domenica 29 gennaio 2023

Ci sono tante Sirie con tanti problemi

Attualmente la Siria è molto frammentata. Possono essere individuati diversi territori nei quali sono diversi coloro che governano, o quanto meno comandano. E queste differenti parti della Siria sono però ancora contraddistinte da notevoli problemi nonostante la guerra sia, almeno apparentemente, terminata.

In un articolo pubblicato da “Il Sole 24 ore”, Roberto Bongiorni esamina in modo molto interessante tale situazione.

Quali sono queste parti della Siria?

C’è la Siria del presidente Bashar al-Assad, uscito vincitore da una guerra sanguinosa grazie all’intervento dell’esercito russo nel 2015 e dei suoi alleati mediorientali, Hezbollah e Iran.

E’ la parte più estesa di un Paese frantumato, su cui il presidente “quasi a vita”, succeduto al padre Hafez nel 2000, esercita sui conflitti un controllo piuttosto limitato.

C’è il Kurdistan siriano, meglio conosciuto come la regione del Rojava, dove dal 2011 le autorità curde hanno costituito l’“amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est” affidando la loro difesa alle milizie dello Ypg. Un territorio che abbraccia anche parte della provincia di Raqqa, un tempo capitale del Califfato islamico, dove vivono anche molti arabi.

C’è la Siria nord-occidentale in corrispondenza soprattutto della provincia di Idlib.

Qui si trova l’ultima roccaforte dell’opposizione sunnita, l’ultimo riparto dell’ormai esiguo Libero esercito siriano e di molti gruppi islamici, tra cui pericolose formazioni affiliate ad al-Qaeda.

Infine c’è la Siria dell’Isis.

Non’è un’entità fisica perché da alcuni anni Daesh è orfano del suo Califfato. E dal 2021 anche del suo leader, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi. Ciononostante i suoi estremisti, presenti soprattutto nella parte centro-settentrionale del Paese, sono sempre pronti a colpire laddove si crea un vuoto di potere.

Giunta al suo dodicesimo anno la guerra civile siriana è divenuta un conflitto a bassa intensità. Ma che non ha conosciuto pause.

Il risultato è davanti agli occhi di tutti: su una popolazione che, prima della guerra, raggiungeva i 23 milioni di abitanti, più di sette milioni hanno abbandonato il Paese. Altri sette milioni restano sfollati interni.

Tra il 2019 e il 2021 i prezzi di diversi generi alimentari di base sono aumentati dell’800%.

Dodici anni di guerra hanno restituito un Paese dove le infrastrutture sono distrutte e il sistema sanitario è fatiscente.

La regione più problematica è proprio la provincia di Idlib, da anni una sorta di protettorato turco,. Qui si trovano gli sfollati degli sfollati, costretti a fuggire di casa cinque, sette anche dieci volte in pochi anni.

“In questa regione vivono circa 4,4 milioni di persone - ha dichiarato Brent Galli, responsabile del progetto Idlib, Siria occidentale, di Medici senza frontiere. Oltre un milione vive nei 1.400 piccoli campi profughi, dove l’accesso umanitario è difficile”.

In questa “Siria turca” il governo di Ankara ha realizzato numerose infrastrutture per trasferire parte dei rifugiati che ospita sul suo territorio. In molte città si utilizza solo la lira turca.

Assad vede come fumo negli occhi la presenza turca a Idlib. Un astio che è ricambiato da Ankara. Un tempo cordiali amici, dal 2012 il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e Assad si sono trovati sui due fronte opposti della guerra civile, scambiandosi ripetutamente pesanti insulti.

Comunque è la popolazione civile che si trova in grande difficoltà.

Infatti Brent Galli ha aggiunto: “Siamo in inverno. Sulle alture i profughi si trovano a dover scegliere se spendere i pochi soldi per la salute o per scaldarsi, peraltro spesso con stufe a cherosene che provocano malattie polmonari. In pianura il fango rende impraticabili diverse strade. Da settembre, nel Nord-Ovest sono stati registrati 11.000 casi di colera”.

