mercoledì 26 settembre 2018

Molte le famiglie sorrette dal reddito delle donne


E’  stato presentato  il “1° rapporto Auditel-Censis su convivenze, relazioni e stili di vita delle famiglie italiane”. Oltre 6 milioni di donne sono capofamiglia. Aumentano le coabitazioni per ragioni economiche. I bambini tra 4 e 10 anni si rivelano precoci digitali. Clamoroso il boom di accessori domestici: mentre la tv spopola e lo smartphone invade anche il letto (28 milioni di adulti navigano sul web di notte), nelle case sono più i forni a microonde che le lavastoviglie, scompare la segreteria telefonica e si fa largo la vasca idromassaggio.

Questi i principali risultati del rapporto.

Le persone che vivono sole sono 5,7 milioni. E 1,3 milioni vivono con parenti o con altre persone con cui non hanno relazioni di coppia o genitoriali.

Le donne con ruolo di capofamiglia sono ormai 6,3 milioni, pari al 25,7% del totale delle famiglie. Oltre alle donne che vivono sole (capofamiglia per definizione) altre 2,9 milioni vivono in coppie con o senza figli, di cui ben 1,7 milioni assolvono da sole al ruolo di genitore: una straordinaria esperienza di esercizio della responsabilità femminile nel quotidiano di cui troppo poco si parla.

Le coabitazioni che includono anche persone senza legami di parentela sono 2,3 milioni. Le ragioni? Molteplici, ma sarebbe un errore sottovalutare quelle economiche, che spingono ad affittare o subaffittare stanze.

Le case degli italiani sono stracolme di elettrodomestici tradizionali o di ultima generazione. Tra tutti, spicca il televisore: ve ne sono oltre 43 milioni (il 97,1% delle famiglie ne possiede almeno uno), contro 14 milioni di pc portatili (48,1%), 7,4 milioni di tablet (26,4%), 5,6 milioni di pc fissi (22,1%). Rafforza il primato della tv questo dato: il 19,3% delle famiglie dispone di almeno un televisore connesso al web (smart tv o apparecchio tradizionale connesso al web con dispositivo esterno).

I telefoni cellulari sono presenti in oltre il 95% delle famiglie, i telefoni fissi solo nel 60% circa. Il forno a microonde, che ritroviamo nel 53% delle abitazioni, batte la lavastoviglie, utilizzata da quasi il 45%. Gli impianti di aria condizionata arrivano al 29,7%. Il sistema hi-fi con componenti separati al 16,5%. La linea fissa solo dati al 13,2%. La vasca idromassaggio al 4,9%. Residuali la videocamera digitale (6,5% delle famiglie) e la segreteria telefonica (2,1%).

La connessione al web è ormai capillare e coinvolge anche gli anziani. Wireless e connessione mobile, in casa, al lavoro, negli esercizi e spazi pubblici, rendono il web imprescindibile nelle dotazioni individuali e nelle relazioni collettive. Il 49,6% delle famiglie dispone di una connessione a banda larga, con una forte oscillazione territoriale (che penalizza il Sud) e sociale (che penalizza le famiglie a basso livello socio-economico).

I minori sono autentici precoci digitali. . Nella fascia d'età 4-10 anni il 17,6% ha il cellulare, il 6,7% utilizza il pc fisso, il 24,2% il portatile, il 32,7% il tablet e il 49,2% è connesso al web. I nati dal 2000 in avanti sono il banco di prova tangibile degli effetti sociali, anche sulle relazioni familiari, dei nuovi strumenti tecnologici.

I figli sono un formidabile moltiplicatore dei consumi. E’ vero che le famiglie con figli sono quelle che più soffrono per le difficoltà economiche e che il terzo figlio è in molti casi una delle determinanti della povertà. Tuttavia emerge con nettezza che la famiglia con figli ha una propensione al consumo maggiore. Le famiglie monogenitoriali sono le più in sofferenza sul piano economico, visto che stentano a stare dietro alla dinamica incrementale della dotazione di beni legata alla presenza di figli e adolescenti.

E’ prevalente il potere decisionale maschile su settori fondamentali della vita familiare nelle coppie con o senza figli. Gli acquisti quotidiani e di elettrodomestici sono gli unici ambiti a prevalente potere decisionale femminile. Il resto è tutto in mano ai maschi, che nella gran parte dei casi sono i capofamiglia. Cresce tuttavia il peso dei figli nel caso di decisioni di spesa per i device informatici.

