venerdì 30 agosto 2019

Allarme morbillo anche in Europa



L’Oms, l’organizzazione mondiale per la sanità, ha reso noti nuovi dati circa la diffusione del morbillo, relativi ai primi 6 mesi del 2019 e basati sui rapporti nazionali inviati mensilmente all'Oms. In quel periodo i casi di morbillo segnalati sono stati i più alti in assoluto a partire dal 2006, con focolai che mettono a dura prova i sistemi sanitari e provocano gravi malattie, disabilità e decessi in molte parti del mondo. Ci sono stati quasi tre volte il numero di casi segnalati finora nel 2019 rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso.

Ciò segue i successivi aumenti annuali dal 2016, indicando un aumento preoccupante e continuo dell'onere globale del morbillo in tutto il mondo.

La repubblica democratica del Congo, il Madagascar e l'Ucraina hanno registrato il maggior numero di casi quest'anno. Tuttavia, evidenzia l'Oms, i casi sono diminuiti drasticamente in Madagascar negli ultimi mesi a seguito di campagne di vaccinazione contro il morbillo di emergenza a livello nazionale, mettendo in evidenza l'efficacia della vaccinazione nel porre fine alle epidemie e proteggere la salute.

I maggio focolai si verificano in Paesi con bassa copertura vaccinale, attualmente o in passato, che ha lasciato un gran numero di persone vulnerabili alla malattia.

Allo stesso tempo, si verificano epidemie protratte anche in Paesi con alti tassi di vaccinazione nazionali. Ciò deriva dalle disuguaglianze nella copertura vaccinale, dalle lacune e dalle disparità tra le comunità, le aree geografiche e le fasce d'età. Quando un numero sufficiente di persone che non sono immuni sono esposte al morbillo, può diffondersi molto rapidamente.

Gli Stati Uniti hanno riportato il numero più alto di casi di morbillo in 25 anni. 

Nella regione europea dell'Oms, ci sono stati quasi 90.000 casi segnalati per i primi sei mesi di quest'anno: questo dato supera quelli registrati per l'intero 2018 (84.462) - già il più alto in questo decennio in corso.   

Le ragioni per cui le persone che non sono state vaccinate variano in modo significativo tra le comunità e i Paesi, tra cui mancanza di accesso a servizi sanitari o vaccinali di qualità, conflitti e sfollamenti, disinformazione sui vaccini o scarsa consapevolezza della necessità di vaccinare.

In diversi Paesi, il morbillo si sta diffondendo tra i bambini più grandi, i giovani e gli adulti che in passato hanno perso la vaccinazione.

L'Oms esorta tutti a garantire che le vaccinazioni contro il morbillo siano aggiornate, con due dosi necessarie per proteggersi dalla malattia e per controllare il loro stato di vaccinazione prima del viaggio.

Il numero effettivo di casi è considerevolmente più alto di quelli segnalati attraverso i sistemi di sorveglianza a causa della incompletezza della segnalazione. L'Oms stima che vengano segnalati globalmente meno di 1 caso su 10. La completezza delle segnalazioni varia sostanzialmente in base al paese. 

L'ultimo anno per il quale sono disponibili i casi globali di morbillo e le stime sulla morte dell'Oms è il 2017; in quell'anno ci furono 6,7 milioni di casi stimati di morbillo e 110.000 decessi stimati correlati al morbillo, sulla base di 173.330 casi segnalati. 

Per l'attuale periodo del 2019, la regione africana dell'Oms ha registrato un aumento del 900% (ovvero un aumento di 10 volte), la regione europea del 120% (più di un aumento di due volte), la regione del Mediterraneo orientale del 50% (aumento di 1,5 volte), il Western Pacific Region 230% (un triplo aumento); la Regione del Sud-Est asiatico e la Regione delle Americhe hanno visto ciascuna una riduzione del 15% nei casi segnalati.

Dal 10 luglio 2018 al 30 giugno 2019, il numero più alto di casi in Europa è stato segnalato da Francia, Italia (1.831), Romania e Polonia.

Il morbillo continua a diffondersi in tutta Europa perché la copertura vaccinale in molti Paesi non è ottimale.

