venerdì 31 agosto 2018

Nel 2018 587 i morti sul lavoro



L’Inail ha recentemente reso noti i dati relativi ai primi 7 mesi del 2018 per quanto concerne gli infortuni, i morti sul lavoro e le malattie professionali. Tra gennaio e luglio del 2018 i casi d’infortunio sono stati 379.206, in diminuzione dello 0,3% rispetto all’analogo periodo del 2017. Ben 587, invece, le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale. Quattro in meno rispetto alle 591 dell’analogo periodo del 2017 (-0,7%), ma pur sempre un numero rilevante.

Si è verificata una diminuzione sia dei casi avvenuti in occasione di lavoro passati da 325.390 a 325.054 (-0,1%) sia di quelli in itinere, ovvero nel tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il posto di lavoro scesi da 54.846 a 54.152 (-1,3%).

Nei primi sette mesi del 2018 si è registrato un decremento nella gestione industria e servizi dello 0,2% (da 295.843 a 295.302 casi) e in agricoltura del 2,8% (da 19.294 a 18.760) e un aumento dello 0,1% nel conto Stato (da 65.099 a 65.144).

L’analisi territoriale evidenzia una sostanziale stabilità nel Nord-Ovest (-0,04%) e decrementi al Centro (-1,8%) e nelle Isole (-3,0%). Aumenti si riscontrano, invece, nel Nord-Est (+0,7%) e al Sud (+0,5%).

Tra le regioni con i maggiori decrementi si segnalano la provincia autonoma di Trento (-9,0%), Abruzzo (-4,3%) e Sardegna (-3,7%); quelle con un maggior incremento, il Friuli Venezia Giulia (+4,7%), la provincia autonoma di Bolzano (+3,3%) e la Campania (+2,4%).

Il decremento rilevato nel confronto tra i primi sette mesi del 2017 e del 2018 è legato solo alla componente femminile che registra un calo dell’1,2% (da 136.411 a 134.789), mentre quella maschile presenta un lieve aumento pari allo 0,2% (da 243.825 a 244.417).

La diminuzione ha interessato gli infortuni dei lavoratori italiani (-1,4%) e di quelli comunitari (-0,2%); per i lavoratori extracomunitari si assiste, invece, ad un aumento dell’8,6%.

Per quanto riguarda le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale, si è registrata una diminuzione dei casi avvenuti in occasione di lavoro, passati da 431 a 414 (-3,9%), mentre quelli occorsi in itinere, ovvero nel tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il posto di lavoro, sono aumentati dell’8,1% (da 160 a 173).

Nei primi sette mesi del 2018 si è registrato un aumento di 25 casi mortali (da 497 a 522) nella gestione industria e servizi, mentre in agricoltura i decessi denunciati sono stati 20 in meno (da 76 a 56) e nel conto Stato 9 in meno (da 18 a 9).

L’analisi territoriale evidenzia un incremento di 9 casi mortali nel Nord-Ovest (da 146 a 155) e una stabilità nel Nord-Est (157). Diminuzioni si riscontrano, invece, al Centro (da 112 a 110), al Sud (da 120 a 119) e nelle Isole (da 56 a 46).

A livello regionale spiccano i 16 casi in più del Veneto (da 55 a 71) e i 13 in più della Calabria (da 9 a 22). Cali significativi si registrano, invece, in Puglia (da 41 a 24) e in Abruzzo (da 29 a 16), teatro nel gennaio 2017 delle tragedie di Rigopiano e Campo Felice.

Il decremento rilevato nel confronto tra i primi sette mesi del 2017 e del 2018 è legato esclusivamente alla componente maschile, i cui casi mortali denunciati sono stati quattro in meno (da 531 a 527), mentre quella femminile ha registrato 60 decessi in entrambi i periodi.

La diminuzione ha interessato le denunce dei lavoratori italiani (da 498 a 494) e quelle degli extracomunitari (da 67 a 64), mentre quelle dei lavoratori comunitari sono aumentate di 3 unità (da 26 a 29).

Dopo la diminuzione registrata nel corso di tutto il 2017, in controtendenza rispetto al costante aumento degli anni precedenti, nei primi sette mesi del 2018 le denunce di malattia professionale protocollate dall’Inail sono tornate ad aumentare.

Al 31 luglio 2018, l’incremento si attesta al +3,5% (pari a 1.277 casi in più rispetto allo stesso periodo del 2017, da 36.224 a 37.501).

Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo (21.676 casi), con quelle del sistema nervoso (4.211) e dell’orecchio (2.774), continuano a rappresentare le prime tre malattie professionali denunciate nel periodo gennaio-luglio 2018 (pari a oltre il 76% del complesso). Seguono le denunce di patologie del sistema respiratorio (1.618) e dei tumori (1.401).

giovedì 30 agosto 2018

Quasi 275.000 disabili vivono ancora in strutture residenziali



Secondo gli ultimi dati Istat, al 31 dicembre 2014 le persone disabili presenti negli oltre 13.200 presidi residenziali socioassistenziali e sociosanitari sono 273.316, oltre il 70% del totale degli ospiti. Sono, infatti, ancora migliaia le strutture residenziali per persone disabili distribuite lungo tutta la Penisola.

Pertanto non è stata trovata, per ora, una vera alternativa a tali strutture, che alcuni definiscono manicomi nascosti.

Di tale situazione ci si occupa in un articolo pubblicato su www.superabile.it.

Dei 273.316 disabili presenti nelle strutture citate , 3.147 sono minori con disabilità e disturbi mentali dell’età evolutiva, 51.593 adulti con disabilità e patologia psichiatrica e 218.576 anziani non autosufficienti.

Ma solo un’esigua percentuale vive in comunità di piccole dimensioni, che ricalcano uno stile di vita familiare: appena il 3% degli anziani, il 6,5% degli ospiti con disabilità e il 15,4% delle persone con sofferenza psichica.
 
Tutti gli altri trascorrono la propria vita in strutture con oltre sei-dieci posti letto, spesso più simili a cliniche e ospedali che ad ambienti di vita domestici.

E c’è anche di peggio. Perché a volte, nelle residenze sanitarie assistenziali (Rsa), nelle case di cura private e nelle comunità terapeutiche, come peraltro nei servizi di neuropsichiatria infantile e nei reparti geriatrici, vengono adottati metodi di contenzione meccanica, farmacologica o ambientale, tutti attualmente permessi dalla legge: gli ospiti vengono immobilizzati al letto, sedati attraverso grandi quantità di farmaci, chiusi in luoghi che ne limitino le possibilità di movimento.
 
