lunedì 11 dicembre 2023

Il divario tra Sud e Nord aumenterà

Nel 2023 il Pil del Mezzogiorno dovrebbe crescere dello 0,4%, mentre il Centro-Nord dovrebbe registrare una crescita doppia (+0,8%). E’ quanto emerge dal rapporto Svimez (associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) per il 2023, nel quale si ricorda che  è prevista una crescita a livello nazionale pari allo 0,7%.

Quindi nel 2023, per quanto riguarda il Pil, dovrebbe aumentare il divario tra il Sud e il Centro-Nord.

Nel 2024, invece, la crescita del Pil nel Sud, per effetto degli investimenti del Pnrr, dovrebbe essere uguale a quella che si verificherà nel Centro-Nord.

Ma nel 2025 il divario dovrebbe di nuovo manifestarsi. Infatti si stima che la crescita nel Sud dovrebbe essere pari allo 0,9%, mentre nel Centro-Nord all’1,3%.

E il crescente divario tra il Sud e il Centro-Nord non riguarda solo l’andamento del Pil.

Nel 2022 l’aumento dell’inflazione ha eroso soprattutto il potere d’acquisto delle famiglie a più basso reddito e, poiché esse sono più concentrate nel Mezzogiorno, l'inflazione ha eroso 2,9 punti del reddito disponibile delle famiglie meridionali, oltre il doppio del dato relativo al Centro-Nord (-1,2 punti).

Inoltre il Sud ha continuato a perdere popolazione.

Dal 2002 al 2021 hanno lasciato il Mezzogiorno oltre 2,5 milioni di persone, in prevalenza verso il Centro-Nord (81%).

Le migrazioni verso il Centro-Nord hanno interessato soprattutto i più giovani: tra il 2002 e il 2021 il Mezzogiorno ha subìto un deflusso netto di 808.000 under 35, di cui 263.000 laureati.

L'incremento dell'occupazione, maggiore nel Sud che nel resto del Paese, non è stato sufficiente ad alleviare il disagio sociale in un contesto di diffusa precarietà e bassi salari.

Infatti il rapporto Svimez 2023 indica in “salari, lavoro povero ed emigrazioni giovanili le questioni più urgenti”.

Nel Mezzogiorno, la povertà assoluta tra le famiglie con persona di riferimento occupata è salita di 1,7 punti percentuali tra il 2020 e il 2022, dal 7,6 fino al 9,3%: quasi una su 10. In generale nel 2022, erano 2,5 milioni le persone che vivevano in famiglie in povertà assoluta al Sud: 250.000 in più rispetto al 2020 (-170.000 al Centro-Nord). 

Il Sud, poi, è contraddistinto da gravi ritardi nell'offerta di servizi per la prima infanzia, evidenziati dai dati sui posti nido autorizzati per 100 bambini tra 0-2 anni nel 2020: Campania (6,5), Sicilia (8,2), Calabria (9) e Molise (9,3).

L'Italia, come è noto, presenta una delle percentuali più basse di popolazione laureata in Europa, con il 29% dei giovani tra 25 e 34 anni che hanno conseguito un titolo di istruzione terziario nel 2022, 16 punti percentuali al di sotto della media europea. Nel Mezzogiorno, questa percentuale si riduce al 22%. 

I dati fin qui riportati dimostrano con evidenza la necessità di realizzare interventi volti a ridurre considerevolmente il divario tra il Sud e il Centro-Nord e non saranno certo sufficienti quelli previsti dal Pnrr.

lunedì 4 dicembre 2023

La metà degli italiani non dichiara redditi

 

Il 47% degli italiani (compresi i bambini) non versa le imposte sui redditi delle persone fisiche. I contribuenti con redditi superiori a 35.000 euro sono il 13,9% del totale e versano il 62,5% di queste imposte. E’ quanto emerge da uno studio di “Itinerari previdenziali”, che si basa sulle dichiarazioni effettuate nel 2022, relative ai redditi prodotti nel 2021.

Il totale dei redditi prodotti nel 2021 e dichiarati nel 2022 ai fini Irpef è ammontato a 894,162 miliardi, per un gettito generato di 175,17 miliardi (157 per l’Irpef ordinaria, 12,83 per l’addizionale regionale e 5,35 per l’addizionale comunale), in crescita rispetto ai 164,36 miliardi dell’anno precedente.

Sono aumentati i dichiaranti (41.497.318) e i contribuenti/versanti, vale a dire coloro che versano almeno 1 euro di Irpef, che sono saliti a quota 31.365.535, valore più alto registrato dal 2008.

Oltre il 40% dei dichiaranti ha dichiarato di percepire un reddito sulle persone fisiche inferiore a 15.000 euro.

I contribuenti che hanno dichiarano redditi da 0 fino a 7.500 euro lordi erano 8.832.792, quelli che hanno dichiarato redditi tra i 7.500 e i 15.000 euro lordi erano 7.819.493.

Nel complesso, i contribuenti delle prime due fasce di reddito, compresi i negativi, erano il 42,6% del totale e pagavano solo l’1,7% dell’Irpef complessiva.

Anche nel 2022 è rimasto forte il divario tra le regioni italiane per quanto riguarda il versamento dell’Irpef (sempre prodotta nel 2021 e dichiarata nel 2022).

Il Nord infatti ha contribuito per 100,6 miliardi, pari al 57,4% del totale, il Centro per 38,2 miliardi pari al 21,8% del totale, mentre il Sud per  36,3 miliardi, pari al 20,7% del gettito complessivo.

Una situazione di disequilibrio, che ha trovato conferma anche analizzando le singole regioni: con poco meno di 10 milioni di abitanti, la Lombardia ha versato 40,3 miliardi di Irpef, cioè un importo maggiore dell’intero Mezzogiorno, con circa il doppio della popolazione, e persino superiore a quello dell’intero Centro (11,8 milioni di abitanti).

“Non è accettabile - ha commentato Stefano Cuzzilla, presidente della Cida, confederazione dei dirigenti di azienda - che poco più del 13% della popolazione si faccia carico della quasi metà degli italiani che non dichiara redditi e trova benefici in un groviglio di agevolazioni e sostegni, spesso concessi senza verificarne l’effettivo bisogno.

Un 13% che guadagna da 35.000 euro lordi in su, e che per questo non può beneficiare del taglio al cuneo fiscale perché è considerato troppo ricco e non può difendersi dall’inflazione nemmeno quando arriva alla pensione, sempre perché è considerato troppo ricco”.

domenica 19 novembre 2023

La cultura non ancora fuori dalla crisi

E’ stato recentemente presentato il rapporto annuale di Federculture “Impresa Cultura 2023” che fornisce un quadro completo e aggiornato dello stato del settore culturale, analizzando i principali dati su consumi, occupazione, finanziamenti pubblici e privati, turismo.

