione di un’efficace azione di spending review:

“Primo, bisogna chiarire, in termini di principi generali, quale un governo ritenga sia il ruolo appropriato per la spesa pubblica, ossia quali siano i confini ritenuti adeguati per quello che il settore pubblico deve fare rispetto a quello che deve fare il settore privato. Questi principi generali dovranno guidare l’azione di revisione della spesa…

Secondo ostacolo strategico: occorre essere consapevoli fino in fondo di una cosa apparentemente ovvia, e cioè che la spesa pubblica primaria è fatta solo di tre cose: acquisti di beni e servizi, spese di personale e soldi che le pubbliche amministrazioni danno a famiglie, imprese e all’estero. Quindi, le operazioni di efficientamento di qualunque genere comportano risparmi potenziali in tutte queste aree…

Terzo ostacolo strategico: occorre definire bene le priorità nell’azione legislativa evitando di mettere troppa carne al fuoco. Credo che siano state fatte troppe leggi in Italia, spesso non ben pensate. Meglio sarebbe farne di meno ma migliori. Bisogna semplificare, semplificare, semplificare.

Quarto e ultimo ostacolo strategico: occorre riconoscere che spesso scelte impopolari sono necessarie. La revisione della spesa può comportare anche revisioni di programmi che toccano non solo i soliti ‘pochi privilegiati’ ma anche un’ampia fascia della popolazione. Rilanciare l’economia attraverso una riduzione della pressione fiscale finanziata da tagli della spesa - o anche trovare risorse per esborsi effettivamente produttivi – alla fine porta benefici per tutti, attraverso una maggiore crescita, anche se questi benefici non sono percepiti nell’immediato. Da qui l’impopolarità dei tagli di spesa nel breve termine. E’ necessario adottare una visione di più ampio respiro”.

Io concordo, nel complesso, con quanto scritto da Cottarelli, soprattutto su quello da lui definito quarto ostacolo strategico che, a mio avviso, è decisamente il più importante ed è quello che dovrebbe essere superato prima degli altri.

domenica 27 novembre 2016

Referendum, votare sì anche per rafforzare il governo Renzi e per contrastare i sostenitori italiani di Trump


Ormai lo sanno anche i sassi, il prossimo 4 dicembre gli elettori potranno andare a votare in occasione del referendum costituzionale tramite il quale sarà confermata oppure no la riforma di alcuni articoli della Costituzione, proposta dal governo Renzi e approvata dal Parlamento. Sono diversi i motivi che mi indurranno a votare sì e ad invitare a fare lo stesso i lettori di questo post.

E’ bene precisare, innanzitutto, che sarebbe necessario ed opportuno decidere di votare sì oppure no valutando, esclusivamente, i contenuti della riforma costituzionale.

Non a caso, però, ho utilizzato il condizionale.

Infatti pochi voteranno seguendo quel criterio che, in teoria, sarebbe l’unico da utilizzare.

A parte il fatto che la riforma costituzionale affronta questioni molto complesse e diverse. Si potrebbe essere a favore di alcune modifiche alla Costituzione e contrari ad altre. E per tutti gli elettori è oggettivamente difficile esprimere il proprio voto tenendo in considerazione solo i contenuti della riforma.

E questa situazione si è verificata anche nel 2006, quando si tenne un altro referendum costituzionale, relativo alla riforma proposta dal governo Berlusconi e poi approvata dal Parlamento.

Era inevitabile quindi che il voto assumesse un significato politico ben preciso, poco o nulla attinente ai temi oggetto del referendum. Del resto, come rilevai in un precedente post, anche nel 2006 la gran parte di coloro che votarono no lo fecero per esprimere un giudizio negativo nei confronti del governo Berlusconi e la gran parte di coloro che votarono sì lo fecero per sostenere quel governo.