Infatti in solo 4 Paesi europei si è registrata una copertura vaccinale di almeno il 95%, la copertura ritenuta necessaria, Ungheria, Portogallo, Slovacchia e Svezia, nel 2017.

Se l'obiettivo di eliminazione deve essere raggiunto, molti Paesi hanno bisogno apportare miglioramenti sostenuti nella copertura dei loro programmi di immunizzazione infantile di routine e anche colmare le lacune immunitarie negli adolescenti e negli adulti che in passato hanno perso opportunità di vaccinazione.


martedì 27 agosto 2019

Lo stato di salute delle spiagge italiane



Qual è lo stato di salute ambientale e turistico delle coste italiane e il diritto di accesso alla spiaggia libera? A tracciare un quadro complessivo dei lidi della Penisola - caratterizzata da ben 3.346 km di coste sabbiose - è il rapporto Spiagge 2019 di Legambiente che fotografa una situazione complessa e variegata.

Nel nostro Paese le spiagge libere sono spesso un miraggio, quelle presenti sono il più delle volte di serie B e poste vicino a foci dei fiumi, fossi o fognature dove la balneazione è vietata.

A ciò va aggiunto l’impatto che ormai i cambiamenti climatici, l’erosione e il cemento selvaggio stanno avendo sulle coste ridisegnandole, il problema dell’inquinamento, l’accessibilità negata e quello delle concessioni senza controlli.

Dall’altra parte, però, in questi anni lungo il nostro litorale si è registrato un grande fermento green che punta, in maniera sempre più concreta, sulla sostenibilità ambientale, su un impegno plastic-free e sulla difesa della biodiversità come testimoniano le numerose storie selezionate in questo report e l’esperienza avviata attraverso il marchio “Ecospiagge per tutti”.

A parlar chiaro sono i dati e le esperienze virtuose raccolte dall’associazione ambientalista: in Italia sono ben 52.619 le concessioni demaniali marittime, di cui 11.104 sono per stabilimenti balneari, 1.231 per campeggi, circoli sportivi e complessi turistici, mentre le restanti sono distribuite su vari utilizzi.

Complessivamente si può stimare che le sole concessioni relative agli stabilimenti ed ai campeggi superano il 42% di occupazione delle spiagge, ma se si aggiungono quelle relative ad altre attività turistiche si supera il 50%. 

Una situazione di sovraffollamento che lascia pochi spazi a quanti cercano spiagge per tuffi liberi. 

Ci sono poi situazioni di illegalità che riguardano le coste come il caso di Ostia, nel comune di Roma, o quello di Pozzuoli dove muri e barriere impediscono addirittura di vedere e di accedere al mare, o di dune sbancate nel Salento per realizzare parcheggi e tirare su stabilimenti balneari.

Inoltre quasi il 10% delle coste è interdetto alla balneazione per ragioni di inquinamento. 

In Veneto oltre un quarto della costa è in queste condizioni, mentre in Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Lazio oltre il 10% della costa rientra in questa categoria. 

Se si considerano i tratti di costa non balneabili, un ulteriore 9,5% della costa risulta quindi non fruibile. Il risultato è che complessivamente nel nostro Paese la spiaggia libera e balneabile si riduce mediamente al 40%, con situazioni limite in Emilia-Romagna, Campania, Marche, Liguria dove diventa difficile da trovare quelle al contempo libere e balneabili.

“Con questo dossier – ha affermato Edoardo Zanchini, vicepresidente nazionale di Legambiente - vogliamo contribuire a costruire un dibattito sullo stato di salute delle coste italiane all’altezza delle sfide che avremo di fronte nei prossimi anni.

L’errore che non va commesso è quello di continuare ad affrontare gli argomenti separatamente, inseguendo la cronaca nel periodo estivo dei danni da cicloni o erosione, di spiagge libere e in concessione (con le polemiche sui canoni e sulla famigerata direttiva Bolkestein), dell’inquinamento dei tratti di costa.