E termina così Bongiorni: “I conflitti lunghi si lasciano dietro vittime, feriti, persone mutilate e invalide. E tanti, tantissimi traumi. Sono le ferite dell’anima. Invisibili ma difficilmente sanabili. E in questa Siria dilaniata, dove Idlib è la regione che sanguina di più, la gente ha paura di non avere un futuro. Teme di vivere in questo limbo, senza mai più tornare alle proprie case”.

Ed è proprio la situazione della popolazione civile che mi preoccupa di più, al di là dei contrasti che sorgono tra chi governa le diverse parti della Siria. L’enorme numero degli sfollati, all’esterno e all’interno del Paese.

Di tale situazione non c’è la necessaria consapevolezza nei Paesi occidentali, soprattutto quando dalla Siria arrivano in quei Paesi molti migranti. Infatti prima di esprimere un giudizio negativo sull’arrivo di questi migranti si dovrebbe tener conto di quanto è avvenuto e avviene in Siria.

Purtroppo, generalmente, ciò non si verifica.

mercoledì 25 gennaio 2023

Non è vero che la spesa sanitaria sia troppo alta

 

Generalmente si crede che la spesa sanitaria in Italia sia troppo elevata. In realtà non è così, se si confrontano i dati della spesa sanitaria in Italia con quelli che contraddistinguono altri Paesi, A questa conclusione si perviene analizzando alcune tabelle del referto della Corte dei Conti inviato al Parlamento sulla gestione finanziaria dei servizi sanitari regionali.

Nel 2021 la spesa sanitaria pro capite in Italia è stata pari a 2.851 dollari all’ anno (2.637 euro) e cioè il 51,7% in meno dei 5.905 dollari pro capite spesi in Germania, il 38,4% in meno dei 4.632 dollari  spesi in Francia mentre rispetto al Regno Unito il divario è del 31,4%.

E’ vero che con la pandemia anche in Italia si è verificata un’accelerazione della spesa che, ad esempio, nel 2020, è cresciuta dell’8,4%, un po’ meno che nel Regno Unito (+ 20,2%), Germania (+9,7%) e Spagna (+9,5%) e un po’ più che in Francia (+5,0%). Le differenze però non sono state rilevanti.

Se si considera però un periodo più lungo le differenze sono decisamente molto notevoli.

Nel 2019, rispetto al 2008, la spesa sanitaria pubblica è aumentata in Italia del 15,4%, in Francia del 34,5%, nel Regno Unito del 40,1% e in Germania dell’81,4%.

La stessa situazione si verifica se si analizza il rapporto tra spesa sanitaria pubblica e Pil.

Nel 2021, quel rapporto era in Italia pari al 7,1%, in Spagna al 7,8%, nel Regno Unito al 9,9%, in Francia al 10,3% e in Germania al 10,9%.

E l’insufficiente crescita della spesa sanitaria pubblica ha determinato un incremento delle diseguaglianze territoriali.

Lo dimostra la griglia dei Lea, i livelli essenziali di assistenza, che riassume in un punteggio sintetico i risultati regionali in 22 indicatori.

I 125 punti ottenuti dalla Calabria, la regione peggiore, dimostrano che gli abitanti di quella regione hanno diritto a poco più della metà della sanità disponibile in Veneto e Toscana, le regioni migliori con 222 punti seguite da Emilia Romagna e Lombardia (215).

E quindi i dati tramite i quali si possono confrontare i livelli assunti dalla spesa sanitaria pubblica in Italia con quelli relativi ad altri importanti Paesi europei dimostrano in primo luogo che nel nostro Paese quella spesa non è affatto troppo elevata, come spesso si crede. E inoltre che è necessario operare per accrescerla.

Del resto la semplice osservazione di quanto avviene quotidianamente nell’ambito della sanità pubblica, un solo esempio i lunghi tempi di attesa per le visite e gli interventi chirurgici, dimostra la necessità di aumentare notevolmente la spesa sanitaria pubblica.

Ciò non è avvenuto con l’ultima legge di bilancio. Quella spesa è aumentata solamente del 5%, rispetto all’anno precedente, determinando così una sua riduzione in termini reali in seguito all’elevato tasso di inflazione.

Di qui la crescita dell’utilizzo della sanità privata che impedisce però ai ceti sociali più deboli economicamente di accedere rapidamente ed efficacemente alle cure.