Dopo gli anni 2020 e 2021, nei quali si è verificata una notevole crisi del settore, nel 2022 sono aumentati i valori di tutti i principali indicatori, rispetto al 2021.

E’ cresciuta la spesa delle famiglie (+15,9% quella in ricreazione, sport e cultura), è aumentata l’occupazione culturale, +5,7%, vi è stata una forte ripresa del turismo, in particolare quello culturale con le grandi città d’arte nelle quali si è manifestato un aumento del 104% delle presenze turistiche.

Ma non si può sostenere che la crisi sia stata superata completamente.

Infatti i dati registratisi nel 2022 sono ancora lontani da quelli  relativi al 2019, l’anno precedente alla pandemia.

Ad esempio l’occupazione culturale non è ancora tornata ai livelli del 2019, -1,4% nel 2022 rispetto appunto al 2019.

I dati del turismo culturale poi sono stati ancora inferiori di circa il 15% rispetto ai livelli pre-Covid.

Inoltre, sempre rispetto al 2019, è risultata quasi dimezzata la quota di persone che si è recata a teatro, al cinema e a concerti.

L’analisi dello stato del settore induce complessivamente, quindi, ad un cauto ottimismo, ma è anche l’occasione per riaffermare la necessità di interventi che consolidino la crescita della settore culturale in tutti i suoi ambiti, sia dal lato della produzione sia in quello della domanda, sostenendo le imprese quanto i cittadini, per rilanciare tutto il sistema.

Del resto il presidente di Federculture, Andrea Cancellato ha così commentato i dati del rapporto: “La cultura è davvero una grande risorsa per l’Italia. Lo dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, l’estate appena trascorsa che ha visto la cultura ‘salvare’ la stagione turistica.

Ma è anche evidente che i nodi da affrontare sono molteplici e solo un grande impegno e una grande volontà politica possono consentire di impostare possibili soluzioni.

Occorrono, pertanto, un ministero efficiente, una produzione normativa chiara negli obiettivi e nella gestione, risorse ulteriori non esclusivamente pubbliche, istituzioni e imprese culturali attrezzate ad una temperie tutt’altro che semplice.

Il mondo della cultura, che noi rappresentiamo, è parte attiva, pronto a dare come sempre il suo contributo di analisi e proposta che anche oggi abbiamo ricordato al governo e al parlamento.

Cito solo alcuni titoli: approvazione della legge sulle imprese culturali e creative, defiscalizzazione dei consumi culturali, rifinanziamento del fondo cultura, maggiore possibilità di utilizzo di art bonus per i privati.

Le possibilità di intervento sono molte, spesso a ‘costo zero’ per le finanze pubbliche, il settore attende da tempo su questo risposte concrete”.

E le considerazioni di Cancellato mi sembrano ampiamente condivisibili, se davvero si vuole considerare il settore culturale anche come una componente molto importante del sistema economico italiano.

domenica 12 novembre 2023

I giovani vanno all'estero

Molti giovani italiani emigrano all’estero per motivi di lavoro. Questi e altri dati, relativi al 2022, sono contenuti nel rapporto  italiani nel mondo della fondazione Migrantes, recentemente presentato.

Infatti il 44% degli 82.000 italiani che sono emigrati nel 2022 con la sola motivazione espatrio aveva tra i 18 e i 34 anni.

Inoltre un quinto (più di 1,2 milioni) dei residenti iscritti all’Anagrafe italiana per i residenti all’estero aveva, sempre nel 2022, tra i 18 e i 34 anni. 

Complessivamente al 31 dicembre 2022 i connazionali iscritti all’Aire erano 5.933.418, il 10,1% dei 58,8 milioni di italiani residenti in Italia.

Quindi, mentre l’Italia continua inesorabilmente a perdere residenti (in un anno -132.405), l’Italia fuori dell’Italia continua a crescere anche se in maniera meno sostenuta rispetto agli anni precedenti.

I residenti all’estero dal 2006 sono aumentati del 91%.

Le italiane all’estero sono praticamente raddoppiate (+99,3%), i minori sono aumentati del 78,3% e gli over 65 anni del 109,8%. I nati all’estero sono cresciuti, dal 2006, del 175%, le acquisizioni di cittadinanza del 144%, le partenze per espatrio del 44,9%.

E le donne rappresentavano il 48,2% dei 6 milioni di italiani all’estero

Come già rilevato, l’Italia all’estero ringiovanisce costantemente.

Il 23,2% (oltre 1,3 milioni) dei residenti iscritti all’Anagrafe italiana per i residenti all’estero aveva tra i 35 e i 49 anni, un quinto (più di 1,2 milioni) tra i 18 e i 34 anni. Il 40,4% è nato all’estero da italiani. In prevalenza il livello di istruzione è medio-alto (circa il 58% possedeva almeno il diploma).

I punti fermi della comunità italiana all’estero sono l’origine in prevalenza meridionale (il 46,5%), il 37,8% settentrionale e il 15,8% del Centro.

La Sicilia è sempre la regione d’origine della comunità più numerosa (oltre 815.000). Seguono - restando al di sopra delle 500.000 unità - Lombardia, Campania, Veneto e Lazio.

Le comunità italiane più numerose si trovano in Argentina (oltre 921.000 iscritti, il 15,5% del totale), Germania (oltre 822.000, il 13,9%), Svizzera (oltre 639.000, il 10,8%). Seguono Brasile, Francia, Regno Unito e Stati Uniti d’America.

Secondo Gian Carlo Perego, presidente della fondazione Migrantes, i giovani che emigrano sono “giovani che non lavorano e non studiano, lavoratori precari, disoccupati, giovani donne e 1 su 4 laureati e ricercatori. L’emigrazione ci fotografa il disagio giovanile, una nuova generazione di poveri”.

Mi sembra poi condivisibile il commento, relativo ai dati contenuti nel rapporto della fondazione Migrantes, del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, il quale ha affermato che “bisogna fare un grande investimento sull’istruzione, sullo studio, combattendo la precarietà, dando condizioni di sicurezza, la casa ad esempio. La lotta alla precarietà è una delle condizioni migliori per dare sicurezza sul futuro e per la bellezza di restare nel proprio Paese”.