In altri casi, sebbene sia un’eccezione e non la regola, le strutture possono diventare teatro di veri e propri crimini.

Sono i risultati delle indagini dei carabinieri dei Nas (Nuclei antisofisticazioni e sanità) a definire le dimensioni di un fenomeno sicuramente minoritario, ma non per questo meno preoccupante.

Il 28% dei 6.187 controlli effettuati nelle strutture sanitarie socioassistenziali e nei centri di riabilitazione neuropsicomotoria tra il 2014 e il 2016 ha portato alla luce irregolarità.
In particolare, 68 persone sono state arrestate e 1.397 segnalate all’autorità giudiziaria, mentre 176 strutture sono state sottoposte a sequestro o a chiusura.

Solo nel 2016 sono stati registrati 114 casi di maltrattamento, 68 abbandoni di incapace, 16 lesioni personali e 16 sequestri di persona. Ma non lascia indifferenti neppure la presenza di reati meno gravi, come i 260 casi di inadeguatezza strutturale, assistenziale e autorizzativa e i 109 di esercizio abusivo della professione sanitaria, solo per fare qualche esempio.

mercoledì 29 agosto 2018

Esportazioni, un piccolo miracolo italiano



Il 2017 è stato il quarto anno di crescita consecutivo del nostro Paese: +1,5% rispetto al 2016. E’ stata una ripresa fortemente trainata dalle esportazioni. Per questo motivo rischia ora di frenare di fronte al manifestarsi di tendenze protezionistiche e di guerre commerciali.
Del ruolo delle esportazioni nella crescita economica italiana si occupano Ivan Lagrosa e Jacopo Tozzo, in un articolo pubblicato su www.lavoce.info.
Una delle cause più importanti che ha permesso al nostro Paese di intraprendere la via della ripresa, dopo la grande crisi, è stato senza dubbio l’andamento delle esportazioni, cresciute di oltre il 30% dal 2010, mentre sono decisamente più contenute le variazioni dei consumi interni e degli investimenti.
Sono tendenze di dimensioni tali da consentire di parlare di un vero e proprio piccolo miracolo italiano e che stonano con le simpatie per posizioni protezioniste, spesso manifestatesi nel dibattito politico interno.
L’andamento dei beni italiani venduti all’estero conferma poi i suoi ottimi risultati anche rispetto alla quota delle esportazioni sul Pil: considerando i quattro maggiori Paesi dell’area euro, negli anni dopo la crisi, il nostro si è costantemente collocato al secondo posto, dopo la Germania, raggiungendo nel 2017 quota 27%.
Un dato in crescita dal 2009 e il cui andamento positivo, anche in termini assoluti, ha attraversato con contraccolpi relativamente ridotti gli anni della crisi del debito sovrano.
Se alla quota di beni esportati si aggiungono poi anche i servizi, l’incidenza dell’export sul Pil nel 2017 ha superato la soglia del 30%.
Quanto ai principali partner commerciali italiani, per volume di esportazioni, nel 2016 le prime posizioni erano occupate, nell’ordine, da Germania, Francia, Stati Uniti, Regno Unito e Spagna. Questi cinque paesi, complessivamente, ricoprivano da soli una percentuale poco più alta del 40% del totale delle nostre esportazioni.
A partire da questi dati, una prima considerazione riguarda la recente introduzione dei dazi americani.
Gli Stati Uniti sono il terzo Paese, per merci e servizi, verso cui l’Italia esporta, quindi la perdita di competitività derivante da un più alto costo dei nostri prodotti per i cittadini americani potrebbe causare una notevole riduzione dei volumi esportati.
Però, considerati i ridotti quantitativi di esportazioni di acciaio e alluminio (i principali prodotti interessati per ora dai dazi americani), calcolati tra 1,3 e 1,7 miliardi di euro, rispettivamente il 3,5 e il 4,5% delle esportazioni totali verso gli Stati Uniti, per il momento non sono attesi contraccolpi particolarmente forti sull’economia del nostro Paese.
Una menzione merita infine il caso della Russia, per la quale l’Unione europea ha introdotto sanzioni nell’estate del 2014.
A seguito delle contro-misure previste del Cremlino, e in concomitanza con la recessione russa, il volume delle esportazioni italiane è diminuito di circa il 30% nel 2015, stabilizzandosi sullo stesso livello anche nell’anno successivo, con un calo di circa 3,2 miliardi di euro.
Già nel 2013 le esportazioni verso la Russia rappresentavano però una percentuale molto ridotta dei volumi totali italiani, pari al 2,4%, scesa poi all’1,6 nel 2016.
Se una guerra commerciale con gli Stati Uniti potrebbe quindi avere conseguenze importanti nel medio termine, i volumi di scambio con la Russia risultano relativamente bassi e una loro ulteriore riduzione avrebbe quindi un effetto limitato.

martedì 28 agosto 2018

Il primo genocidio del Novecento, in Namibia



Lo sterminio degli Herero e dei Nama, compiuto dai soldati tedeschi in Namibia tra il 1904 e il 1907 e considerato da alcuni storici il primo genocidio del Novecento, è stato un episodio per lo più dimenticato negli scorsi decenni. Non si conosce l’esatto numero dei morti. Infatti le stime sul numero totale delle persone uccise nello sterminio variano molto: le più alte, riportate da alcuni storici, parlano di 100.000 morti, le più basse di 25.000.

Si è tornati a discutere di questo sterminio in seguito ai negoziati in corso tra il governo tedesco e quello della Namibia per definire un eventuale risarcimento economico.

Ma che cosa avvenne?

Si può far riferimento, per sapere cosa successe, ad un articolo pubblicato su www.ilpost.it.

“La Namibia è un grosso stato del sud dell’Africa, subito a nord del Sudafrica e bagnato dall’oceano Atlantico per i suoi oltre 1.500 chilometri di costa.

A partire dalla fine dell’Ottocento è stata una colonia della Germania - che allora era un impero - e venne chiamata dagli europei ‘Africa Tedesca del Sud-Ovest’. 

Con il dominio tedesco arrivarono anche i coloni bianchi. I soldati e i coloni tedeschi sequestrarono le terre e il bestiame delle popolazioni locali, e compirono violenze razziali, stupri e omicidi contro di loro, prendendo anche uomini e donne come schiavi…

La tribù locale degli Herero aveva firmato a partire dal 1885 una serie di trattati con i tedeschi, per garantirsi protezione. Gli accordi furono sistematicamente violati dai colonizzatori tedeschi, finché nel gennaio del 1904 gli Herero si ribellarono e a loro si unì la più piccola tribù dei Nama, che viveva poco più a sud: in un attacco a sorpresa uccisero più di cento civili tedeschi.