E di qui la necessità di cambiare radicalmente la situazione esistente, ripeto aumentando in misura consistente la spesa sanitaria pubblica.

Certo, il debito pubblico italiano è molto elevato, ma si devono e si possono trovare degli spazi finanziari per raggiungere quell’obiettivo o riducendo alcune spese, ad esempio non prevedendo, come è avvenuto nell’ultima legge di bilancio, anticipazioni nei tempi di pensionamento oppure agevolazioni alle società sportive, o aumentando le entrate, tramite soprattutto una vera lotta contro l’enorme evasione fiscale.

domenica 22 gennaio 2023

Diritti negati, salute mentale, povertà educativa e precariato

 

L’associazione “A buon diritto”, presieduta da Luigi Manconi, ha presentato il suo nono “rapporto sullo stato dei diritti”. Secondo il rapporto L’Italia deve impegnarsi di più soprattutto nella salvaguardai di tre diritti, tutela dei minori, del lavoro e della salute mentale.

Il rapporto può essere diviso in quattro parti, la costituzione del “Parlamento dei diritti”, la povertà educativa radice della diseguaglianza, la precarietà è incertezza esistenziale, salute mentale: minori e detenuti i più colpiti.

Una sintesi dei contenuti del rapporto è contenuta in un articolo di Barbara Polidori, pubblicato su www.vita.it.

“Redatto da un team di ricerca, il rapporto ‘vuole fungere come piattaforma utile ai parlamentari sul tema dei diritti, aiutandoli nell’analisi dei dati per ogni macroarea e a razionalizzare la spesa per la manovra di bilancio’, ha spiegato  Valentina Calderone, direttrice di ‘A buon diritto’.

Grazie all’interazione tra ricercatori e ricercatrici, associazioni e cittadini, ‘A buon diritto’ si propone di realizzare un vero e proprio ‘Parlamento dei diritti’, un luogo in cui società civile e parlamentari si interroghino e lavorino insieme alla progressione e al riconoscimento dei diritti.

Il manifesto per il ‘Parlamento dei diritti’ al momento è stato sottoscritto da 30 parlamentari…

Le radici della disuguaglianza hanno origine nell’accesso all’istruzione e, i più penalizzati, sono certamente i minori.

Secondo il ‘rapporto sullo stato dei diritti 2022’, il tasso di occupazione dei ragazzi diplomati o laureati da meno di tre anni, è in diminuzione e stimato pari al 56,8% (-1,9 punti rispetto al 2019): il 50,1% tra i diplomati (-2,8 punti) e il 64,1% tra i laureati (-0,8 punti).

L’Italia è penultima tra i Paesi dell’Unione Europea per occupabilità dei giovani all’uscita dagli studi…

Uno dei fattori determinanti nel rendimento scolastico è la classe sociale di appartenenza.

Aver tolto la scuola come luogo fisico di fruizione di cultura, di socialità, di accesso alla conoscenza durante il lockdown ha enormemente penalizzato chi si trova in una condizione di svantaggio.

Per quanto riguarda la dispersione scolastica esplicita, cioè i ragazzi tra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato la scuola dopo aver conseguito la terza media, l’Italia non ha raggiunto neppure l’obiettivo fissato per il 2020 (10%), nonostante i forti miglioramenti degli ultimi anni che ci hanno visto passare dal 19% del 2009 al 13,5% del 2019.

Permane anche la dispersione implicita: il 9,5% degli studenti termina la scuola secondaria di secondo grado con competenze di base decisamente inadeguate.

Nel corso della pandemia si sono persi quasi 700.000 posti di lavoro e il recupero che si è registrato nel 2021 non ha colmato questo gap: nel terzo trimestre del 2021 il numero di occupati complessivo era ancora di 350.000 unità inferiore a quello registrato a fine 2019…

Come evidenzia l’indagine di “A buon diritto”, buona parte dei contratti aperti nel 2021 sono stati a tempo determinato e parziale, mentre aumentano in maniera costante anche i lavoratori poveri: secondo i dati Eurostat l’Italia è al terzo posto in Europa per incidenza di ‘working poors’. 