C’è una netta propensione a convivere con persone del proprio gruppo sociale, per livello di scolarità e per professione svolta. Le donne, più degli uomini, tendono a fare coppia con partner che svolgono attività professionali dello stesso livello. E sono più propense ad accettare uomini con minore capitale culturale. Vince su tutto l'omogeneità socio-economica e professionale delle coppie, in sintonia con una società dalla mobilità bloccata quasi per ceti.

Le famiglie italiane sono alle prese con la formidabile potenza erosiva delle fruizioni individualizzate degli smartphone, che azzerano di fatto i momenti di aggregazione collettiva.

Una persona, uno smartphone è la metrica ormai imperante in tutte le tipologie familiari: una condizione di base, strutturale, che consente a ogni singolo membro di fruire in totale autonomia e piena comodità di contenuti modulati sui propri specifici interessi.

Lo smartphone è utilizzato dalla quasi totalità dei membri delle famiglie, trasversalmente alla condizione socio-economica. Ma in solitudo, per se stessi e non in fruizione collettiva.

Sono addirittura 28 milioni, poi, gli utilizzatori notturni che lo hanno eletto a inseparabile partner sin nel proprio letto. E ben 11,8 milioni indicano esplicitamente la fruizione sempre e ovunque dello smartphone sul web.

“La famiglia, collante della società, ha cambiato pelle con l'evoluzione sociale: siamo passati dalla famiglia Spa, che combinava redditi e patrimoni, alla famiglia di cura garante di welfare informale e reddito per i componenti non autosufficienti e i figli precari, fino all'attuale rischio di una famiglia disintermediata, alle prese con le sfide che minacciano la relazionalità interna», ha affermato Giuseppe De Rita, presidente del Censis.

“Il consumo individuale legato agli smartphone connessi al web fa saltare quella quotidiana ritualità conviviale costruita intorno alla visione dei programmi televisivi. Il rapporto Auditel-Censis ha messo sotto i nostri occhi la portata della sfida, visto anche l'intenso e precoce utilizzo dei device digitali da parte di adolescenti e bambini”, ha concluso De Rita.