In conclusione, è del tutto evidente che il notevole numero dei giovani che emigrano dimostra ulteriormente che in Italia si continua a non adottare politiche che favoriscano  un aumento consistente dell’occupazione giovanile, come sarebbe invece necessario. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 7 novembre 2023

Povertà assoluta in aumento

Secondo l’Istat nel 2022 erano poco più di 2,18 milioni le famiglie in povertà assoluta, per un totale di oltre 5,6 milioni di individui. Il fenomeno ha mostrato una maggiore diffusione rispetto al 2021. L’incidenza a livello familiare è risultata, infatti, pari all’8,3% e quella individuale è arrivata al 9,7% mentre nel 2021 i corrispondenti valori si attestavano, rispettivamente, al 7,7% e al 9,1%.

Sempre secondo l’Istat “l’aumento osservato è imputabile alla forte accelerazione dell'inflazione registrata nel 2022 (+8,7% la variazione dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo - Ipca, il cui impatto è risultato particolarmente elevato per le famiglie meno abbienti (+12,1% la variazione su base annua dei prezzi stimata per il primo quinto di famiglie).

In effetti, le spese per consumo di questa fascia di popolazione, che include anche le famiglie in povertà assoluta, pur in forte crescita in termini correnti, non hanno tenuto il passo dell’inflazione, determinando un calo in termini reali della loro spesa equivalente del -2,5%”.

L’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si è confermata più alta nel Mezzogiorno (10,7%, da 10,1% del 2021), con un picco nel Sud (11,2%), seguita dal Nord-Est (7,9%) e Nord-Ovest (7,2%). Il Centro ha confermato i valori più bassi dell’incidenza (6,4%).

Rispetto alla tipologia del comune di residenza, l’incidenza di povertà è stata più elevata per i comuni più piccoli, fino a 50.000 abitanti (diversi dai comuni periferia area metropolitana), con un incremento dei valori rispetto al 2021 a livello nazionale (8,8% dal 7,9% del 2021), in particolare nel Nord (8,1% dal 6,9% del 2021).

Al Sud si è registrato un miglioramento nei comuni centro dell’area metropolitana (al 10,1% dal 14,7% del 2021), mentre i comuni periferia dell’area metropolitana e comuni sopra 50.000 abitanti, hanno visto un acuirsi dei valori dell’incidenza, che è arrivata all’11,6% dal 9,4% del 2021.

La crescita dell’incidenza a livello individuale, osservata nel 2022, è il risultato di un aumento più accentuato nel Mezzogiorno (a 12,7% dall’11,8%), soprattutto nelle Isole (all’11,3% dal 10%), ma presente anche al Nord (all’8,5% dal 7,7%), sia nel Nord-Ovest (all’8,3% da 7,5%) sia nel Nord-Est (all’8,8% dall’8,1%). Fa eccezione il Centro, dove l’incidenza individuale era stabile.

Il Mezzogiorno contava oltre 2.500.000 individui in povertà assoluta contro circa 2.298.000 residenti nelle regioni del Nord.

L’incidenza di povertà assoluta individuale fra i minori si è attestata al 13,4% (1.270.000 persone, dal 12,6% del 2021). Era al 12,0% fra i giovani di 18-34 anni (pari a 1.157.000 individui), in crescita rispetto al 2021 (quando era 11,1%). Stesso andamento per gli over65 (6,3%, 881.000 persone, rispetto al 5,5%), nonostante l’incidenza si mantenga su valori inferiori alla media nazionale.

L’aumento del numero delle famiglie in povertà assoluta, verificatosi nel 2022, non può che essere considerato preoccupante.

Sarebbe stato necessario che il governo avesse realizzato degli interventi all’altezza di tale fenomeno.

Ma ciò non è avvenuto. Le misure che hanno sostituito il reddito di cittadinanza, che comunque andava modificato, non possono essere considerate sufficienti.

venerdì 27 ottobre 2023

Dai lavoratori immigrati il 9% del Pil

E’ stato presentato il rapporto annuale per il 2023 sull’economia dell’immigrazione, curato dalla fondazione Leone Moressa. 2,4 milioni di lavoratori immigrati, nel 2022, hanno prodotto 154 miliardi di Pil, il 9% del totale.

Il notevole contributo fornito, in termini di Pil, dei lavoratori immigrati, appunto il 9% del totale, rappresenta uno dei dati più interessanti contenuti nel rapporto della fondazione Moressa. L’incidenza sul Pil è stato sensibilmente superiore in agricoltura (15,7%), e nell’edilizia (14,5%).

Tale contributo dimostra chiaramente quanto i lavoratori immigrati siano importanti per l’economia italiana.

Altri dati molto interessanti sono contenuti nel rapporto.

La popolazione straniera residente in Italia si è confermata stabile, nel 2022 rispetto all’anno precedente, pari all’8,6% del totale. I valori di alcuni indicatori demografici assumono particolare rilievo: tra gli stranieri vi erano 11,0 nati ogni mille abitanti e 2,0 morti, tra gli italiani, 6,3 nati e 13,0 morti per mille abitanti.

In aumento sono stati gli ingressi per lavoro degli immigrati, pari a 67.000 unità. In Italia il rapporto tra ingressi per lavoro e popolazione residente, pari a 11,3 ogni 10.000 abitanti, è rimasto però inferiore rispetto alla media che si è verificata nell’Unione europea (27,4).

Dopo la flessione dovuta alla pandemia, il tasso di occupazione degli stranieri (60,6%) è tornato a superare quello degli italiani (60,1%), pur rimanendo al di sotto dei livelli pre-Covid.

Gli occupati stranieri erano 2,4 milioni e si concentravano nei lavori manuali: l’incidenza degli stranieri, infatti, era mediamente del 10,3% sui lavoratori totali, ma ha raggiunto il 28,9% tra il personale non qualificato.

E’ continuato l’aumento degli imprenditori immigrati, che nel 2022 erano 761.000 (10,1% del totale). In dodici anni (2010-2022), gli imprenditori immigrati sono cresciuti (+39,7%) mentre gli italiani sono diminuiti (-10,2%). L’incidenza più elevata si è riscontrata nei settori costruzioni, commercio e ristorazione.

Dopo la pandemia, è tornato a crescere anche il numero di contribuenti immigrati. Si tratta di 4,3 milioni di contribuenti (10,4% del totale), che nel 2022 hanno dichiarato redditi per 64 miliardi di euro e versato 9,6 miliardi di Irpef.

E’ rimasto positivo il saldo tra il gettito fiscale e contributivo (entrate, 29,2 miliardi) e la spesa pubblica per i servizi di welfare (uscite, 27,4 miliardi), con +1,8 miliardi di euro in attivo. Gli immigrati, prevalentemente in età lavorativa, hanno infatti un basso impatto sulle principali voci di spesa pubblica come sanità e pensioni.

E la notevole importanza dei lavoratori immigrati per il sistema economico italiano induce a rilevare che, anche per questo motivo, sono sbagliate le posizioni di quanti ritengono molto preoccupante la presenza di immigrati nel nostro Paese.