Più di un milione di persone tra il 2019 e il 2020 è passato da una condizione di precarietà a una di povertà conclamata…

‘Tra i temi più sensibili emersi nel nostro rapporto, c’è sicuramente la salute mentale, un fattore trasversale alle 17 categorie citate nell’indagine: i minori sono quelli che hanno subìto il maggior contraccolpo però’, ha rilevato Marina Calderone.

Un altro luogo ‘sentinella’ all’interno del quale è fondamentale occuparsi di salute mentale è il carcere.

Con il 13% di persone con diagnosi grave e una media del 40% di detenuti che soffrono di un qualche disturbo mentale, gli istituti penitenziari nel nostro Paese scontano una cronica carenza di risorse per una presa in carico di qualità.

‘Il 2022 è l’anno in cui abbiamo registrato il maggior numero di persone che si sono suicidate in carcere. Purtroppo la condizione di sovraffollamento e la scarsa cura della salute mentale influiscono sul tasso di suicidi che, se solo riguardasse la popolazione libera, sarebbe un argomento da prima pagina per mesi’, ha concluso Valentina Calderone.

Mancano spazi, ma anche risorse per il benessere delle persone, perché nonostante l’impegno a ‘destinare almeno il 5% dei fondi sanitari regionali per le attività di promozione e tutela della salute mentale’, approvato dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni nel lontano 2001, in Italia la spesa per la salute si attesta sotto il 3%, dimostrando che in Italia, la serenità non è ancora un diritto, ma una conquista”.

Vorrei sottolineare questo ultimo punto contenuto nell’articolo.

I problemi che riguardano la salute mentale rappresentano la manifestazione più evidente delle notevoli difficoltà attraversate dalla sanità pubblica, che riguardano però anche altri settori, la maggioranza di essi.

La sanità pubblica è sempre più contraddistinta dall’impossibilità di fornire servizi di qualità in tempi brevi, tanto che ormai in molti sono costretti a rinunciare alle cure, non disponendo delle risorse economiche necessarie per rivolgersi alle strutture private (tra l’altro nell’ambito della salute mentale i costi sono tra i più alti e quindi più numerosi sono coloro che o non sono curati o sono curati in modo del tutto inadeguato).

Peraltro tale situazione si manifestava già prima del verificarsi della pandemia ed è peggiorata con la pandemia. Ma oggi quando la pandemia è molto meno pericolosa, miglioramenti significativi nella sanità pubblica non si sono manifestati.

I problemi sono maggiori nelle regioni meridionali ma sono inaccettabili anche nelle regioni del Centro e del Nord.

Le conseguenze negative che si determinano per i ceti sociali più deboli economicamente sono evidenti.

E’ necessaria pertanto l’adozione di provvedimenti che migliorino radicalmente la situazione della sanità pubblica, in tempi brevi. Servono soprattutto maggiori risorse finanziarie.

Ciò non è avvenuto con l’ultima legge di bilancio dove la spesa per la sanità pubblica si è ridotta in termini reali, al netto dell’inflazione.

Certo il nostro debito pubblico è elevato, ma ugualmente si poteva fare molto di più relativamente alla spesa sanitaria pubblica, riducendo le spese previste per altri settori, come ad esempio quelle per le società sportive o quelle per anticipare i tempi per il pensionamento, e aumentando le entrate, soprattutto tramite la riduzione dell’enorme evasione fiscale.

Ciò non è stato fatto.

Forse perché è interesse del governo favorire la sanità privata?


mercoledì 18 gennaio 2023

Immigrazione, 5 proposte della Comunità di Sant'Egidio

 

L’immigrazione in Italia rappresenta un fenomeno senza dubbio molto importante. Il numero dei migranti che sono arrivati nel nostro Paese nel 2022 ha superato le 100.000 unità. Molti sono quelli che sono morti nel Mediterraneo. Sarebbe necessario discutere su come migliorare l’accoglienza mentre l’attuale governo sta cercando solamente di limitare le operazioni di salvataggio realizzate dalle navi delle Organizzazioni non governative.

E’ necessario pertanto affrontare il fenomeno dell’immigrazione in un modo certamente più serio ed approfondito di quanto sta facendo il governo italiano.

Recentemente il presidente della Comunità Sant’Egidio ha avanzato 5 proposte che mi sembrano molto interessanti.