La reazione tedesca fu durissima: il generale Lothar von Trotha, che già aveva soppresso le rivolte nell’Africa orientale e in Cina, fu nominato comandante supremo della colonia, nella quale furono inviati 14.000 soldati tedeschi.

Il governatore dell’Africa Tedesca del Sud-Ovest Theodor Leutwein pensò di risolvere la ribellione uccidendo i soldati Herero e Nama e negoziando una tregua, ma Trotha decise di usare la forza.

Nell’agosto del 1904 le sue truppe sconfissero gli Herero nella battaglia di Waterberg. I sopravvissuti, che si stima fossero tra i 3.000 e i 5.000, uomini, donne, anziani e bambini, furono deportati fino al deserto del Kalahari: i soldati tedeschi uccisero quelli che non riuscivano a proseguire la marcia, e costrinsero gli altri a spingersi nel deserto.

Una parte del gruppo riuscì a staccarsi e provò ad attraversare il deserto per raggiungere il protettorato britannico del Bechuanaland, l’attuale Botswana, per chiedere asilo politico. Solo un migliaio ci arrivò. Trotha fece avvelenare i pochi pozzi d’acqua dell’area, per impedire agli Herero di tornare indietro.

Dopo la battaglia di Waterberg e la deportazione, Trotha ordinò ai suoi uomini di sparare a tutti gli Herero, ‘con o senza fucile, con o senza bestiame’, e di non fare prigionieri neanche donne e bambini: i soldati dovevano riportarli nei loro villaggi, oppure ucciderli.

Poi Trotha cambiò gli ordini riguardo alle donne e ai bambini, che furono comunque in molti casi deportati in zone desertiche dove morirono di fame. Le stessi istruzioni furono date riguardo alla popolazione dei Nama.

Le violenze verso gli Herero e i Nama che erano sopravvissuti alla battaglia di Waterberg si intensificarono: molti furono resi schiavi e fatti lavorare in campi di concentramento, dove era comune morire di stenti o per le malattie.

Il più conosciuto di questi campi fu quello di Shark Island, dove morirono tra le mille e le tremila persone.

Moltissimi prigionieri vennero uccisi sommariamente durante la loro detenzione, molte donne vennero stuprate, e altri Herero e Nama furono usati come cavie per esperimenti di eugenetica.

Centinaia di teschi umani furono spediti in Germania per scopi scientifici. Molti storici credono che le pratiche messe in atto in Namibia contribuirono a creare le basi per il genocidio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale.

Le stime sul numero totale delle persone uccise nello sterminio variano molto: le più alte, riportate da alcuni storici, parlano di 100.000 morti, le più basse di 25.000.

Gli Herero e i Nama continuarono a essere trattati come schiavi anche dopo la chiusura dei campi di concentramento, finché la Namibia passò sotto il controllo britannico nel 1915, e poi del Sudafrica nel 1919…”.

giovedì 23 agosto 2018

Ministero della Salute: per i vaccini coperture ancora inadeguate



Il ministero della Salute ha recentemente emanato una circolare (del 14 agosto 2018 inviata tra l'altro alle Regioni) per ribadire l’importanza delle vaccinazioni e della loro promozione tra i cittadini ma anche tra gli operatori sanitari. Questo anche alla luce dei recenti dati sulle coperture vaccinali, che pur registrando un trend in aumento, restano per il ministero ancora inadeguate.

Dopo il rapporto dello scorso aprile sulle vaccinazioni obbligatorie, la circolare fa il punto anche su quelle raccomandate anti-pneumococcica e anti-meningococcica C. Nel primo caso l’aumento tra il 2016 e il 2017 è stato dall’88,4% al 90,9%, nel secondo caso dall’80,7% all’83,1%.


Male, invece, i dati in merito alla copertura vaccinale per anti-Hpv, contro il papilloma virus: “nelle ragazze dell’ultima coorte (2005), target primario dell’intervento vaccinale, è più bassa rispetto alle coorti precedenti in cui prosegue l’attività di recupero (64,3%, per la prima dose e 49,9% per il ciclo completo).

I dati sulla copertura vaccinale per anti-Hpv nei ragazzi indicano che non tutte le Regioni hanno avviato il programma di offerta attiva e che la copertura vaccinale anche nelle Regioni che lo hanno fatto è molto lontana dagli obiettivi previsti dal piano nazionale di prevenzione vaccinale”, si legge nella circolare.

“Alla luce delle coperture vaccinali in miglioramento ma ancora non adeguate per le vaccinazioni obbligatorie, delle basse coperture per le vaccinazioni raccomandate, della necessità di tutelare i soggetti più fragili che costituiscono una quota non trascurabile della popolazione pediatrica, e non solo, e di alcuni recenti casi gravi di malattia infettiva, anche ad esito letale, che hanno interessato soggetti non vaccinabili per età”, il ministero ha illustrato nella circolare una serie di raccomandazioni per la diffusione delle vaccinazioni, compresa “l’importanza di migliorare la copertura vaccinale tra gli operatori sanitari, per la protezione del singolo operatore e come garanzia nei confronti dei pazienti, ai quali l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali, soprattutto nei confronti di alcune malattie: morbillo, parotite, rosolia, influenza, pertosse, epatite B, varicella, polio, difterite”.

Ma il ministero della Salute non si è limitato a questo e pochi giorni prima aveva diffuso un’altra circolare (7 agosto 2018) per ribadire l’importanza delle vaccinazioni in previsione e durante la gravidanza con l'obiettivo di proteggere la donna e il nascituro da alcune malattie attraverso specifici vaccini.

In sintesi, per le donne in età fertile la circolare indica, se non già immuni, le vaccinazioni contro morbillo, parotite, rosolia, varicella e papilloma virus (Hpv).

“Di grande importanza è anche il richiamo decennale della vaccinazione contro difterite, tetano e pertosse”, ricorda il ministero.

Nel corso della gravidanza sono raccomandate le vaccinazioni contro difterite, tetano, pertosse (dTpa) e influenza (se la gestazione si verifica nel corso di una stagione influenzale), che devono essere ripetute ad ogni gravidanza. 