Più corretto sarebbe l’auspicio che la componente rappresentata dai lavoratori sul totale degli immigrati aumenti e che tale componente si accresca anche in termini assoluti.

Se ciò si verificasse si contribuirebbe a favorire la crescita del Pil e si avrebbero conseguenze positive anche dal punto di vista demografico.

domenica 22 ottobre 2023

L'economia sommersa in Italia e in altri Paesi

Recentemente l’Istat ha reso noti alcuni dati relativi alle dimensioni dell’economia sommersa, in Italia, nel 2021. L’economia sommersa ha assunto un valore pari a 174 miliardi di euro. Le unità di lavoro irregolari erano 2.990.000, con un aumento di circa 73.000 unità rispetto al 2020.

Sempre rispetto al 2020, l’economia non osservata, costituita oltre che dall’economia sommersa dalle attività illegali, pari a 192 miliardi di euro, è cresciuta di 17,4 miliardi ma la sua incidenza sul Pil è rimasta invariata (10,5%).

Le principali componenti dell’economia sommersa sono rappresentate dal valore aggiunto occultato tramite comunicazioni volutamente errate del fatturato e/o dei costi (sotto-dichiarazione del valore aggiunto) o generato mediante l’utilizzo di lavoro irregolare.

L’economia illegale include sia le attività di produzione di beni e servizi la cui vendita, distribuzione o possesso sono proibite dalla legge sia quelle che, pur essendo legali,  sono svolte da operatori non autorizzati.

Nell’economia illegale, ad esempio, possono essere inserite la produzione e il commercio di stupefacenti, i servizi di prostituzione e il contrabbando di sigarette.

Ma, al di là delle sue variazioni nel tempo, assume maggiore importanza la consistenza, molto notevole in Italia, dell’economia non osservata, e della sua maggiore componente, l’economia sommersa, soprattutto rispetto a quanto avviene in altri Paesi.

Secondo un documento del ministero dell’Economia, nel quale sono analizzati i valori dell’economia sommersa nei Paesi dell’Unione europea, tramite l’elaborazione dei dati contenuti in uno studio di Friedrich Schneider e Leandro Medina, si può concludere che il valore assunto dall’economia sommersa in Italia è tra i più elevati.

Infatti il valore medio dell’economia sommersa, in rapporto al Pil, nel periodo 1991-2015, era in Italia decisamente più elevato dei valori registratisi nei Paesi più importanti dell’Ue, Spagna, Belgio, Francia, Germania, Regno Unito, Olanda.

Occorre però aggiungere che i Paesi contraddistinti  dai valori più alti erano Cipro, Romania, Malta e Croazia.

Quindi il confronto con i Paesi più importanti dell’Unione europea dimostra ulteriormente che l’economia sommersa in Italia assume dimensioni molto consistenti, troppo consistenti.

E conferma inoltre che sarebbe opportuno ridurre il valore dell’economia sommersa, nel nostro Paese, per  vari motivi, il più importante  dei quali è senza dubbio la necessità di diminuire l’evasione fiscale.

E’ del tutto evidente infatti che tramite la diminuzione dell’evasione fiscale sarebbe possibile finanziare spese pubbliche di notevole rilievo come quelle per la sanità e per l’istruzione, nonché gli investimenti in infrastrutture, materiali e immateriali, e sarebbe possibile anche ridurre alcune imposte, quali quelle a carico del lavoro dipendente. Si potrebbe poi ridurre il deficit di bilancio e il debito pubblico.

domenica 15 ottobre 2023

Aumentare la tassa di successione

I problemi del bilancio pubblico italiano sono noti e si stanno manifestando anche nella predisposizione della manovra finanziaria che sarà approvata nelle prossime settimane. Un modo per ridurre quei problemi potrebbe essere rappresentato da un aumento della tassa di successione.

Tale aumento non necessariamente determinerebbe un incremento della pressione fiscale, del rapporto tra entrate fiscali e Pil, perché potrebbe anche essere utilizzato per ridurre il gettito di altre imposte come ad esempio l’Irpef pagata dai lavoratori dipendenti, in primo luogo di quanti percepiscono retribuzioni più basse.

Ma perché sarebbe auspicabile un aumento della tassa di successione?

Non solo perché potrebbe contribuire a ridurre i problemi del bilancio pubblico.

Ma anche per motivi di equità.

La tassa di successione infatti, in Italia, è troppo bassa.

In Italia le imposte di successione oscillano tra il 4 e l’8%, con delle franchigie di esenzione piuttosto importanti, mentre in altri Paesi si può arrivare ad applicare una tassazione maggiore del 50%.

Alcuni esempi.

In Germania la tassa di successione oscilla tra il 7% e il 50%, in Gran Bretagna l’Inheritance tax act del 1984 applica una tassazione del 40%, mentre in Francia  l’aliquota varia dal 5% al 60%.

Questo significa che nel caso in cui vengano lasciati in eredità un milione di euro, in Italia la somma da pagare è di 0 euro (mentre se si lascia un immobile si pagano in ogni caso le imposte ipotecarie e catastali), in Germania di circa 75.000 euro, in Francia di 195.000 e in Gran Bretagna di 250.000 euro.

Estendendo l’analisi anche ad altri Paesi, si può notare come il Belgio ha un’imposta sulla successione che oscilla tra il 30% e l’80%, la Finlandia tra il 13% e il 32%, e la Spagna tra il 34% e l’86%.

Per la verità ci sono anche Paesi dove non si pagano imposte di successione, Hong Kong, Singapore, Portogallo, Macao, Slovacchia, Estonia, Messico, Canada, Nuova Zelanda e Australia.

Comunque, lo ripeto, in molti importanti Paesi europei, le imposte di successione sono decisamente più elevate rispetto a quelle esistenti in Italia.

Quindi, tutto ciò considerato, credo che sia ampiamente giustificata la possibilità, o meglio la necessità, di aumentare la tassa di successione in Italia.

domenica 8 ottobre 2023

Gli occupati aumentano mai i problemi strutturali rimangono

 

In agosto gli occupati sono aumentati, in Italia, di 59.000 unità rispetto al mese precedente, di 523.000 rispetto allo stesso mese del 2022. Il tasso di occupazione si è accresciuto, raggiungendo il 61,5%, il valore più elevato di sempre. Ma i problemi strutturali del mercato del lavoro, che si manifestano da anni ormai, sono rimasti inalterati.

Inoltre, i disoccupati sono diminuiti, rispetto a luglio, di 62.000 unità e di 185.000 rispetto al mese di agosto del 2022.

Il tasso di disoccupazione è stato pari al 7,3%, il valore minimo da oltre 14 anni.