Il turismo illegale



Il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, ha consegnato al ministro del Turismo, Gian Marco Centinaio, un rapporto sulla “shadow hospitality”, insieme ad un elenco di quasi 400.000 appartamenti italiani disponibili su Airbnb ad agosto 2018. Per “shadow hospitality” si intende il complesso degli affitti di breve durata di camere, a fini turistici, la cui promozione avviene soprattutto tramite annunci online. Molto spesso questa componente della ricettività turistica è “sommersa” e genera evasione fiscale.
“Abbiamo censito le strutture parallele che vendono camere in rete - ha affermato Bocca - e mettiamo questo elenco a disposizione di tutte le amministrazioni nazionali e territoriali, nonché delle autorità investigative competenti, che desiderano fare luce sul fenomeno”.
“Dall'analisi delle inserzioni presenti sul principale portale - ha affermato il presidente degli albergatori italiani - emergono quattro grandi bugie che smascherano la favoletta del gestore che accoglie l'ospite in casa propria”.
Quali sono  queste quattro grandi bugie?
“Non è vero che si tratta di forme integrative del reddito. Sono attività economiche a tutti gli effetti. Più della metà degli annunci (il 62,22%) sono pubblicati da persone che amministrano più alloggi, con casi limite di soggetti che gestiscono più di 4.000 alloggi.
Non è vero che si condivide l’esperienza con il titolare. Più di tre quarti degli annunci (il 76,88%) si riferisce all'affitto di interi appartamenti, in cui non abita nessuno.
Non è vero che si tratta di attività occasionali. Quasi due terzi degli annunci (il 64,58%) si riferisce ad alloggi disponibili per oltre sei mesi l'anno.
Non è vero che le nuove formule tendono a svilupparsi dove c’è carenza di offerta. Gli alloggi sono concentrati soprattutto nelle grandi città e nelle principali località turistiche dove è maggiore la presenza di esercizi ufficiali”.
“A causa di questa narrazione fraudolenta – ha sottolineato Bocca - il consumatore è ingannato due volte: viene tradita la promessa di vivere un'esperienza autentica e vengono eluse le norme poste a tutela del cliente, dei lavoratori, della collettività e del mercato. Si pone inoltre con tutta evidenza un problema di evasione fiscale e di concorrenza sleale, che danneggia tanto le imprese turistiche tradizionali quanto coloro che gestiscono in modo corretto le nuove forme di accoglienza.
Né può essere sottaciuta la responsabilità delle piattaforme online, che adottano una posizione pilatesca e fanno finta di non vedere o addirittura incoraggiano e proteggono il traffico sospetto che transita attraverso i propri canali”.
“I nostri competitor si sono mossi da tempo, per contrastare le degenerazioni della sharing economy nel turismo. Anche l'Italia deve fare la sua parte, dettando regole ed istituendo controlli volti ad azzerare l'illegalità in uno dei settori tra i più importanti per l'economia del Paese”.
“Abbiamo chiesto al ministro - ha proseguito Bocca - che venga istituito con urgenza il registro nazionale degli alloggi turistici e che si affermi con chiarezza, anche per le locazioni brevi, l'obbligo di rispettare le norme di tutela dei clienti, dei lavoratori, dei vicini di casa, della collettività, della concorrenza”.
“Occorre inoltre adottare misure che pongano un argine allo spopolamento dei centri storici, conseguenza della tendenza a sfrattare i residenti, per far posto ad attività di locazione breve, che vengono affittate a peso d'oro.
In molti Paesi, questo obiettivo è stato perseguito assoggettando le locazioni brevi a condizioni e limitazioni: le abitazioni private possono essere affittate ai turisti solo se il proprietario è residente nell'appartamento, per un numero massimo di giorni all'anno, per un numero massimo di persone per notte, solo per una porzione dell'appartamento, ecc...”
Al riguardo, Bocca ha evidenziato che “il superamento di tali soglie non determina il divieto di svolgere l'attività, ma unicamente l'obbligo di esercitarla nel rispetto delle medesime condizioni previste per le imprese turistico ricettive, all'insegna del paradigma stesso mercato, stesse regole”.
Bocca ha concluso ricordando “l'intollerabile situazione di stallo che si registra sul versante fiscale. A più di un anno dall'entrata in vigore della norma che ha previsto l'applicazione di una tassazione agevolata per le locazioni brevi, sono ancora una netta minoranza gli intermediari che applicano la cosiddetta cedolare secca e comunicano i dati all'Agenzia delle Entrate.
L'entità del danno provocato alle casse dello Stato è notevole. Basti considerare che nel 2016 i soli host di Airbnb hanno ricavato in Italia circa 621 milioni di euro, sui quali il portale avrebbe dovuto effettuare e versare ritenute per circa 130,4 milioni di euro. Considerando il tasso di crescita degli annunci, si può stimare che l'evasione dell'imposta nel primo anno di applicazione della norma sia stata pari ad almeno 200 milioni di euro”.
Cosa ha risposto Centinaio?
Ha dichiarato che il suo primo obiettivo è combattere l’illegalità nel turismo.
Ha poi aggiunto: “Stiamo lavorando a un progetto per fornire un codice identificativo  alle strutture ricettive e per contrastare tutte le pratiche che stanno inutilmente danneggiando l’industria turistica del nostro Paese e contraendo le possibilità di sviluppo dei nostri territori e delle destinazioni”.

giovedì 20 settembre 2018

Italia "maglia nera" per i tumori infantili



E’ ormai noto come l’inquinamento di acqua, aria e terra abbia ricadute negative sul nostro benessere e rappresenti un fattore determinante nello sviluppo di malattie a carico dell’apparato respiratorio e cardiovascolare e di patologie oncologiche. Di questo tema se ne è discusso in occasione del convegno “Emergenza cancro - fattori ambientali modificabili e stili di vita non corretti”, organizzato dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima).

In un articolo pubblicato su www.quotidanosanita.it è stato esaminato quanto emerso in questo convegno.

Nel 2016 il ministero della Salute ha diffuso una mappa delle aree più contaminate presenti nel nostro Paese, associata all’eventuale rischio di sviluppare malattie oncologiche.