Il paradosso, da cui dobbiamo assolutamente uscire, è che nel nostro Paese nessuno si occupa di coste. Non possiamo più permettercelo in una prospettiva climatica come quella che abbiamo descritto, e soprattutto non dobbiamo consentirlo, perché gli 8.000 chilometri di aree costiere italiane - con il suo sistema di porti, città e aree protette, rocce e spiagge - sono già oggi una straordinaria risorsa in chiave turistica che potrebbe rafforzarsi e allargarsi costruendo un’offerta sempre più qualificata, integrata e diversificata anche come aree e stagionalità”.

In particolare Legambiente torna a sottolineare l’importanza di definire nuove regole e politiche per rilanciare il ruolo delle aree costiere italiane fissando le sfide del futuro.

Occorre approvare una legge nazionale in materia di aree costiere, come fatto negli altri Paesi, che dia risposta alle tre sfide che abbiamo di fronte: 1) quello di garantire il diritto alla libera e gratuita fruizione delle spiagge; 2) di premiare la qualità dell’offerta nelle spiagge in concessione e 3) di prevedere dei canoni adeguati con risorse da utilizzare per la riqualificazione del patrimonio naturale costiero.

Per far ciò è indispensabile avviare un dialogo sinergico coinvolgendo in primo luogo il settore balneare, i cittadini e gli ambientalisti per ragionare insieme sul futuro delle spiagge italiane unendo qualità, accessibilità, sostenibilità e valorizzazione del territorio.

 “Quando si parla di spiagge e concessioni non si dovrebbe parlare solo di Bolkestein come si fa in Italia - ha rilevato Sebastiano Venneri, responsabile mare di Legambiente -.

Si dovrebbe invece cominciare a ragionare su come valorizzare queste straordinarie potenzialità e come affrontare i problemi trovando soluzioni innovative, come fanno già molti Paesi europei dove si è scelto di premiare le imprese locali che scommettono sulla qualità e al contempo garantire che una parte maggioritaria delle spiagge sia garantita per la libera fruizione.

In Francia, ad esempio, la durata delle concessioni per i lidi non supera i 12 anni e l’80% del litorale deve rimanere libero. La sfida che vogliamo lanciare ai balneari è di ragionare insieme sul futuro delle spiagge italiane partendo da una lotta ai veri nemici del litorale: l’erosione costiera, il cemento e i cambiamenti climatici. Sono i balneari i primi ad essere interessati ad avere prospettive credibili di lavoro e di sicurezza, ma anche ad isolare quanti compiono abusi e illeciti.

La proposta è: ragioniamo assieme su regole per garantire un’offerta di qualità e al contempo l’accessibilità dei cittadini, su criteri che premino coloro che scommettono sulla valorizzazione del patrimonio ambientale e su strutture a impatto zero”.

giovedì 8 agosto 2019

Irrisoria la spesa pubblica per l'università



Nel 2017 la spesa pubblica italiana per la pubblica istruzione ammontava a 66 miliardi di lire, poco meno della spesa per il pagamento degli interessi sul debito pubblico. Considerando la spesa pubblica per l’istruzione sia rispetto al Pil sia rispetto alla spesa pubblica totale, l’Italia si colloca agli ultimi posti delle classifiche europee e dalla crisi del 2007-2008 il divario con le medie dei Paesi dell’Unione europea si è allargato. E’ preoccupante soprattutto la situazione relativa alla spesa per l’istruzione universitaria, per la quale l’Italia è al penultimo posto in Europa.

Tali considerazioni sono contenute nel rapporto, curato da Alessandro Caiumi, recentemente pubblicato dall’osservatorio sui conti pubblici, diretto da Carlo Cottarelli.

Più precisamente, nel 2017 la spesa per la pubblica istruzione è stata pari a 66,1 miliardi di euro, di cui 25,1 miliardi per l’istruzione primaria (prescolastica e elementare), 30,4 miliardi per quella secondaria (scuole medie, scuole superiori e istruzione post-secondaria non-terziaria), 5,5 miliardi per quella terziaria (università) e i restanti 5,1 miliardi per servizi sussidiari e altre categorie residuali.

L’Italia è stata l’unico paese dell’Unione Europea in cui la spesa per interessi sul debito pubblico (e altre spese collegate), pari a 69 miliardi nel 2017, ha ecceduto quella per l’istruzione (per 0,2 punti percentuali di Pil).