Questi dati, recentemente resi noti dall’Istat, non possono che essere valutati positivamente, senza dubbio.

Ma l’analisi della situazione attuale del mercato del lavoro non può limitarsi a questi dati.

Infatti, non si sono modificati i problemi strutturali del mercato del lavoro italiano, che da molti anni ormai persistono.

Quali sono questi problemi?

In primo luogo il tasso di disoccupazione giovanile rimane particolarmente elevato, è pari al 22%, mentre in quasi tutti i Paesi dell’Unione europea e dell’Ocse questo tasso di disoccupazione è decisamente più basso. In Germania, addirittura, è pari al 5,7%.

Il tasso di occupazione femminile è troppo basso, pari al 52,5%, notevolmente inferiore al tasso di occupazione maschile pari al 70,5%. Anche il tasso di disoccupazione femminile è molto alto e di gran lunga più elevato del tasso di disoccupazione femminile.

E, ugualmente, le differenze con quanto avviene in molti altri Paesi sono molto consistenti.

Quindi, in Italia, ci sono molti giovani disoccupati e poche donne occupate.

E nelle regioni meridionali la situazione è ancora più preoccupante.

Pertanto mi sembrano del tutto fuori luogo le valutazioni entusiastiche espresse da esponenti del governo e dei partiti di centrodestra a commento dei dati sul mercato del lavoro relativi al mese di agosto.

Del resto, l’attuale governo non ha predisposto interventi efficaci affinchè possano essere affrontati quei problemi strutturali che ho evidenziato.

Inoltre, non ci si può limitare ad esaminare l’andamento del valore complessivo degli occupati e dei disoccupati.

Andrebbe analizzato anche l’andamento del numero degli occupati dipendenti e di quelli indipendenti, ad esempio, e le condizioni, economiche e non solo, dei lavoratori dipendenti, sempre più contraddistinti da una evidente precarietà e da remunerazioni insufficienti, soprattutto in presenza di un tasso di inflazione ancora elevato.

domenica 1 ottobre 2023

L'importanza dell'economia della bellezza

 

In Italia la cosiddetta “economia della bellezza” assume notevole importanza. Questo è il principale risultato dello studio, recentemente reso noto, promosso da banca Ifis. L’economia della bellezza vale 500 miliardi di euro, addirittura il 26% del Pil italiano.

Innanzitutto, cosa si intende per economia della bellezza? Tale settore economico comprende tutte quelle attività volte alla valorizzazione del patrimonio culturale, architettonico, enogastronomico, di tradizioni, di identità, del nostro Paese.

Nel 2022 non solo l’economia della bellezza ha assunto quel peso all’inizio evidenziato ma il suo valore è aumentato del 16% rispetto al 2021 e dell’8% rispetto al 2019.

Quindi ha contribuito notevolmente alla crescita economica verificatasi dopo la diffusione della pandemia. Infatti l’economia della bellezza è cresciuta, rispetto al 2021, il doppio rispetto al resto del sistema produttivo.

La crescita è stata intensa in tutti i comparti e ha riguardato sia le imprese guidate da una forte componente di design sia le imprese guidate da uno scopo sociale.

Rispetto al 2019, i comporti maggiormente interessati dalla crescita sono stati l’agroalimentare e il turismo, in misura minore ma comunque molto significativa, la tecnologia, la cosmetica, il sistema casa, l’ambiente, l’orologeria, la gioielleria e l’ “automotive”.

Spesso, nell’ambito dell’economia della bellezza, un ruolo importante viene svolto dagli artigiani, che, frequentemente però, si trovano ad affrontare notevoli difficoltà.

Rispetto al 2000 le imprese artigiane, infatti, sono diminuite del 32%, e si è registrato un deciso invecchiamento dei loro titolari.

Negli ultimi due anni  molte imprese artigiane, il 41%, si sono trovate di fronte alla necessità di affrontare un passaggio generazionale.

E le più comuni strategie per garantire continuità alle imprese sono il mantenimento della tradizione familiare e la formazione diretta di nuovo personale.

Per raggiungere tali obiettivi gli artigiani chiedono però anche modifiche agli attuali programmi scolastici attraverso il potenziamento di percorsi di studio che siano capaci di mostrare ai giovani la creatività connessa con i lavori artigiani e di accendere così la loro immaginazione.

In parallelo, auspicano inoltre l’introduzione di incentivi fiscali per chi intraprende un’attività in questo settore. 

Comunque, a mio avviso, va attribuita una maggiore attenzione non solo alle imprese artigiane ma a tutti i comparti dell’economia della bellezza.

E uno dei motivi che determinano l’insufficiente interesse, soprattutto da parte delle autorità pubbliche, è senza dubbio la scarsa consapevolezza dell’importanza dell’economia della bellezza.

Per questo occorre ricordare, ancora una volta, che il settore in questione rappresenta il 26% del Pil del nostro Paese.

domenica 24 settembre 2023

Più concorrenza in Italia è un tabù

Nel Pnnr italiano non è prevista solo la realizzazione di investimenti in diversi settori ma anche l’attuazione di alcune riforme che dovrebbero consentire l’aumento del prodotto potenziale e la cui assenza rappresenta un limite alla crescita economica.

Quindi, se fossero davvero attuate le riforme proposte, anche in questo modo si otterrebbe un aumento del Pil, in forma strutturale.

Di tali riforme, però, sui media ci si occupa poco e l’attenzione è rivolta soprattutto su quali investimenti dovranno essere realizzati e in quali tempi.

Invece occorrerebbe preoccuparsi della situazione di alcune riforme la cui attuazione da anni incontra molti ostacoli.

L’esempio più evidente riguarda la necessità di sviluppare la concorrenza.

L’Italia è la patria delle corporazioni le quali, spesso se non sempre, impongono gli ostacoli più importanti affinchè la concorrenza su diversi mercati si accresca, come necessario.

Tre casi sono eclatanti, le concessioni balneari, le regole riguardanti le licenze per i taxi e quelle per il commercio ambulante.

In primo luogo, sembra ancora molto lontano il momento in cui sarà possibile effettuare delle gare per l’ottenimento delle concessioni relative agli stabilimenti balneari.

Si sta ancora effettuando il cosiddetto monitoraggio per verificare quante siano in Italia le spiagge libere e l’obiettivo di chi si oppone alle gare è dimostrare che le spiagge occupate dagli stabilimenti siano una parte limitata rispetto al totale delle spiagge.

Ma i dati preliminari dell’indagine promossa dal governo sono in contrasto con i dati forniti dall’Istat nel senso che i primi tendono a sovrastimare l’estensione delle spiagge libere, considerando tali, ad esempio, anche quelle rocciose.