“I dati - ha sottolineato la Sima - hanno evidenziato un incremento anche del 90% in soli 10 anni: cancro alla tiroide, alla mammella e il mesotelioma i tumori più diffusi nelle zone prese in esame, causati dall’esposizione a sostanze tossiche, quali diossina, amianto, petrolio, policlorobifenili e mercurio”.

“L’Italia, inoltre, - ha aggiunto la società scientifica - detiene la maglia nera in Europa per quanto riguarda l’incidenza di malattie oncologiche in età pediatrica.

E’ quanto emerge da uno studio condotto in 62 Paesi dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (Iarc), in collaborazione con l’Associazione Internazionale dei Registri del Cancro e pubblicato nel 2017 su ‘Lancet Oncology’. 

La maggiore incidenza di tumori si registra nei bambini tra 0 e 14 anni e negli adolescenti tra i 15 e i 19 anni nell’area del Sud Europa che comprende, oltre all’Italia, Cipro, Malta, Croazia, Spagna e Portogallo".

“Anche l’ultimo rapporto Sentieri (Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento) a cura dell’Istituto Superiore di Sanità rileva un’ ‘emergenza cancro’ tra i più giovani.

I dati raccolti nel periodo 2006-2013 in 28 dei 45 siti italiani maggiormente inquinati hanno infatti sottolineato un incremento di tumori maligni del 9% nei soggetti tra 0 e 24 anni, registrando picchi del 50% per i linfomi Non-Hodgkin, del 62% per i sarcomi dei tessuti molli e del 66% per le leucemie mieloidi acute”, ha spiegato sempre la Sima.

“Generalmente si pensa al cancro come a una malattia della terza età e si sostiene che il trend continuo di incremento di tumori nel corso del XX secolo in tutti i Paesi industrializzati possa essere spiegato mediante la teoria dell’accumulo progressivo di lesioni genetiche stocastiche e il miglioramento continuo delle nostre capacità diagnostiche”, ha esordito Ernesto Brugio, membro dell’European Cancer and Environment Research Institute (Eceri) di Bruxelles.

“In genere si afferma che i tumori infantili sono una patologia rara. E’ opportuno però ricordare come, in termini assoluti, uno su 5-600 nuovi nati si ammalerà di cancro prima del compimento del quindicesimo anno d’età; come, nonostante i significativi miglioramenti prognostici degli ultimi decenni, il cancro rappresenti la prima causa di morte per malattia nei bambini che hanno superato l’anno d’età; come anche in questa fascia d’età, a partire dagli anni 1980-90, si sia assistito a un aumento significativo della patologia tumorale”.

mercoledì 19 settembre 2018

Nel 2017 morti oltre 6 milioni di bambini



Secondo i dati forniti congiuntamente dall’Unicef, dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dalla divisione delle Nazioni Unite per la popolazione e dalla Banca mondiale, nel 2017 sono morti circa 6,3 milioni di bambini sotto i 15 anni, 1 ogni 5 secondi e per lo più per cause che avrebbero potuto essere prevenute.

La maggior parte di questi decessi - 5,5 milioni - sono avvenuti nei primi 5 anni di vita, e in circa la metà dei casi entro il primo anno (mortalità neonatale).

A livello globale, nel 2017, la metà dei decessi prima dei 5 anni si sono verificati nell’Africa subsahariana  e un altro 30% in Asia meridionale.

In Africa, 1 bambino su 13 muore prima del suo quinto compleanno. Nei Paesi ad alto reddito, questo numero è pari a 1 su 185. 

“Senza un’azione immediata, di qui al 2030 moriranno 56 milioni di bambini sotto i 5 anni, metà dei quali nenonati”, ha sottolineato Laurence Chandy, direttore per data research and policy dell’Unicef.

Chandy ha così proseguito: “Dal 1990 abbiamo compiuto notevoli progressi nella sopravvivenza infantile, ma a milioni continuano a morire a causa delle circostanze e del luogo in cui sono nati. Con soluzioni semplici come, medicine, acqua pulita, energia elettrica e vaccini, possiamo modificare questo destino per ogni bambino”.

La maggior parte dei bambini sotto i 5 anni muore per cause prevenibili o curabili come complicazioni durante le nascita, polmonite, diarrea, sepsi neonatale e malaria. 