Di grande rilievo è la vaccinazione dTpa da effettuare ad ogni gravidanza, anche se la donna sia già stata vaccinata o sia in regola con i richiami decennali o abbia avuto la pertosse

“Infatti - spiega il ministero nella nota di sintesi -, la pertosse contratta dal neonato nei primi mesi di vita può essere molto grave o persino mortale e la fonte di infezione è frequentemente la madre”. Il periodo raccomandato per effettuare la vaccinazione è il terzo trimestre di gravidanza al fine di consentire alla gestante la produzione di anticorpi sufficienti e il conseguente passaggio transplacentare. Il vaccino dTpa si è dimostrato sicuro sia per la donna in gravidanza sia per il feto”.

mercoledì 22 agosto 2018

Hikikomori, una nuova forma di disagio giovanile anche in Italia



“Hikikomori” è un termine giapponese che significa “stare in disparte” e descrive quelle persone, principalmente giovani tra i 14 e i 30 anni, che decidono di ritirarsi dalla vita sociale e di rinchiudersi nella propria camera da letto, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno. In Giappone gli Hikikomori sarebbero più di un milione e mezzo e nel nostro Paese l’associazione Hikikomori Italia parla di almeno 100.000 casi.

Della diffusione di questa forma di disagio giovanile in Italia, soprattutto in provincia di Verona, si occupa Endrius Salvalaggio, in un articolo pubblicato su www.quotidianosanita.it.

Questo disagio esistenziale è poco conosciuto, perché nuovo, colpisce ragazzi-adulti tra i 14 ed i 30 anni, portandoli all’isolamento da tutto e tutti.

Pur essendo intelligenti, sensibili e molto spesso più maturi della loro età, i giovani interessati da questa forma di disagio non si sentono in grado di frequentare coetanei anzi si vergognano, ritirandosi a vita isolata e disinteressandosi a qualsiasi tipo di relazione.

A far luce su un fenomeno così poco conosciuto è la dottoressa Marisa Galbussera, dell’ordine degli Psicologi del Veneto e psicoanalista a Padova.

“Ne ho in cura più d’uno - spiega - e vi posso dire che è una piaga che sta colpendo i ragazzi giovani e che pochissimi ne parlano. Numeri precisi in Veneto ancora non ne abbiamo, ma da quest’anno ci sono dei percorsi specifici per chi soffre di questa patologia”.  

A giugno di quest’anno, solo nella provincia di Verona sono state oltre 20 le madri disperate che si sono rivolte a degli specialisti.

Anche se questo tipo di malattia è nuova, si può provare a tracciare con l’aiuto della dottoressa Galbussera un profilo di chi soffre.

“Sono per la maggioranza ragazzi maschi, adolescenti o giovani adulti, spesso figli unici, introversi, intelligenti e sensibili, critici e negativi nei confronti della società. I primi sintomi sono quelli di un isolamento graduale, che generalmente inizia con il rifiuto di frequentare la scuola, ma che via via si traduce in un allontanamento su tutti i fronti dalla società. Spesso, ma non sempre, usano massicciamente il web e, a volte, sono violenti con i genitori”.

Questi ragazzi non sono depressi, semmai la depressione arriva dopo un po’, e non vogliono nemmeno essere aiutati perché sono convinti di stare bene.

“Non è semplice aiutarli - aggiunge la dottoressa - perché spesso si rifiutano di rivolgersi allo specialista. Occorre così intervenire sul contesto familiare per modificarne il clima, prevedendo anche degli interventi a domicilio. In altri casi è il giovane stesso che accetta di recarsi dal curante, perché si rende conto della situazione di isolamento in cui versa e di come la sua vita e il suo percorso di crescita si siano arrestati”.

In Giappone gli Hikikomori sono più di un milione e mezzo e per il governo nipponico si tratta di un vero allarme sociale. L’auspicio è che questo grave disagio non si diffonda in maniera così massiccia anche da noi.

“Il percorso terapeutico - specifica la dottoressa Galbussera - consiste nel trattare la condizione come un ‘disturbo mentale’, con sedute di psicoterapia e assunzione di psicofarmaci, oppure come problema di socializzazione, stabilendo un contatto con i soggetti colpiti e cercando di migliorarne la capacità di interagire”.

Il fenomeno, presente in Giappone sin dalla seconda metà degli anni ottanta, ha incominciato a diffondersi negli anni duemila anche negli Stati Uniti ed in Europa.


lunedì 6 agosto 2018

Nei prossimi anni i pericoli causati dalle ondate di calore aumenteranno


Secondo Legambiente nei prossimi anni i pericoli per le persone legati alle ondate di calore aumenteranno. Servono pertanto nuove politiche e risorse per l’adattamento a un clima che cambia. Peraltro le ondate di calore possono avere effetti nocivi per la salute. E a Roma dal 2000 si sono verificati 7.700 decessi a causa  di questo fenomeno.

Caldo torrido e bollino rosso in molte città italiane. Il clima sta cambiando e aumentano i pericoli per chi vive nei grandi centri urbani. Lo si nota sempre di più anche in estate, con temperature record e frequenti e prolungate ondate di calore, e a farne le spese sono come sempre i cittadini e la loro salute.

Secondo Legambiente le ondate di calore possono avere effetti nocivi per la salute, soprattutto per gli anziani e gli ammalati, quando le temperature diurne superano i 35° C e quelle notturne non scendono sotto i 25°C.

Nelle aree urbane il caldo oltretutto aumenta per l’effetto di asfalto, auto e sistemi di condizionamento e può arrivare ad aumentare la temperatura anche di 4-5 gradi.

Se da una parte in questi anni sono cresciuti gli impatti e i morti per il caldo, ma anche per le alluvioni e i fenomeni metereologici estremi, dall’altra parte troppo poco si sta facendo sul fronte delle politiche sull’adattamento al clima.

E’ quanto torna a ribadire Legambiente che è tornata a sottolineare come i grandi centri urbani siano l’ambito più a rischio per le conseguenze dei cambiamenti climatici. Ed è per questo che è fondamentale portare avanti e definire politiche di adattamento al clima.

Legambiente ricorda che tra il 2005 e il 2016, in 23 città italiane, le ondate di calore hanno causato 23.880 morti. Nella sola città di Roma dal 2000 sono circa 7.700 le morti attribuibili alle ondate di calore.

“Se vogliamo ridurre i pericoli per le persone e prevenire anche le ondate di calore – ha dichiarato Edoardo Zanchini, Vicepresidente nazionale di Legambiente - servono nuove politiche per le città, risorse e un coordinamento nazionale per aiutare i Sindaci di fronte a fenomeni di una portata senza precedenti.

Come si sta facendo negli altri Paesi e nelle altre città europee, bisogna accelerare negli interventi che permettono di ridurre l’impatto del calore nei periodi estivi e delle alluvioni negli spazi urbani, oggi estremamente vulnerabili, e dove vive la maggioranza della popolazione.