Quindi, addirittura, c’è chi vorrebbe arrivare alla conclusione che poiché ci sono molte spiagge libere ha poco senso procedere all’effettuazione di gare per le concessioni balneari.

Peraltro, anche se fosse dimostrato, e ritengo che non lo si possa fare, che le spiagge “private” fossero una parte minoritaria del totale delle spiagge non vedo perché non si debba procedere comunque alle gare per le concessioni balneari.

Per il commercio ambulante il governo non intende, per ora, come indicato anche dall’Autorità antitrust, imporre ai Comuni l’effettuazione di gare annuali.

Sulle concessioni delle licenze ai tassisti, per il momento il governo non vuole prevedere l’obbligo per i Comuni di aumentare considerevolmente il numero delle licenze, nonostante il fatto che nei mesi passati, soprattutto nei Comuni più grandi, è stata dimostrata la carenza di taxi che ha determinato lunghe attese per coloro che intendevano usufruire del loro servizio.

Inoltre un aumento della concorrenza dovrebbe riguardare anche altri settori, come quello dei professionisti, per i quali sarebbe necessario, come avviene negli altri Paesi, abolire l’esame di stato.

Un generale sviluppo della concorrenza, oltre a consentire l’erogazione di servizi più efficienti, rendere possibile anche una riduzione dei prezzi.

Ma, si sa, lo ripeto, l’Italia è la patria delle corporazioni…

domenica 17 settembre 2023

Pensioni, quota 100 è costata troppo

Tra gli argomenti trattati nel rapporto annuale dell’Inps, recentemente presentato alla Camera, uno dei più importanti è rappresentato dalle pensioni anticipate. Con la sola quota 100 ci sono stati 432.888 pensionamenti.

Nel complesso le pensioni anticipate hanno raggiunto, il 31 maggio del 2023, il ragguardevole numero di 448.573. Pertanto il 56,1% dei trattamenti previdenziali erogati dall’Inps è riconducibile a pensioni anticipate o d’anzianità.

Vorrei soprattutto rilevare che, considerando l’elevato numero di pensioni anticipate avvenute con la cosiddetta quota 100, l’intervento che ha determinato appunto tali pensionamenti ha causato un costo per bilancio pubblico molto consistente.

Tale costo non viene ufficialmente reso noto ma è stimabile in alcune decine di miliardi di euro.

Quindi non solo il reddito di cittadinanza, non solo il superbonus 110%, hanno provocato un aumento della spesa pubblica, e quindi anche del deficit, molto rilevante, ma anche quota 100.

E, a mio avviso, mentre la spesa pubblica derivante dal reddito di cittadinanza e dal superbonus poteva essere ridotta, ma non annullata, quella connessa all’introduzione di quota 100 poteva essere eliminata totalmente.

Infatti non doveva essere un obiettivo prioritario consentire a quelle 400.000 persone circa di andare in pensione qualche anno prima rispetto a quando ci sarebbero potuti andare in assenza di quota 100.

Ma, come è noto, per i partiti, in primo luogo la Lega, e per i sindacati, coloro che hanno superato i 60 anni rappresentano un bacino di consensi molto ampio.

Però non sarebbe stata una catastrofe se quei 400.000 fossero andati in pensione successivamente.

Si sarebbero risparmiate consistenti risorse finanziarie pubbliche che, al limite, potevano essere utilizzate meglio, soprattutto per favorire l’occupazione di giovani e donne.

Infatti, come dovrebbe essere noto, ai presidenti del Consiglio, ai ministri, ai rappresentanti dei partiti e dei sindacati, il tasso di occupazione dei giovani e delle donne è in Italia è molto basso, inferiore a quello che si verifica in quasi tutti i Paesi dell’Unione europea. 

 

lunedì 11 settembre 2023

Insoddisfacente l'andamento dei consumi

 

L’andamento dei consumi delle famiglie italiane è insoddisfacente. E tale andamento è una delle cause principali della recente dinamica del Pil, tendente a decelerare. Ovviamente per acquisire informazioni su quell’andamento sono importanti le statistiche ufficiali dell’Istat ma anche altre fonti possono essere molto utili, come ad esempio il rapporto delle Coop, da poco reso pubblico.

E’ del tutto evidente che il rapporto delle Coop fornisce indicazioni principalmente su una componente dei consumi e cioè la spesa per i beni alimentari che rappresenta però una parte molto importante della spesa complessiva, soprattutto per le famiglie che percepiscono redditi bassi.

La fotografia scattata dal rapporto Coop 2023 è quella di un Paese certamente inquieto (il 30% si dichiara tale) e dove crescono i timori (dal 20 al 32%).

Secondo il rapporto “Campioni nelle rinunce (calano le compravendite immobiliari, le auto, i beni tecnologici), gli italiani hanno sostituito il nuovo con l’usato (33 milioni nell’anno passato hanno venduto o acquistato beni usati)”.

E i loro carrelli della spesa diventano più leggeri.

-3% la variazione delle vendite a prezzi costanti nel primo semestre dell’anno e in previsione 2024 su 2023 il 60% dei manager intervistati si aspetta un risultato in ulteriore seppur modesta riduzione (-0,5%).

Così la spesa diventa più frequente, l’attenzione al risparmio fa piazza pulita della fedeltà al canale di acquisto, discount e mdd (cioè i prodotti con il marchio del distributore) sembrano ancore di salvezza.

Così continua il rapporto “E visto che la fatica di vivere incalza a farne le spese è anche l’identità alimentare di buona parte degli italiani. 1 su 5, soprattutto baby boomers e lower class, dichiara di aver perso ogni riferimento identitario abbandonando anche i dettami della cultura tradizionale, del territorio, delle tipicità”.

E la causa più importante della riduzione dei consumi dei beni alimentari è senza dubbio l’aumento dei loro prezzi, in decelerazione sì ma ancora consistente e maggiore del tasso di inflazione medio.

Per determinare un’inversione di tendenza e quindi un aumento dei consumi presi in esame sarebbe necessario, oltre ad un’attenuazione della crescita dei prezzi, un aumento del potere d’acquisto soprattutto di chi percepisce redditi bassi, accrescendo le loro remunerazioni.

E di questa necessità dovrebbe tenere conto la manovra di bilancio che il Governo si appresta a varare.

Almeno due interventi sarebbero indispensabili: una  consistente riduzione del cosiddetto cuneo fiscale ed anche un aumento della spesa per la sanità pubblica, che provocherebbe anche una riduzione della spesa nei confronti della sanità privata, la cui crescita costituisce anch’essa una causa delle difficoltà economiche di una parte rilevante degli italiani.