Nella fascia di età tra 5 e 14 anni, invece, la principale causa di mortalità diventano gli infortuni, in primo luogo annegamenti e incidenti stradali.

Anche in questo gruppo di età sono marcate le differenze tra le regioni del globo: un bambino dell’Africa subsahariana corre un rischio di morte precoce 15 volte più alto che un coetaneo europeo.

Per i bambini, ovunque nel mondo, il periodo più a rischio è quello immediatamente successivo alla nascita. Nel 2017 2,5 milioni di bambini sono morti nel loro primo mese di vita. 

Un bambino nato in Africa subsahariana o in Asia meridionale aveva una probabilità nove volte maggiore di morire nel primo mese di vita rispetto a un bambino nato in un Paese ad alto reddito.

I progressi per salvare le vite di neonati sono stati più lenti rispetto a quelli per gli altri bambini sotto i 5 anni dal 1990. 

Anche all’interno dei Paesi persistono delle disparità. I tassi di mortalità sotto i 5 anni fra i bambini nelle aree rurali sono, in media, del 50% più alti rispetto a quelli delle aree urbane.

Inoltre, coloro che sono nati da madri non istruite hanno una probabilità oltre due volte maggiore di morire prima di compiere cinque anni rispetto a quelli nati da madri con un’istruzione di livello secondario o superiore.

Occorre notare, però,  che ogni anno nel mondo sta morendo un numero minore di bambini. Il numero di bambini sotto i 5 anni che muoiono è diminuito fortemente dai 12,6 milioni del 1990 ai 5,4 milioni del 2017.

Nello stesso periodo, il numero di morti fra i bambini di età maggiore, fra i 5 e i 14 anni, è calato da 1,7 milioni a meno di un milione.

Nonostante l’importanza di questi ultimi dati, risulta comunque necessario, ovviamente, moltiplicare gli sforzi affinchè nei prossimi anni il numero delle morti dei bambini si riduca ancora considerevolmente.

venerdì 14 settembre 2018

5 anni di silenzio sull'eutanasia legale



A 5 anni dal deposito delle firme di 67.000 cittadini sulla proposta di legge dell'associazione Luca Coscioni per la legalizzazione dell'eutanasia, poi sottoscritta in totale da 130.000 persone, il Parlamento non ne ha discusso nemmeno un minuto. La proposta è attualmente incardinata nelle commissioni Affari sociali e Giustizia della Camera.
Il 13 settembre quindi l’associazione Luca Coscioni ha organizzato una manifestazione davanti a Montecitorio.
Inoltre sono state consegnate al presidente della Camera Roberto Fico le 130.000 firme delle persone che hanno sottoscritto la proposta di legge in questione.
Poi si è tenuta una riunione dell’Intergruppo parlamentare sul fine vita, promossa sempre dall’associazione, che nella XVIII legislatura conta già 34 parlamentari impegnati nella richiesta di immediata discussione della legge popolare.
“Vogliamo richiamare ciascun parlamentare a confrontarsi con la grande questione sociale che Marco Pannella definiva della ‘morte all’italiana’, cioè dell’eutanasia clandestina e dell’accanimento contro i malati -  ha dichiarato Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni.
In attesa dell’udienza della Corte Costituzionale sul processo a mio carico, relativamente alla vicenda di Dj Fabo, vogliamo che ora anche il Parlamento si faccia vivo e discuta la nostra legge di iniziativa popolare”.
“Abbiamo lasciato passare i primi 100 giorni di governo, nei quali è normale che la maggioranza cerchi di imprimere le proprie priorità - ha annunciato Filomena Gallo, segretario dell’associazione.
Ora però è arrivato il momento anche di prendere in considerazione temi che tra l’altro sono stati sollevati attraverso lo strumento delle iniziative popolari.
Siamo dunque grati al presidente della Camera per l’incontro che  ci è stato concesso, perché l’attenzione del Parlamento alle iniziative popolari, di qualunque segno esse siano, è un fatto istituzionale prima ancora che una questione di parte”.
Libertà ed eutanasia saranno anche protagonisti del XV congresso dell’associazione Luca Coscioni, in programma dal 5 al 7 ottobre a Milano, col titolo “Le libertà in persona”.
Al centro della tre giorni ci saranno i temi della libertà di ricerca, che coinvolgono genoma, stupefacenti, staminali, biotecnologie, aborto, disabilità, intelligenza artificiale, eutanasia, laicità.