Al Governo chiediamo di approvare quanto prima il piano di adattamento ai cambiamenti climatici e di mettere al centro gli interventi che riguardano le città, anche con un regolamento che finalmente fermi l’impermeabilizzazione dei suoli, che è una delle cause del calore nei periodi estivi, e che preveda interventi di recupero dell’acqua, salvaguardia degli spazi verdi, di utilizzo di alberature, acqua e pavimentazioni che riducono l’effetto del caldo nei quartieri e quindi sulle persone”.

In Iraq le sofferenze delle donne yazide continuano


Amnesty International continua ad occuparsi delle donne yazide. In un recente comunicato viene esaminata la loro attuale situazione. Le loro sofferenze purtroppo permangono.

In questo comunicato si può leggere:

“Il 10 dicembre 2017 l’Iraq dichiarò di aver sconfitto il gruppo armato denominatosi Stato islamico, che dal giugno 2014 aveva istituito nel paese il cosiddetto Califfato islamico.

In quello che oggi possiamo chiamare l’Iraq ‘post-Stato islamico’, migliaia e migliaia di civili portano ancora le ferite, fisiche e psicologiche, dei crimini commessi dal gruppo armato. E queste ferite sono destinate a segnare le generazioni a venire.

Lo Stato islamico seminò il terrore tra la popolazione civile irachena, accanendosi periodicamente contro le minoranze etniche e religiose, come i cristiani e gli yazidi nel nord del paese.

Quattro anni dopo, le donne e le ragazze yazide sono ancora in pieno trauma a causa dell’orribile violenza sessuale e della riduzione in schiavitù che subirono da parte dello Stato islamico. A peggiorare le cose c’è l’angoscia di non sapere che fine hanno fatto i loro cari, scomparsi durante l’offensiva del gruppo armato.

Il 3 agosto 2014 lo Stato islamico conquistò Sinjar, nella provincia nordorientale di Ninive, uccidendo centinaia di uomini e rapendo migliaia di donne, ragazze e ragazzi della minoranza yazida.

I ragazzi vennero separati dalle madri, indottrinati e addestrati a combattere per il gruppo armato mentre le donne e le ragazze, ma anche bambine di soli nove anni, furono rese schiave, ‘vendute’ come mogli ai combattenti dello Stato islamico e sottoposte a torture, stupri e altre forme di violenza sessuale.

Una donna yazida, ‘venduta’ in una sorta di ‘pacchetto’ che comprendeva anche i suoi piccoli figli, ha raccontato ad Amnesty International come l’uomo che li aveva ‘comprati’ si comportava: ‘Picchiava i miei figli e li chiudeva in una stanza. Loro stavano dentro e piangevano e altrettanto facevo io fuori dalla porta’.

Un’altra donna yazida, Jamila, ha denunciato di essere stata stuprata ripetutamente da almeno 10 uomini dopo essere stata ‘venduta’ e ‘rivenduta’ più volte. L’hanno rilasciata nel dicembre 2015 dopo che la sua famiglia aveva pagato un ingente riscatto.

Molte donne e ragazze hanno tentato il suicidio, durante la prigionia o dopo la loro fuga, o hanno visto le loro sorelle o figlie togliersi la vita dopo le tremende sofferenze patite nelle mani dei rapitori.

Ottenere il sostegno medico fisico e psicologico necessario è estremamente difficile per problemi di costi e di accesso. 

Dato che molte famiglie hanno pagato riscatti a volte di decine di migliaia di euro, tante donne che si sono indebitate ora non sono in grado di sostenere i costi dell’assistenza di cui hanno bisogno.

Per di più, la burocrazia irachena limita l’accesso a servizi del genere pretendendo documenti d’identità, che molte hanno perso durante l’attacco dello Stato islamico.

Infine, lo stigma associato all’esperienza subìta durante la prigionia, il timore di essere giudicate negativamente e il conseguente impatto sulla prospettiva di un matrimonio rappresentano ulteriori ostacoli per le sopravvissute, che dipendono fortemente dall’aiuto dei loro parenti.

Molte donne e ragazze yazide fuggite o rilasciate dai loro rapitori non sono state in grado di tornare a casa e vivono con le loro famiglie impoverite o in campi per sfollati interni. 

Un’organizzazione non governativa che lavora accanto alle minoranze irachene ha descritto ad Amnesty International le condizioni in cui vivono le donne sfollate da Sinjar quattro anni fa. Sebbene la città sia stata riconquistata due anni fa, la comunità yazida non riesce a rientrarvi a causa dell’assenza di servizi fondamentali.

Le reazioni di solidarietà della comunità internazionale si sono tradotte ben poco in azioni concrete.

Le organizzazioni non governative locali e internazionali sono ancora a corto di finanziamenti e non c’è un sistema coordinato di servizi da mettere a disposizione delle donne e delle ragazze yazide.

La comunità internazionale, compresi i donatori, deve fare ben altro per venire incontro ai bisogni delle donne yazide sopravvissute, attraverso sostegno e programmi specializzati da attuare in consultazione con le sopravvissute, con la comunità degli attivisti e col personale medico.

Nel settembre 2017 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 2379, che ha istituito un team investigativo per aiutare il governo iracheno a raccogliere, conservare e analizzare le prove dei gravi crimini commessi dallo Stato islamico. Ciò nonostante, secondo un’organizzazione non governativa locale, il governo iracheno e quello curdo non hanno ancora autorizzato il team istituito dalle Nazioni Unite a entrare e iniziare il suo lavoro.

Inoltre, il sistema giudiziario iracheno resta profondamente inadeguato, ricorre spesso alla pena di morte al termine di processi iniqui e dunque costituisce un ostacolo, più che una risorsa, per fornire giustizia alle vittime dello Stato islamico.

L’organizzazione non governativa sopra citata ha anche fatto presente che dal 2014 sono state scoperte a Sinjar 68 fosse comuni e che le autorità irachene non le stanno proteggendo, come invece è previsto da un’apposita legge nazionale in quanto misura necessaria per rintracciare e identificare le persone scomparse. In questo modo, famiglie già colpite dalla perdita dei parenti, in particolare le donne yazide, non ottengono giustizia né possono chiudere il circolo del lutto.

Quattro anni dopo, è davvero giunto il momento che la comunità internazionale prenda misure efficaci per aiutare queste donne ad avviare il lungo percorso di ricostruzione delle loro vite”.