Senza un consistente incremento dei consumi delle famiglie non si potrà verifica un aumento del Pil di notevole rilievo e, conseguentemente, una significativa crescita dell’occupazione.

lunedì 4 settembre 2023

Difficoltà economiche e manovra di bilancio

Alcuni dati diffusi recentemente inducono a concludere che la situazione economica congiunturale dell’Italia stia peggiorando. I dati riguardano il Pil, l’occupazione e i prestiti alle imprese. Tali dati renderanno più difficile l’approvazione della manovra di bilancio per il 2024?

I dati a cui ho fatto riferimento sono la riduzione del Pil nel secondo trimestre dell’anno, -0,4%, la diminuzione degli occupati nel mese di luglio, -73.000, e la contrazione dei prestiti alle imprese, -3,7% su base annua.

Per concludere che i dati in questione anticipino il verificarsi di un peggioramento duraturo della situazione economica sarà necessario attendere quanto si verificherà nei prossimi mesi.

E’ probabile, però, che, considerando anche quanto sta avvenendo in altri Paesi europei, in primis la Germania, il peggioramento continui, in Italia, nei prossimi mesi, pur se le sue dimensioni non sono al momento prevedibili.

Un interrogativo mi sembra il più importante.

Questo peggioramento renderà ancora più difficile l’approvazione della manovra di bilancio che vedrà impegnati il Governo e il Parlamento nei prossimi mesi?

Molto dipenderà dalla possibilità che il peggioramento incida negativamente anche sull’andamento del Pil del prossimo anno, sulle entrate fiscali, sul rapporto tra deficit pubblico potenziale  e Pil, sempre relativamente al 2024.

E’ del tutto evidente che la dinamica della spesa pubblica che si verificherà, in seguito alla manovra, nel 2024 dipenderà soprattutto dalla previsione sul valore che assumerà il rapporto tra deficit pubblico e Pil.

Infatti un andamento sfavorevole del Pil renderà più elevato quel rapporto, anche se al denominatore del rapporto vi è il valore nominale del Pil, comprensivo cioè dell’aumento dei prezzi, ed è noto che siamo ancora in un periodo contraddistinto da un tasso di inflazione abbastanza elevato che, però, sembra rallentare.

Comunque, anche se non ci fosse un notevole peggioramento nell’andamento del Pil finora previsto per il 2024, è ormai acquisito che gli spazi a disposizione della manovra di bilancio saranno piuttosto ristretti e, se si verificasse un ulteriore peggioramento nella dinamica del Pil, quegli spazi diminuirebbero ancora.

Il Governo, in primo luogo il ministro Giorgetti, già ha anticipato che la manovra di bilancio sarà molto complessa, addebitando le principali responsabilità al cosiddetto superbonus edilizio che, ad avviso del ministro dell’economia, produrrà pesanti effetti negativi sul deficit pubblico anche nel 2024 e probabilmente negli anni successivi.

Per la verità, a tale proposito, vi sono economisti, come Carlo Cottarelli, che ritengono che gli effetti del superbonus sul deficit pubblico del 2024 saranno piuttosto limitati.

E quindi?

E’ certo invece che, se il Governo intendesse attuare, nel 2024, una lotta all’evasione fiscale più intensa di quanto per ora sembra voler fare, si potrebbero avere a disposizione risorse finanziarie consistenti da utilizzare per diminuire, in modo strutturale e in misura consistente, il cosiddetto cuneo fiscale o, ad esempio, per aumentare, e non ridurre in termini reali, la spesa per la sanità pubblica, come sarebbe necessario.

Maggiori risorse si potrebbero ottenere se la riforma fiscale avesse un carattere più progressivo, se fossero introdotte nuove imposte che colpissero le rendite, se, inoltre, aumentasse l’imposta sulle successioni, ora molto bassa, anche in confronto a quanto avviene in molti altri Paesi europei e se poi venisse finalmente attuata un’efficace spending review, tendente a ridurre i molti sprechi nella spesa delle pubbliche amministrazioni.

E poi se il Governo operasse per ridurre i ritardi nell’attuazione del Pnrr sarebbe possibile incrementare gli investimenti pubblici per favorire l’aumento del Pil nel 2024. Peraltro, al di là delle accuse rivolte ai governi precedenti, una delle principali cause dei ritardi nel Pnrr derivano dalla decisione dell’attuale Governo di trasferire la cabina di regia del Pnrr dal ministero dell’Economia alla presidenza del Consiglio.

Pertanto, se il Governo attuasse gli interventi da me ipotizzati, o interventi simili, l’eventuale peggioramento della dinamica del Pil nel 2024 non produrrebbe effetti negativi sulla manovra di bilancio.

mercoledì 26 luglio 2023

La gravissima crisi del sistema fiscale

Il sistema fiscale italiano versa in una crisi gravissima che ne mina il corretto funzionamento e la stessa legittimazione. Il problema è particolarmente grave dato che in Italia, come negli altri Paesi dell’Europa, una elevata pressione fiscale è necessaria al finanziamento dei sistemi di welfare moderni. Una corretta distribuzione del carico fiscale è quindi un elemento fondamentale del contratto sociale in cui i cittadini dovrebbero riconoscersi.

A denunciare la crisi del sistema fiscale italiano sono stati, con un appello, molti economisti tra i quali Vincenzo Visco, Roberto Artoni, Massimo Bordignon, Vieri Ceriani, Antonio Di Majo, Silvia Giannini, Ruggero Paladini, Alessandro Petretto.

Il testo dell’appello è il seguente:

“Gli elementi che caratterizzano questa crisi sono noti.

La massiccia evasione di intere categorie di contribuenti che nascondono al fisco il 65-70% della loro base imponibile proveniente da redditi di lavoro autonomo e da impresa individuale.

Agli stessi contribuenti è poi riservata una imposta sostitutiva, con determinazione forfettaria dell’imponibile e aliquota piatta, molto favorevole cui si è aggiunta, per chi non aderisce al regime forfettario, l’aliquota piatta sugli incrementi di reddito.

Il trattamento agevolato per lavoratori autonomi e professionisti si traduce in una serie di distorsioni che aggravano la scarsa produttività del settore dei servizi, uno dei limiti principali dell’economia italiana.    

La frammentazione del sistema di imposizione per cui non solo le diverse tipologie di reddito sono trattate differentemente, ma esistono differenziazioni anche all’interno di tali categorie, con la conseguenza che, pure a parità di reddito, i contribuenti subiscono prelievi molto diversi.

I regimi cedolari e sostitutivi, molto diffusi, sottraggono una parte rilevante dei redditi alle addizionali comunali e regionali all’Irpef, e quindi al dovere di contribuire al finanziamento dei servizi pubblici locali.