Un inciso, peraltro: mi trovo d’accordo con quei pochi costituzionalisti i quali hanno rilevato che sarebbe opportuno approvare un ulteriore cambiamento della Costituzione…non prevedendo più la possibilità di sottoporre a referendum le leggi di riforma costituzionale.

Del resto il procedimento di approvazione di una legge di riforma costituzionale è definito “rafforzato” poiché per due volte deve essere approvata da ognuno dei due rami del Parlamento.
Inoltre, anche nel caso del referendum abrogativo, la Costituzione prevede che alcune leggi non possano essere sottoposte a referendum, ad esempio quelle che riguardano il bilancio statale e i trattati internazionali.

Comunque, il notevole e preponderante significato politico dell’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre si sarebbe verificato ugualmente anche senza la cosiddetta personalizzazione dell’esito del referendum, promossa dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi.

Infatti, gli stessi oppositori del governo Renzi avrebbe interpretato, e stanno interpretando, il no al referendum come una manifestazione di sfiducia nei confronti dell’attuale governo.

Quindi io voterò sì, e invito a farlo per gli stessi motivi coloro che leggeranno questo post, non solo perché ritengo, nel complesso, valida la riforma costituzionale oggetto di referendum, ma anche per almeno altri due motivi.

In primo luogo perché, con la vittoria del sì, sarà oggettivamente rafforzato il governo Renzi.

E tale governo ha ben operato. Certo, poteva e doveva fare di più. Ma, io credo, le luci hanno superato le ombre.

Due soli esempi ma molto importanti, per quanto riguarda i risultati positivi conseguiti dal governo.

Il governo Renzi, diversamente dagli esecutivi che lo hanno preceduto, ha attuato e sta attuando una politica nei confronti degli organi dell’Unione europea decisamente più autonoma, tentando di cambiare radicalmente l’Unione, mettendo fine innanzitutto alla stagione dell’austerità e tentando di rendere l’Unione veramente all’altezza dei notevoli problemi cui si trova di fronte attualmente l’Europa.

Poi, il nostro governo ha adottato, nei confronti dei migranti, una evidente e positiva politica dell’accoglienza, diversamente da altri Paesi, pur aderenti all’Unione europea, che hanno eretto o che vorrebbero erigere dei “muri”, di diversa natura, nei confronti di un fenomeno, quale quello dei flussi migratori, che deve essere affrontato in modo del tutto diverso.

Inoltre, la vittoria del sì determinerebbe, ovviamente, la sconfitta dei partiti che sostengono il no e gran parte di essi non possono che essere definiti populisti, tanto che hanno salutato positivamente la vittoria di Trump, nelle recenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America.

E la sconfitta di questi partiti, proprio per le loro posizioni populiste e talvolta anche razziste, sarebbe a mio giudizio molto positiva.

mercoledì 23 novembre 2016

Le banche italiane sono in crisi. Strano...



Sempre più spesso, soprattutto da parte dei mass media, vengono esaminate le difficoltà in cui versano le banche italiane. Quali sono tali difficoltà? Si sono manifestate solo recentemente? Esse hanno un carattere congiunturale oppure strutturale? Come possono essere superate?

I problemi delle banche italiane si sono certamente accentuati in seguito alla crisi economica che è iniziata nel 2008.

Ma tali problemi hanno un’origine più lontana nel tempo e dipendono anche da alcuni caratteri strutturali delle banche del nostro Paese e, soprattutto, del loro operato.

Innanzitutto, è bene ricordare  che tra i problemi più importanti devono essere evidenziati il livello elevato raggiunto dalle cosiddette sofferenze e l’insufficiente redditività che contraddistingue i bilanci di molti istituti di credito.

Certamente, entrambi questi fenomeni sono stati, in parte, determinati dalla crisi economica.

La crisi di molte imprese l’ha costrette a non essere in grado di restituire i prestiti concessi, aumentando così le sofferenze bancarie, cioè i finanziamenti che non vengono più restituiti agli istituti di credito.