 La spesa pubblica italiana per istruzione in percentuale di Pil, pari al 3,8% nel 2017, è ben al di sotto della media europea (4,6%).

L’Italia si colloca nelle ultime posizioni in Europa, seguita solamente da Bulgaria, Irlanda e Romania.

Se invece si considera la spesa pubblica per istruzione in percentuale di spesa pubblica totale, l’Italia è all’ultimo posto in Europa con solo il 7,9% a fronte di una media europea del 10,2%.

Preoccupa anche l’andamento della spesa pubblica per istruzione.

Dal 2007, infatti, la spesa per istruzione in percentuale di spesa pubblica totale è scesa di quasi due punti percentuali.

Nello stesso intervallo di tempo di tempo la media Ue è invece calata solo leggermente, passando dal 10,6% al 10,2%, il che significa che l’Italia oggi è più distante dalla media Ue di quanto non lo fosse prima della crisi.

I dati più preoccupanti riguardano l’istruzione universitaria.

Mentre nel 2017 l’Italia riportava cifre in linea con la media europea per l’istruzione primaria e secondaria (1,5 e 1,7% del Pil rispettivamente, a fronte di medie Ue di 1,5 e 1,9%), si apre un grosso divario quando si considera la spesa per istruzione terziaria.

Lo Stato ha speso, infatti, solo lo 0,3% del Pil per istruzione terziaria, nemmeno la metà della media europea dello 0,7.

 In questa voce l’Italia è all’ultimo posto in Europa, a pari merito con il Regno Unito.

Una possibile ipotesi è che la bassa spesa per pubblica istruzione si debba alla struttura demografica della popolazione, ossia che l’Italia spenda meno dei partner europei poiché ha meno giovani.

Utilizzando la spesa media per popolazione 3-25 anni in pubblica istruzione in rapporto al reddito pro capite, indicatore che tiene conto sia del diverso numero di studenti sia del diverso livello delle risorse disponibili per finanziare la spesa, rispetto alle statistiche precedenti l’Italia migliora leggermente la sua posizione, avvicinandosi alla media Ue ma restandone al di sotto di 1,4 punti percentuali di Pil pro capite.

Compiendo questo esercizio per le tre principali categorie di istruzione (primaria, secondaria e terziaria) separatamente, emerge che il nostro Paese è leggermente al di sopra delle medie Ue per la spesa media in istruzione primaria e secondaria, mentre è penultima in Europa per istruzione terziaria, con una spesa media in percentuale di Pil pro capite del 5,3% a fronte di una media Ue del 10%.

Pur controllando per la struttura demografica, quindi, la spesa italiana per istruzione terziaria è molto bassa.

Si potrebbe argomentare che per colmare il divario di spesa pubblica per istruzione terziaria l’Italia faccia affidamento alla spesa privata.

Tuttavia, sebbene la quota di spesa privata sul totale in Italia (attorno al 30%) sia leggermente più alta rispetto alla media Ue, il totale tra spesa pubblica e privata per l’istruzione universitaria in percentuale di Pil è stato dello 0,6% nel 2015, al di sotto della media Ue (0,9%).

E’ difficile pensare che la carenza di spesa pubblica per istruzione universitaria non sia strettamente legata alla percentuale di persone che conseguono una laurea, solamente il 26,9% in Italia a fronte di una media europea del 39,9%.

Se da un lato è possibile che minori risorse impiegate (meno docenti, strutture peggiori, ecc.) non creino le condizioni ottimali per il conseguimento della laurea, non si può però escludere che tra le spiegazioni del basso numero di laureati vi sia una bassa propensione ad iscriversi all’università a causa dei rendimenti attesi.

In Italia gli adulti laureati guadagnano in media solo il 38% in più di coloro che dopo la scuola superiore non hanno proseguito gli studi, mentre la media Ocse è del 55% in più.

Questo fatto potrebbe essere motivato dalla scelta del percorso universitario: in Italia, infatti, la percentuale di laureati in discipline umanistiche, in media meno remunerative nel mercato del lavoro, è più alta rispetto agli altri Paesi (il 39% contro una media del 23). 