Il trattamento difforme dei diversi redditi di capitale, il cui onere varia da 0 al 26%, influisce negativamente su una corretta allocazione del risparmio, e quindi sugli investimenti.

La struttura delle aliquote effettive dell’Irpef, caratterizzata dall’esistenza di aliquote implicite molto elevate, con effetti negativi sulla trasparenza delle imposte, che, a causa del sistematico svuotamento della sua base imponibile, riserva sempre più la progressività del prelievo ai soli redditi di lavoro dipendente e pensione.

La pianificazione fiscale aggressiva dei gruppi multinazionali.

Il meccanismo di pagamento concentrato su due versamenti, a saldo e in acconto, che crea seri problemi di liquidità a molti contribuenti.

L’arretratezza del catasto che penalizza i proprietari di immobili di minor pregio rispetto a quelli di maggior valore.

L’eccesso del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro rispetto agli altri redditi e agli altri fattori di produzione.

Il sistema di riscossione totalmente inefficiente che determina la concessione di periodiche cancellazioni di ruoli, di cui molti perfettamente esigibili.

Il ricorso continuo a misure di definizione agevolata dei carichi tributari che coltiva la convinzione dell’impunità per l’infedeltà fiscale.

La mancanza di volontà per trovare le soluzioni legislative e amministrative necessarie a consentire il pieno utilizzo di tutte le banche dati sia per il contrasto preventivo dell’evasione sia per l’efficientamento dell’attività di riscossione.

Si potrebbe continuare, ma in sostanza tutti i principi fondamentali di un buon sistema fiscale sono da noi inapplicati, con gravi conseguenze non solo di disparità di trattamento, ma anche di distorsioni economiche che determinano una riduzione della crescita.

Sono ormai numerosi gli studi che dimostrano come una significativa riduzione dell’evasione fiscale, conseguita a parità di pressione fiscale complessiva, determinerebbe un significativo aumento del Pil italiano.

Non è possibile continuare ad ignorare questa ed altre analoghe evidenze.

I promotori di questo appello hanno preso atto che la delega fiscale recentemente approvata dal Governo non affronta, anzi trascura ed appare in contrasto con le necessità di riforma, ritengono necessaria una presa di coscienza e una mobilitazione per promuovere un cambiamento che renda di nuovo il fisco la casa di tutti e non più una fabbrica di abusi, privilegi e iniquità, integrando al tempo stesso il sistema di welfare, che va esteso in tutte le sue componenti anche ai lavoratori indipendenti, per motivi di equità e per evitare che le lacune esistenti possano diventare un alibi per l’infedeltà fiscale”.

domenica 23 luglio 2023

Forte riduzione dei salari

E’ noto che negli ultimi periodi in Italia si è verificata una notevole riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, dovuta sì all’inflazione ma anche alla diminuzioni dei redditi, in primo luogo di quelli dei lavoratori dipendenti. Un recente rapporto dell’Ocse, un’organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico, lo dimostra.

Secondo l’Ocse, infatti, l’Italia è il Paese che ha registrato il calo dei salari reali più forte tra le principali economie delle nazioni aderenti a questa organizzazione.

Del rapporto dell’Ocse ne riferisce “Collettiva”, il sito web della Cgil.

Alla fine del 2022, erano crollati del 7% rispetto al periodo precedente la pandemia. Una discesa continuata nel primo trimestre di quest’anno, con una diminuzione su base annua del 7,5%.

L'aggressione russa contro l'Ucraina ha contribuito a un'impennata dell'inflazione, che non è stata accompagnata da una corrispondente crescita dei salari nominali. Di conseguenza, i salari reali sono diminuiti praticamente ovunque.

Ma emerge il record negativo del nostro Paese.

In media, nel primo trimestre 2023 i salari reali sono diminuiti del 3,8% rispetto all'anno precedente (i dati disponibili sono su 34 Paesi Ocse).

Ma noi abbiamo fatto peggio degli altri, il 7,5%, praticamente il doppio.

A soffrire, ovviamente, sono soprattutto le famiglie a basso reddito.

“Nonostante il relativo aiuto arrivato grazie agli interventi pubblici, la perdita di potere d'acquisto è particolarmente problematica per i lavoratori del ceto basso” , si legge nel rapporto.

Nel quale si precisa: “Questi ultimi hanno meno libertà di azione per far fronte all'aumento dei prezzi attingendo ai propri risparmi o prendendo a prestito, e si trovano spesso di fronte a un'inflazione effettiva più elevata man mano che viene destinata una parte maggiore della loro spesa in energia e alimentazione”.

Anche le previsioni non sono buone.

Da un lato, nei prossimi due anni il mercato del lavoro rimarrà sostanzialmente stabile, con una crescita dell'occupazione totale inferiore all'1% sia nel 2023 sia nel 2024 (a maggio il tasso di disoccupazione il  in Italia era al 7,6%, la media Ocse è 4,8%).

Dall’altro, i salari nominali aumenteranno del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, ma l’inflazione si attesterà al 6,4% nel 2023 e al 3% nel 2024.

Alla conclusione della sua analisi, l’Ocse offre anche alcune soluzioni per mitigare la perdita di potere d'acquisto dei lavoratori e garantire una più equa distribuzione dei costi dell'inflazione tra imprese e lavoratori.

“Il mezzo più diretto per aiutare questi ultimi - si legge nel rapporto - è quello di aumentare i loro salari, compreso il salario minimo legale, che è fissato dallo Stato”.

Sull’Italia pesa “l’assenza di un salario minimo” (presente in 30 Paesi Ocse su 38), ha precisato il direttore per l'Impiego e il lavoro Stefano Scarpetta.

L'economista ha rimarcato “l'importanza di avere in momenti come questo un salario minimo, accompagnato da una commissione tripartita per valutarne il livello”. Secondo l’esponente dell’Ocse il nostro Paese dovrebbe fare come la Germania, che nel 2015 ha introdotto il salario minimo pur avendo (come l'Italia) una “forte contrattazione collettiva”.

La seconda soluzione, appunto, è la contrattazione collettiva.

Ma c’è un “però”: in Italia i salari fissati dai contratti collettivi sono diminuiti in termini reali di oltre il 6% nel 2022. L’Ocse, infatti, sottolinea che “i significativi ritardi nel rinnovo dei contratti collettivi (oltre il 50% dei lavoratori è coperto da un contratto scaduto da oltre due anni) rischiano di prolungare la perdita di potere d'acquisto per molti lavoratori”.

Nello stesso tempo, in generale, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ritiene che ci sia “spazio per i profitti per assorbire aumenti salariali, almeno per i lavoratori a bassa retribuzione” e che i governi “dovrebbero riorientare i sostegni pubblici in maniera più mirata a favore delle famiglie a basso reddito”.