Come contrastare le aggressioni al personale sanitario


Nelle ultime settimane le aggressioni al personale sanitario si sono intensificate. Varie le proposte avanzate per affrontare tale problema. E’ intervenuta anche il ministro della Salute, Giulia Grillo, che ha dichiarato che nel prossimo Consiglio dei ministri sarà presentato un disegno di legge antiviolenze.

Quali sono le intenzioni del ministro?

Giulia Grillo si è così espressa: “Ho chiesto di presentare al prossimo Consiglio dei ministri un disegno di legge a tutela dei dipendenti del servizio sanitario nazionale che lavorano sul fronte dell'assistenza ai cittadini”.

“Le ripetute e gravissime aggressioni nei pronto soccorso e negli ospedali - ha affermato il ministro - ai danni del personale sanitario, non possono avere alcuna spiegazione e tanto meno alcuna giustificazione. I fatti anche di queste ore confermano l'assoluta necessità di un intervento legislativo, come già avevo annunciato”.

“Il provvedimento - ha precisato Grillo - prevede l'inasprimento delle sanzioni penali nei casi di aggressioni al personale e a presidi di forze dell'ordine per la sicurezza delle strutture.  Tra le altre misure propongo anche l'istituzione di un osservatorio anti-violenze e una campagna di comunicazione e di informazione per i cittadini sul ruolo degli operatori sanitari”.

Vi sono state altre prese di posizione sul problema.

“Piena collaborazione all'iniziativa legislativa annunciata dal ministro della Salute Giulia Grillo”. Così Tiziana Frittelli, presidente di Federsanità Anci ha commentato l’arrivo del disegno di legge anti violenze nel prossimo Consiglio dei ministri

“Concordo a 360 gradi – ha affermato Frittelli - con quanto rilevato dal ministro circa la preoccupante escalation di episodi a danno degli operatori sanitari che evidenziano l'assoluta necessità di un intervento legislativo che possa porre un freno e le basi per una maggiore tutela di chi, ogni giorno, presta servizio nelle strutture sanitarie a favore del bene dei cittadini”.

Nelle prossime settimane Federsanità Anci “concluderà un'indagine somministrata a tutte le aziende sanitarie e ospedaliere associate, promossa in accordo con Fnmoceo, con l'obiettivo di monitorare, a dieci anni dall’emanazione, l’attuazione della raccomandazione del ministero della Salute n° 8 del novembre 2007,  sulla prevenzione degli atti di violenza a danno degli operatori sanitari”.

Anche  i manager di Asl e ospedali hanno affrontato il problema delle aggressioni a medici e infermieri con una serie di proposte che hanno presentato nei giorni scorsi al ministro della Salute. 

Pene più severe e fermo giudiziario e ripensamento del servizio di guardia medica. Sono alcune delle proposte presentate dalla Fiaso, la loro associazione.

“Mettere le forze dell’ordine nella condizione di svolgere una energica azione deterrente - ha sottolineato la Fiaso - , prevedendo un’aggravante specifica per i reati commessi nei confronti dei professionisti sanitari nell’esercizio di atti d’ufficio, che consenta in tal modo il fermo di polizia giudiziaria per gli autori dei reati. Con procedimento d’ufficio e inasprimento delle pene anche quando la parte offesa è un’azienda sanitaria”. 

Secondo la Fiaso è necessario intervenire anche con strumenti di programmazione sanitaria al fine di ripensare il ruolo degli ambulatori di continuità assistenziale (le ex guardie mediche), bersaglio di numerose aggressioni, ma anche ormai poco sostenibili e forse non particolarmente utili, di dimensionare adeguatamente gli organici delle strutture sanitarie a rischio più elevato di aggressioni, di assicurare l’effettiva presa in carico dei pazienti cronici e di quelli fragili per limitarne l’accesso improprio ai servizi di emergenza-urgenza.

Però, secondo Calogero Coniglio,  segretario regionale per la Sicilia della Fsi-Usae, federazione sindacati indipendenti costituente della confederazione Unione sindacati autonomi europei, la proposta del ministro è buona ma non risolutiva.

Infatti secondo Coniglio “I pronto soccorso siciliani sono al collasso. In molti ospedali, soprattutto quelli delle città metropolitane di Palermo, Catania e Messina, non si riesce a dare una risposta in tempi accettabili ai pazienti, servono più infermieri e medici, le lunghe ore di attesa montano la rabbia tra pazienti e cittadini esasperati, e tra operatori sanitari per i ritmi di lavoro estenuanti. I pazienti aspettano anche 10-11 ore per essere visitati e quelli in attesa di un posto letto nei reparti restano in barella, o su una sedia, in corridoio anche tre giorni senza rispetto della privacy”.


E molto probabilmente la situazione dei pronto soccorso siciliani si verifica anche in altre regioni, soprattutto nelle grandi città.

Vacanze negate, un bambino su due non andrà in vacanza


Più della metà dei bambini e degli adolescenti, in Italia, non potrà fare una vacanza di almeno quattro giorni lontano da casa e oltre 3 ragazzi su 5 tra i 15 e i 17 anni di età, quasi il doppio rispetto al 2015, non potranno permettersi, per motivi economici, periodi ricreativi e di svago neanche più brevi.

Questa la denuncia di Save the Children  che attesta, nel nostro Paese, un incremento negli ultimi anni delle disparità economiche che impediscono ai minori di usufruire di opportunità ludiche, ricreative e formative durante l’estate, quando in molti casi sono costretti a rimanere in città.

Nel 2017, infatti, oltre 5,7 milioni di bambini e ragazzi - più del 56% del totale - non hanno potuto trascorrere una vacanza di almeno quattro giorni, un dato percentuale costantemente cresciuto rispetto ai due anni precedenti e che ha subìto un’impennata fortissima rispetto al 2008, quando i minori in questa condizione non superavano il 40%.

In particolare, motivi di carattere economico hanno rappresentato la causa principale che ha impedito a più del 61% dei ragazzi tra i 15 e i 17 anni, nel 2017, di andare in vacanza anche per periodi più brevi, un dato quasi raddoppiato rispetto al 2015 (35%) allorché i ragazzi della stessa età che non potevano permettersi di andare in vacanza a causa della condizione economica delle proprie famiglie erano poco più di 1 su 3.

“Un così alto numero di bambini e adolescenti che anche quest’anno non potranno trascorrere le vacanze estive per un breve periodo lontano da casa dimostra, ancora una volta, la forte correlazione che c’è tra le deprivazioni di carattere economico - che oggi in Italia riguardano più di 1,2 milioni di minori in povertà assoluta - e la perdita, per i ragazzi, di opportunità educative necessarie per il loro futuro.