martedì 11 settembre 2018

Un bambino su due senza mensa scolastica



La metà degli alunni delle scuole primarie e secondarie di primo grado non ha accesso alla mensa scolastica. Inoltre, l’erogazione del servizio è fortemente disomogenea sul territorio italiano e le modalità di accesso o di esenzione spesso contribuiscono a aumentare le disuguaglianze, a scapito delle famiglie più svantaggiate. E’ questo il quadro evidenziato dal nuovo rapporto “(Non) Tutti a Mensa 2018” di Save the Children.
La ricerca evidenzia come, ad un anno dall’ultimo monitoraggio, sono ancora molte le scuole che non assicurano ai bambini e alle loro famiglie di usufruire della mensa scolastica che, non solo rappresenta un sostegno all’inclusione e all’educazione alimentare, ma è uno strumento fondamentale per il contrasto della povertà e della dispersione scolastica.
Invece, rispetto allo scorso anno, il quadro che emerge è preoccupante e sottolinea alcuni peggioramenti: in 9 regioni italiane (una in più rispetto al 2017), oltre il 50% degli alunni, più di 1 bambino su 2, non ha la possibilità di accedere al servizio mensa; inoltre si registra un tendenziale peggioramento in quasi tutte le regioni di 1-2 punti percentuali.
La forbice tra Nord e Sud si distanzia sempre più. Sono infatti sette le regioni insulari e del Meridione che registrano il numero più alto di alunni che non usufruiscono della refezione scolastica: Sicilia (81,05%), Molise (80,29%), Puglia (74,11%), Campania (66,64%), Calabria (63,78%), Abruzzo (60,81%) e Sardegna (51,96%).
Delle nove regioni in cui oltre metà dei bambini non accede alla mensa, cinque registrano anche la percentuale più elevata di classi senza tempo pieno (Molise 94,27%, Sicilia 91,84%, Campania 84,90%, Abruzzo 83,92%, Puglia 82,92%), superando ampiamente il dato nazionale già critico, secondo il quale oltre il 66% di classi primarie risulta senza il tempo pieno.
In cinque di loro, si osservano anche i maggiori tassi di dispersione scolastica d’Italia (Sardegna 21,2%, Sicilia 20,9%, Campania 19,1%, Puglia 18,6% e Calabria 16,3%).
“In Italia la povertà assoluta è in continuo aumento. Tra le famiglie in povertà in 1 su 10 è presente almeno un figlio minore, mentre oltre 1 su 5 sono quelle con tre o più figli minori” ha affermato Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia Europa.
“Una mensa accessibile a tutti con un servizio di qualità e uno spazio adeguato, svolge un compito cruciale nella lotta alla povertà, oltre a garantire la possibilità di attivazione del tempo pieno, combattendo efficacemente la dispersione scolastica. Per questo, riconoscere il servizio di refezione scolastica come un servizio pubblico essenziale deve essere una priorità”, ha proseguito Milano.
L’esperienza della mensa ha anche un profondo valore educativo.
All’indomani della pubblicazione della pronuncia con cui il Consiglio di Stato sembra sminuire la funzione educativa della mensa, emblematiche appaiono le parole di Carlo Petrini, in un contributo contenuto nel rapporto: “La pausa del pranzo fornisce indubbiamente la possibilità di educare gli studenti alla buona e sana alimentazione, al rispetto della diversità, alle regole della convivenza civile, in un contesto diverso dall’aula, in un contesto collettivo che riproduce un aspetto della vita reale, del ‘mondo adulto’.
Tutto questo non assume lo stesso valore se il pasto non è uguale per tutti, fatta eccezione per le intolleranze o per le esigenze religiose ed etiche. Il pasto portato da casa può essere un gesto di protesta, ma non una soluzione” scrive il presidente di Slow Food, che aggiunge: “E’ un diritto garantito al singolo che fa perdere peso al diritto di tutti di richiedere un pasto buono e sano per tutti gli studenti. E’ il fallimento del collettivo e del sociale. Al contrario il pasto in mensa può diventare misura di lotta alla povertà educativa ed esclusione sociale, oltre che strumento di socializzazione e integrazione scolastica”.