Per questo motivo ho ritenuto opportuno riportarle, in parte.

“..Alcune proposte concrete, che si possono riassumere in 5 punti, aiuterebbero a prosciugare l’irregolarità a vantaggio di tutti.

Prima di tutto una revisione al rialzo del cosiddetto ‘decreto flussi’, cioè la quota di persone che possono entrare ogni anno per motivi di lavoro.

L’ultimo, varato nel dicembre 2021, ha previsto l’ingresso di 69.000 unità allargando la platea dei candidati rispetto agli anni precedenti, ma si tratta di una cifra ancora inadeguata rispetto le esigenze.

In secondo luogo: è giusto privilegiare l’ingresso ai lavoratori che provengono da paesi con i quali l’Italia ha stipulato un accordo di cooperazione, ma ciò dovrebbe avvenire solo in modo prioritario e non esclusivo, altrimenti si preclude questa possibilità a nazionalità che hanno dimostrato un’importante capacità di integrazione e di radicamento come quella peruviana e colombiana, solo per fare due esempi, o che resterebbero nelle mani dei trafficanti di essere umani, come nel caso dell’Eritrea o di altri paesi africani.

Se si vuole davvero contrastare l’immigrazione illegale occorre che l’ingresso regolare venga visto, da chi intende migrare, come un obiettivo raggiungibile.

Terzo: è giusto privilegiare alcuni settori produttivi particolarmente richiesti (come quello dell’autotrasporto, dell’edilizia e del turistico alberghiero) ma non bisogna escludere altre professionalità come quelle che riguardano i servizi domestici o di assistenza alle persone fragili e alle famiglie, per le quali si registra una forte domanda inevasa.

Quarto: stabilizzare la norma del giugno scorso (aggiuntiva al decreto flussi) che prevede di presentare la domanda di assunzione anche per i lavoratori stranieri non residenti ma presenti in Italia. In altre parole, uscendo dal linguaggio burocratico, favorire il prosciugamento degli immigrati che vivono nel nostro paese ma che, per motivi vari, attualmente risultano irregolari. La gran parte di loro lo sono infatti solo per motivi amministrativi e non perché hanno violato la giustizia.

Quinto: introdurre una quota annuale di ingressi per ‘ricerca lavoro’ su chiamata di un ‘prestatore di garanzia’ che assicurerebbe il mantenimento della persona per almeno un anno. 

Il motivo è presto detto: questo meccanismo, sia pure contingentato, permetterebbe a molti parenti già presenti in Italia di far venire alcuni familiari in modo regolare invece che clandestinamente.

Cinque proposte facilmente applicabili perché in sintonia con il nostro sistema normativo e facilmente condivisibili se ci si pone di fronte al fenomeno dell’immigrazione non in modo ideologico ma con risposte concrete che favoriscono l’integrazione e, quindi, la crescita umana, sociale ed economica del nostro paese”. 

Sono d’accordo con Impagliazzo sulla facilità di applicazione delle proposte da lui esposte e sul fatto che esse possono essere ampiamente condivisibili, soprattutto perché sono basate su risposte concrete.

Sarebbe necessario che il governo quanto meno esprimesse la propria posizione su queste proposte.

Per ora ciò non è avvenuto, perché il governo continua ad affrontare il fenomeno dell’immigrazione soprattutto in termini ideologici.

domenica 15 gennaio 2023

Le banche centrali indipendenti ma criticabili

 

Le banche centrali, a partire dalle più importanti quali la Bce e la Fed, per contrastare l’inflazione, da diversi mesi ormai, hanno deciso di aumentare i tassi di interesse. Tale politica è stata oggetto di critiche, alcune più radicabili che mettono in discussione l’opportunità di aumentare i tassi, altre che ritengono eccessivi gli aumenti.

Entrambe queste due categorie di critiche si basano sul fatto che, essendo l’inflazione, almeno in Europa ma in parte anche negli Stati Uniti, un’inflazione da costi o non da domanda, provocata cioè da un aumento dei costi, soprattutto dei prezzi dei prodotti energetici e non da un eccesso di domanda sull’offerta, una politica monetaria che si basi sull’aumento dei tassi di interesse non solo si può rivelare inefficace ma può alimentare l’inflazione, poichè i tassi di interesse sono dei costi per le imprese, e comunque provocare una recessione.