La stessa crescita delle sofferenze ha inciso negativamente sulla redditività delle banche, come anche il fatto che i nuovi prestiti concessi, proprio a causa della crisi, sono stati contraddistinti da una dinamica decisamente inferiore rispetto a quella verificatasi negli anni precedenti alla crisi economica ed, infine, il basso livello dei tassi d’interesse, in parte determinato dalle notevoli difficoltà del sistema economico italiano.

Ma nell’analisi delle cause dei principali problemi delle banche italiane non ci si può fermare qui.

Altre considerazioni devono essere formulate, la principale delle quali è rappresentata dalla consapevolezza della cattiva gestione che per anni ha caratterizzato gran parte degli istituti di credito, sia quelli di maggiori dimensioni sia quelli più piccoli, operanti esclusivamente a livello locale.

Ad esempio, nel determinare il livello elevato delle sofferenze ha inciso fortemente la tendenza dei dirigenti delle banche a non tenere sempre nella giusta considerazione, nelle decisioni relative alla concessione di finanziamenti, l’effettiva situazione delle imprese che li richiedevano.

Spesso erano più importanti le relazioni che gli imprenditori o i manager delle aziende stabilivano con i componenti degli organi di gestione delle banche, creando, frequentemente, una situazione di evidente disparità tra i richiedenti i finanziamenti.

Infatti le imprese o le famiglie che non erano in grado di intessere quelle relazioni incontravano invece notevoli difficoltà nell’ottenimento dei finanziamenti necessari.

Per altri, invece, non c’erano problemi.

Inoltre, nel determinare gli attuali bassi livelli di redditività, ha inciso notevolmente l’eccessivo numero dei dipendenti e degli sportelli bancari, che per anni ha contraddistinto molti istituti di credito.

E anche tale fenomeno è stato determinato da una cattiva gestione di una parte molto consistente delle banche italiane.

Pertanto per affrontare realmente quei problemi, e per evitare che si possano manifestarsi di nuovo, in futuro, non si può prescindere dall’attuazione di un radicale miglioramento nelle modalità di gestione delle banche italiane.

domenica 20 novembre 2016

La sanità italiana agli ultimi posti in Europa


E’ stato pubblicato l’annuale rapporto, elaborato da “The European House-Ambrosetti” che misura le “performances” dei sistemi sanitari europei ed anche delle regioni italiane. Considerando 14 Paesi dell’Unione europea, la sanità italiana occupa il terz’ultimo posto.

Nel rapporto si può infatti leggere, tra l’altro:  “L’Italia manifesta un sensibile ritardo dalla media europea sul fronte dell’efficienza e appropriatezza dell’offerta sanitaria e sul fronte della capacità di risposta del sistema sanitario ai bisogni di salute. Sul fronte della qualità dell’offerta sanitaria siamo in linea con l’Europa mentre sul fronte dello stato di salute mostriamo (ancora) una performance migliore della media europea”.

Stato di salute della popolazione, qualità dell’offerta sanitaria e “responsivnesss” del sistema, capacità di risposta del sistema sanitario ai bisogni di salute, efficienza-appropriatezza dell’offerta sanitaria, questi i 4 indicatori del cosiddetto Meridiano Index che valuta i sistemi sanitari dei diversi Paesi europei, un indice che sintetizza i 4 indicatori.

Nella seguente tabella sono riportati i valori che il Meridiano Index assume nei 14 Paesi dell’Unione europea presi in considerazione:

Svezia 8,4
Olanda 7,2
Finlandia 6,5
Belgio 6,2
Francia 6,2
Regno Unito 5,9
Danimarca  5,9
Spagna 5,8
Ue-14 5,7
Irlanda 5,3
Germania 5,2
Austria 4,9
Italia 4,7
Portogallo 4,7
Grecia 3,5

Tra le regioni italiane primeggia l’Emilia Romagna, seguita dalla Lombardia. Tutte le regioni del Sud sono contraddistinti invece da valori inferiori alla media nazionale.