Il tempo estivo dei bambini e dei ragazzi è un tempo fondamentale per la loro crescita e deve essere un tempo ricco di scoperte e di esperienze. E’ dunque quanto mai importante che le città si attrezzino per offrire ai ragazzi luoghi e spazi adeguati dove svolgere gratuitamente attività ricreative, sportive e culturali che altrimenti resterebbero loro precluse.

E’ importante anche fare in modo che le scuole, a partire da quelle delle aree più deprivate, mettano a disposizione spazi per l’incontro e per attività culturali e ricreative soprattutto nei quartieri più svantaggiati”, ha affermato Antonella Inverno, responsabile policy e area legale di Save the Children.

E’ più che probabile quindi che quanto verificatosi nel 2017 si ripeta anche nel 2018. E’ possibile anzi che il numero dei bambini e degli adolescenti che non potranno permettersi di andare in vacanza aumenti ancora. Del resto il numero dei poveri tende ad aumentare.

E i dati forniti da Save the Children confermano ancora una volta che la diffusione della povertà colpisce particolarmente i minori.

Un motivo in più per rendere necessaria una politica più incisiva per contrastare la povertà, in Italia.

L’introduzione del Rei (reddito di inclusione) è stata positiva, ma le risorse finanziarie disponibili a questo fine devono essere considerevolmente aumentate.


Questa, mi sembra, la strada migliore da percorrere - il rafforzamento del Rei - piuttosto che l’introduzione di nuove misure, quali il reddito di cittadinanza, non solo molto costose ma anche ampiamente, e giustamente, criticate.

giovedì 2 agosto 2018

Svimez, nel Sud aumento della povertà e crescita incerta


E’ stato presentato il rapporto 2018 della Svimez (associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno). La crescita dell’economia meridionale nel triennio 2015-2017 ha solo parzialmente recuperato il patrimonio economico e anche sociale disperso dalla crisi nel Sud. Si è ampliato il disagio sociale, tra famiglie in povertà assoluta e lavoratori poveri. Soprattutto nel 2019  si rischia un forte rallentamento dell’economia meridionale.

In una comunicato emesso dalla Svimez sono evidenziati i principali contenuti del rapporto 2018.

Nel 2017 il Pil è aumentato nel Sud dell’1,4%, rispetto allo 0,8% del 2016. Ciò grazie al forte recupero del settore manifatturiero (5,8%), in particolare nelle attività legate ai consumi, e, in misura minore, delle costruzioni (1,7%). La crescita è stata solo marginalmente superiore nel Centro-Nord (+1,5%).

Gli investimenti privati nel Mezzogiorno sono cresciuti del 3,9%, consolidando la ripresa dell’anno precedente: l’incremento è stato lievemente superiore a quello del Centro-Nord (+3,7%).

Preoccupante, invece, la contrazione della spesa pubblica corrente nel periodo 2008-2017, -7,1% nel Mezzogiorno, mentre è cresciuta dello 0,5% nel resto del Paese.

Il triennio di ripresa 2015-2017 ha confermato che la recessione è ormai alle spalle per tutte le regioni italiane, e tuttavia gli andamenti sono alquanto differenziati.

Il grado di disomogeneità, sul piano regionale e settoriale, è estremamente elevato nel Mezzogiorno.

Nel 2017, Calabria, Sardegna e Campania sono le regioni meridionali che hanno fatto registrare il più alto tasso di sviluppo, rispettivamente +2%, +1,9% e +1,8%.

Si tratta di variazioni del Pil comunque più contenute rispetto alle regioni del Centro-Nord, se confrontate al +2,6% della Valle d’Aosta, al +2,5% del Trentino Alto Adige, al +2,2% della Lombardia.

In base alle previsioni elaborate dalla Svimez, nel 2018, il Pil del Centro-Nord dovrebbe crescere dell’1,4%, in misura maggiore di quello delle regioni del Sud, +1%.

Ma è soprattutto nel 2019 che si rischia un forte rallentamento dell’economia meridionale: la crescita del prodotto sarà pari a +1,2% nel Centro-Nord e +0,7% al Sud.

In due anni, un sostanziale dimezzamento del tasso di sviluppo.

La crescita del Mezzogiorno, al di là della rilevanza dei fattori locali, che pure hanno una loro rilevanza, è fortemente influenzata dall’andamento dell’economia nazionale, e viceversa.

La crescita del Centro-Nord, al di là della sua maggiore integrazione nei mercati internazionali, è altrettanto dipendente, per diverse ragioni, dagli andamenti del Mezzogiorno.

Lo dimostra il fatto che nel periodo 2000-2016 le due macro-aree hanno condiviso la stessa dinamica stagnante del Pil pro capite: +1,1% in media annua.

Il ritmo di crescita è risultato del tutto insufficiente ad affrontare le emergenze sociali nell'area.

Anche con la ripresa si sono allargate le disuguaglianze: è aumentata l’occupazione, ma vi è stata una ridefinizione al ribasso della sua struttura e della sua qualità: i giovani sono stati tagliati fuori, sono aumentate le occupazioni a bassa qualifica e a bassa retribuzione. Pertanto la crescita dei salari è stata “frenata” e non in grado di incidere su livelli di povertà crescenti, anche nelle famiglie in cui la persona di riferimento risulta occupata.

Il divario nei servizi pubblici, la cittadinanza “limitata” connessa alla mancata garanzia di livelli essenziali di prestazioni, ha inciso sulla tenuta sociale dell’area e ha rappresentato il primo vincolo all’espansione del tessuto produttivo.

E’ proseguita nel 2017, sia pur con un rallentamento a fine anno, la crescita dell’occupazione: nel Mezzogiorno è aumentata di 71.000 unità (+1,2%) e di 194.000 nel Centro-Nord (+1,2%).

Ma nel Sud è stata ancora insufficiente a colmare il crollo dei posti lavoro avvenuto nella crisi: nella media del 2017 l’occupazione nel Mezzogiorno è stata di 310.000 unità inferiore al 2008, mentre nel complesso delle regioni del Centro-Nord è stata superiore di 242.000 unità.

In questi anni si è profondamente ridefinita la struttura occupazionale, a sfavore dei giovani, testimoniata dall’invecchiamento della forza lavoro occupata.

Il dato più eclatante è il drammatico dualismo generazionale: il saldo negativo di 310.000 occupati tra il 2008 e il 2017 nel Sud è la sintesi di una riduzione di oltre mezzo milione di giovani tra i 15 e i 34 anni (-578.000), di una contrazione di 212.000 occupati nella fascia adulta 35-54 anni e di una crescita concentrata quasi esclusivamente tra gli ultra 55enni (+470.000 unità).