In conclusione, anche tenendo conto degli aspetti demografici, l’Italia spende meno in istruzione terziaria rispetto agli altri Paesi europei.

Pur essendo difficile stabilire se la bassa percentuale di laureati sia un problema di domanda (i giovani non sono interessati ad iscriversi o a portare a termine il percorso) o di offerta (si spende meno e ciò riduce la qualità nell’istruzione terziaria e quindi l’interesse degli studenti), ciò non toglie che una seria lotta agli sprechi in altri settori potrebbe liberare risorse da far confluire nell’istruzione universitaria.

Anche alla luce dell’effetto che l’istruzione terziaria ha sull’inserimento nel mercato del lavoro e sulla formazione del capitale umano, sarebbe auspicabile assestarci su una spesa per l’università più vicina alle medie Ue ed Ocse.

Tale ultima valutazione contenuta nel rapporto citato la sottoscrivo pienamente.



lunedì 5 agosto 2019

Poliziotti senza divise, Salvini ha preso in giro anche loro



Salvini molto spesso indossa le divise degli agenti della polizia di Stato. Sembra essere vicino ai problemi che contraddistinguono questi agenti. In realtà non fa nulla per destinare loro maggiori risorse finanziarie, da utilizzare per le divise, per la benzina delle auto a loro disposizione. Salvini pertanto prende in giro anche loro come prende in giro molti altri che, peraltro, continuano a votarlo o manifestare simpatia nei suoi confronti.

I rappresentanti di diversi sindacati hanno criticato però Salvini e gli hanno rivolto precise richieste, per ora rimaste inascoltate.

Infatti, gli agenti sono costretti a fare uso di pantaloni logori e troppo grandi, magliette rotte e divise invernali anche in estate.

E' la situazione in cui versa la polizia di Stato, alle prese con una vera emergenza: non ci sono uniformi per gli agenti, costretti ormai da anni ad acquistare con i propri soldi l'abbigliamento da lavoro.

A denunciare tale situazione è stato il sindacato “Libertà e sicurezza”, che a Palermo si è trovato costretto a comprare 12 pantaloni per coprire la carenza di questi indumenti.

Il segretario generale Giovanni Iacoi ha dichiarato però come il problema riguardi ormai tutta l'Italia: “A malincuore dobbiamo ammettere che ci arrivano segnalazioni da Nord a Sud e la situazione va avanti così da anni”.

L'allarme è partito da Palermo  dove il sindacato ha deciso di pagare di tasca propria i pantaloni necessari per permettere agli agenti di sostituire i capi d'abbigliamento vecchi e logori.

“Il nostro è solo un gesto simbolico” - ha spiegato Pasquale Guaglianone, segretario provinciale di Les -.

Così il segretario generale Giovanni Iacoi si è rivolto direttamente a Matteo Salvini.

“Siamo felici che il ministro utilizzi la nostra maglietta, vorremmo però chiedergli di permettere anche a noi l'onore di sfoggiare questa bella divisa”.

L'emergenza va avanti da quando, nell'ultima legge di bilancio, sono stati tagliati 2 milioni di euro destinati alle divise. Anche le stesse accademie degli allievi si trovano a dover affrontare lo stesso problema.

“Una volta gli allievi erano i primi a ricevere le divise, oggi invece gli uffici amministrativi si trovano costretti a chiedere ai ragazzi di pagarsi da soli il vestiario”, ha aggiunto Iacoi.

Ma non solo gli allievi sono costretti a mettere mano al portafoglio: i poliziotti si trovano spesso costretti a pagarsi da soli polo, pantaloni o magliette.

“Spesso mentre siamo in servizio, roviniamo le divise. E' parte del nostro lavoro – ha continuato Iacoi - ma nessuno ci fornisce più capi sostitutivi. A volte bisogna accontentarsi di quel poco che si trova in magazzino. Se un agente indossa la taglia 46, si trova costretto a mettersi una 54 perché non abbiamo alternative. Pensate a quanto possa essere imbarazzante girare con i pantaloni cadenti e le magliette rotte”. 