Nel rapporto si rileva, fra l’altro: “Mettendo in relazione le performances dei sistemi sanitari regionali con il relativo livello di spesa sanitaria, pubblica e privata, emerge una relazione positiva tra le due grandezze: le regioni con le performances migliori (quelle del Nord) sono anche caratterizzate da un livello di spesa maggiore e ricchezza maggiore”.

Nella successiva tabella sono riportati i valori che il Meridiano Index assume nelle diverse regioni italiane:

Emilia Romagna 7,2
Lombardia 7,0
Trentino Alto Adige 6,9
Toscana 6,7
Piemonte 6,4
Umbria 6,3
Valle d’Aosta 6,3
Veneto 6,2
Marche 6,2
Friuli Venezia Giulia 6,1
Lazio 5,7
Liguria 5,6
Sardegna 5,1
Abruzzo 5,0
Molise 4,7
Basilica 4,7
Puglia 4,6
Sicilia 4,5
Calabria 4,1
Campania 4,0

Da questa tabella risulta che sono, quasi esclusivamente, le regioni meridionali a presentare un valore dell’indice analizzato inferiore al valore medio dei 14 Paesi dell’Unione europea considerati.
Ancora una volta, cioè, si dimostra che è la situazione dei sistemi sanitari delle regioni del Meridione ad essere particolarmente critica, mentre i sistemi sanitari delle regioni del Centro-Nord sono contraddistinti da performances più che accettabili.

Nel rapporto poi si evidenzia come “dal punto di vista dello stato di salute, anche se l’Italia si posiziona ancora tra i primi posti in Europa, si evidenziano alcuni campanelli d’allarme. Nel 2015 per la prima volta in 10 anni è diminuita la speranza di vita alla nascita, il tasso di mortalità è stato il più alto dal dopoguerra ad oggi e, inoltre, continuano a calare gli anni vissuti in buona salute. In aggiunta al fenomeno dell’invecchiamento demografico, oggi l’Italia deve affrontare altre importanti sfide per la salute delle persone”.

“La sfida di gran lunga più importante per i sistemi sanitari e sociali è quella delle patologie croniche - ricorda inoltre il rapporto - che rendono necessaria una specificità di organizzazione e un impegno di risorse molto importanti”. 

Altra preoccupazione il calo delle vaccinazioni. “Nel 2015 la copertura nazionale media per le vaccinazioni contro poliomielite, tetano, difterite, epatite B pertosse e ‘Haemophilus influenzae’ è stata del 93,4%; con un decremento di 1,3 punti percentuali rispetto al 2014 e di quasi 3 punti percentuali rispetto al 2011. Particolarmente preoccupanti sono i dati di copertura vaccinale per morbillo e rosolia che hanno perso 5 punti percentuali dal 2011 al 2015, passando dal 90,1% all’85,3%”. 

Cosa si deve fare quindi, secondo il rapporto? 

“A fronte di tutte queste sfide che minacciano la sostenibilità del servizio sanitario nazionale, l’intero sistema di welfare e la capacità di crescita economica, occorre investire di più in sanità. 

L’investimento in prevenzione ha un impatto positivo sulla spesa sanitaria: un euro investito in prevenzione genera 2,9 euro di risparmio nella spesa per prestazioni terapeutiche e riabilitative e che l’orizzonte temporale nel quale l’investimento in prevenzione manifesta i suoi impatti sulla spesa per prestazioni curative e riabilitative, in percentuale della spesa sanitaria totale, è di 10 anni. 

Ad oggi l’Italia spende in prevenzione 98,4 euro pro capite. Se il nostro Paese investisse quanto la Germania (126,4 Euro) la spesa sanitaria al 2050 sarebbe l’8,9% del Pil con un risparmio di 4 miliardi di Euro l’anno”.