Nel Mezzogiorno si è delineata una netta cesura tra dinamica economica che, seppur in rallentamento, ha ripreso a muoversi dopo la crisi, e una dinamica sociale che ha escluso una quota crescente di cittadini dal mercato del lavoro, ampliando le sacche di povertà e di disagio a nuove fasce della popolazione.

Il numero di famiglie meridionali con tutti i componenti in cerca di occupazione è raddoppiato tra il 2010 e il 2018, da 362.000 a 600.000 (nel Centro-Nord sono state 470.000). Il numero di famiglie senza alcun occupato è cresciuto anche nel 2016 e nel 2017, in media del 2% all’anno, nonostante la crescita dell’occupazione complessiva, a conferma del consolidarsi di aree di esclusione all’interno del Mezzogiorno, concentrate prevalentemente nelle grandi periferie urbane.

Si tratta di sacche di crescente emarginazione e degrado sociale, che scontano anche la debolezza dei servizi pubblici nelle aree periferiche.

Preoccupante la crescita del fenomeno dei working poors: la crescita del lavoro a bassa retribuzione, dovuto alla complessiva dequalificazione delle occupazioni e all’esplosione del part time involontario, una delle cause, in particolare nel Mezzogiorno, per cui la crescita occupazionale nella ripresa non è stata in grado di incidere su un quadro di emergenza sociale sempre più allarmante.

Ancora oggi al cittadino del Sud, nonostante una pressione fiscale pari se non superiore per effetto delle addizionali locali, mancano (o sono carenti) diritti fondamentali: in termini di vivibilità dell’ambiente locale, di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura per la persona adulta e per l’infanzia.

In particolare, nel comparto socio-assistenziale il ritardo delle regioni meridionali riguarda sia i servizi per l’infanzia che quelli per gli anziani e per i non autosufficienti.

Più in generale, l’intero comparto sanitario presenta differenziali in termini di prestazioni che sono al di sotto dello standard minimo nazionale come dimostra la griglia dei livelli essenziali di assistenza nelle regioni sottoposte a piano di rientro: Molise, Puglia, Sicilia, Calabria e Campania, sia pur con un recupero negli ultimi anni, risultano ancora inadempienti su alcuni obiettivi fissati.

I dati sulla mobilità ospedaliera interregionale testimoniano le carenze del sistema sanitario meridionale, soprattutto in alcuni specifici campi di specializzazione, e la lunghezza dei tempi di attesa per i ricoveri. Le regioni che mostrano i maggiori flussi di emigrazione sono Calabria, Campania e Sicilia, mentre attraggono malati soprattutto la Lombardia e l’Emilia Romagna.

I lunghi tempi di attesa per le prestazioni specialistiche e ambulatoriali sono anche alla base della crescita della spesa sostenuta dalle famiglie con il conseguente impatto sui redditi.

Strettamente collegato è il fenomeno della “povertà sanitaria”, secondo il quale sempre più frequentemente l’insorgere di patologie gravi costituisce una delle cause più importanti di impoverimento delle famiglie italiane, soprattutto nel Sud: nelle regioni meridionali sono il 3,8% in Campania, il 2,8% in Calabria, il 2,7% in Sicilia; all’estremo opposto troviamo la Lombardia con lo 0,2% e lo 0,3% della Toscana.

I divari si confermano anche per quel che riguarda l’efficienza degli uffici pubblici in termini di tempi di attesa all’anagrafe, alle Asl e agli uffici postali.


La Svimez ha costruito un indice sintetico della performance nelle pubbliche amministrazioni nelle regioni sulla base della qualità dei servizi pubblici forniti al cittadino nella vita quotidiana: fatto 100 il valore della regione più efficiente (Trentino-Alto Adige) emerge che quelle meridionali, ad eccezione della Campania che si attesta a 61, della Sardegna a 60 e dell’Abruzzo a 53, sono al di sotto della metà Calabria 39, Sicilia 40, Basilicata 42, Puglia 43.

mercoledì 1 agosto 2018

I quotidiani di carta non sono più letti?


Secondo i dati forniti dalla società Ads, i 65 quotidiani censiti hanno subìto, dal 2012 al 2017, una riduzione del numero delle copie vendute del 36%, passando da un 1 miliardo e 400 milioni a 900 milioni di copie annuali. In 5 anni sono andate perse, complessivamente, oltre un terzo di copie vendute.

La riduzione delle vendite è iniziata diverso tempo prima rispetto al 2012.

Negli ultimi anni la causa principale di tale riduzione è rappresentata dalla diffusione della lettura delle versioni on line dei quotidiani e dalla comparsa di numerosi giornali presenti solo sul web.

A me sembra (ogni giorno da anni acquisto e leggo due giornali) che la riduzione delle vendite dei quotidiani cartacei sia stata ancora più consistente.

L’esperienza personale mi induce a questa conclusione.

Infatti mi trovo spesso solo nel leggere quotidiani. Ad esempio sul treno, che io spesso utilizzo. Una volta vedevo molte altre persone che come me leggevano quotidiani. Adesso mi vergogno quasi, sono una mosca bianca. Sempre più spesso in un vagone sono l’unico a leggere un quotidiano.

Stessa situazione se vado in un parco all’aperto a leggere i miei due soliti quotidiani. Sempre solo io.

Forse gli altri che leggono ancora i quotidiani, vergognandosi di farlo pubblicamente, li leggono, di nascosto, anche rispetto agli altri componenti delle proprie famiglie, nelle proprie case, nelle proprie stanze o addirittura in bagno?

Tutto ciò mi appare sorprendente perché io non riesco a fare a meno della lettura dei quotidiani cartacei.

Infatti una cosa è la lettura dei quotidiani cartacei, tutt’altra cosa è la lettura dei giornali on line, a cui anche io mi dedico.

Nel primo caso riesco a concentrarmi molto meglio e ad acquisire un maggior numero di informazioni.

Nel secondo caso la lettura è decisamente più veloce e molto spesso si leggono solo i titoli e le poche righe che compaiono nelle home.

Queste mie difficoltà solo perché non sono più giovane? Per la verità ho superato da poco i 60 anni e non mi sembra di essere diventato un vecchio decrepito.

Comunque provo una certa tristezza quando mi trovo a leggere, in completa solitudine, i quotidiani di carta.

Però non credo proprio che abbandonerò questa mia consolidata abitudine e continuerò a leggere, ogni giorno, i miei due quotidiani, a meno che non cessi la loro pubblicazione.


E io spero vivamente che ciò non accada.