Si tratta di garantire le condizioni minime di decoro, spiegano dal sindacato. Anche durante la parata del 2 giugno, i poliziotti si sono dovuti arrangiare con uniformi di seconda mano.

“Una situazione del genere non sarebbe tollerabile per nessun capo dell'arma dei Carabinieri o della Guardia di Finanza, perché invece il capo della polizia tollera tutto ciò?” ha chiesto Iacoi.

“La verità - ha concluso Iacoi – è che sono stati spesi inutilmente 6 milioni di euro per i nuovi distintivi che si sono scollati il giorno dopo”.

In attesa di ricevere risposte concrete dal ministero, il segretario Iacoi ha lanciato un'ultima provocazione: “Credo che l'unica cosa che resta da fare è scendere in strada nudi”.

giovedì 1 agosto 2019

Dal comitato di bioetica un sì al suicidio assistito


Tredici membri del comitato nazionale di bioetica, tra i quali il presidente, si sono dichiarati favorevoli alla legalizzazione del suicidio assistito in presenza di condizioni precise ed accertabili. Invece il Parlamento non ha ancora legiferato sul tema, come richiesto invece dalla Corte Costituzionale, e non ha nemmeno discusso in aula dei diversi disegni di legge presentati.

Hanno espresso soddisfazione nei confronti di questo pronunciamento del comitato nazionale di biotica sia l’avvocato Filomena Gallo, segretario nazionale dell’associazione Luca Coscioni sia Marco Cappato tesoriere dell’associazione.

Filomena Gallo ha infatti dichiarato: “ concordo con l’onore al comitato  il cui parere fa emergere una riflessione e una disamina della tematica che investe in maniera trasversale giurisprudenza, norme e diritti costituzionalmente rilevanti.

Una parte del comitato va oltre anche la stessa decisione della Corte Costituzionale.

Un plauso a questo lavoro, un parere di grande portata, solo il legislatore italiano ha scelto di non decidere, sui temi che entrano nella vita delle persone saranno nuovamente i giudici delle leggi a dovere intervenire.

I pareri all’interno del comitato sono diversi. 11 membri si oppongono alla legalizzazione del suicidio assistito. Mentre sono 13 i membri favorevoli, incluso il presidente, in presenza di condizioni precise ed accertabili.

Ed è la simultanea soddisfazione delle condizioni indicate a fungere da garanzia per la tutela della persona malata e per il medico disposto ad accoglierne la richiesta di aiuto a morire.

Il comitato ha inoltre evidenziato che, nel rispetto delle condizioni indicate, la presenza di un trattamento di sostegno vitale è considerato una condizione aggiuntiva solo eventuale; ritenerla necessaria, infatti, creerebbe una discriminazione irragionevole e incostituzionale (ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione) fra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e quanti, pur affetti da patologia anche gravissima e con forti sofferenze, non lo sono o non lo sono ancora.

Si imporrebbe, inoltre, a questi ultimi di accettare un trattamento anche molto invasivo, come nutrizione e idratazione artificiali o ventilazione meccanica, al solo scopo di poter richiedere l’assistenza al suicidio, prospettando in questo modo un trattamento sanitario obbligatorio senza alcun motivo ragionevole”.

Marco Cappato ha,  invece, così commentato la decisione del comitato nazionale di bioetica: “Onore la comitato nazionale di bioetica, e non solo alla maggioranza che ha espresso una decisione rispettosa della libertà del malato, ma anche alla minoranza che si è opposta, perché almeno loro, al contrario del Parlamento italiano, hanno avuto il coraggio di dibattere e di scegliere.

Il 19 settembre terremo una grande manifestazione/concerto nazionale a Roma, ai giardini Welby, per chiedere proprio al Parlamento di farsi vivo - a 13 anni dalla lettera di Welby al presidente Napolitano e a 6 anni dal deposito della nostra legge di iniziativa popolare - invece di nascondersi dietro alla Corte Costituzionale. Per quanto ci riguarda, con Mina Welby e Gustavo Fraticelli, continuiamo ad aiutare i malati ad essere liberi di decidere fino alla fine”.