La risposta tipica dei rappresentanti delle banche centrali è che l’aumento dei tassi di interesse si può rivelare utile per combattere l’inflazione perché incide sulle aspettative inflazionistiche, le quali influenzano molto il tasso di inflazione che effettivamente si verifica.

Mi sembra necessario aggiungere comunque che una politica monetaria, come quella che nelle ultime riunioni la Bce sta portando avanti, con la quale non si esplicitano chiaramente quali siano gli obiettivi relativi ai tassi a cui si punta, non incide quanto potrebbe sulle aspettative inflazionistiche..

A questo punto mi sembra doverosa una notazione: le banche centrali devono essere il più possibile indipendenti, nelle loro decisioni, dal potere politico, ma ciò non vuol dire che esse non possano essere criticate perché è dimostrato, prendendo in esame esclusivamente la Bce, che tale Banca centrale ha preso sì delle decisioni corrette e importanti, quali quelle promosse da Mario Draghi quando era presidente della Bce, ma ha compiuto degli errori evidenti quando era presieduta, prima di Draghi, dal francese Trichet.

Circa la validità e la natura delle critiche alle politiche condotte dalle banche centrali, mi sembra utile riportare alcune parti di quanto sostenuto da Stephanie Kelton, ex capo economista della commissione bilancio del Senato degli Stati Uniti,  docente di economia e di politiche pubbliche alla Stiny Brook University, in un’intervista.

“Le banche centrali dovrebbero avere un po’ più di umiltà. Dovrebbero riconoscere che lo strumento dei tassi non è quello giusto per combattere l’inflazione, soprattutto quando è causata da prezzi energetici elevati.

Serve piuttosto un ventaglio di strumenti strategici, in grado di combattere l’inflazione nel medio termine evitando però il dolore di una recessione e il rischio di una crisi fiscale…

Il problema è che gli spread dei titoli di Stato di Italia, Spagna e dei Paesi periferici stanno salendo: questo rischia di spingere questi Stati verso una situazione fiscale insostenibile, costringendoli poi a rigorose politiche di bilancio per ridurre la spesa pubblica che alla fine peggiorebbero lo stato dell’economia. Serve invece tutt’altro: un mix di politiche fiscali e monetarie meglio calibrate…

Una politica energetica, che parta dal price cap e determini veri e propri investimenti nelle rinnovabili, nel medio termine può abbassare il costo dell’energia e dunque l’inflazione. Ma lo Stato può usare soldi pubblici per abbassare i prezzi degli affitti o per calmare il mercato immobiliare oppure per investire in educazione e sanità…

Ma il rischio è che alzando i tassi si crei una crisi dei debiti. In Europa il rischio è concreto. L’obiettivo della politica monetaria deve essere quello di evitare le crisi, non di causarle…

Dico che deve evitare che un rialzo vada a creare una crisi. Un economista francese parla di ‘qualitative tightening’, cioè di ‘stretta qualitativa’. L’idea, che condivido, è che una banca centrale non debba per forza alzare i tassi per tutti, ma solo per quei settori che si stanno surriscaldando. Una politica monetaria selettiva insomma, che alzi i tassi dove serve e magari li tenga bassi per quei settori che invece si vogliono sostenere…”.

mercoledì 11 gennaio 2023

In Birmania 15 milioni di persone soffrono la fame

In Myanmar, il nuovo nome della Birmania, secondo dati forniti recentemente dall’Onu, circa 15 milioni di persone soffrono la fame (gli abitanti nel complesso sono 58 milioni), le vaccinazioni sono crollate a livelli minimi, vi è una feroce guerra civile contro i ribelli, accompagnata da migliaia detenzioni arbitrarie.

Ulteriori informazioni sulla situazione in Birmania vengono riportate dall’agenzia Fides.

“Una crisi umanitaria attanaglia il Myanmar.

Oltre 1,4 milioni di persone sono sfollate in tutto il Paese, a causa del conflitto civile in corso.

Gli scontri armati, aggravati da rigide misure di sicurezza, restrizioni di accesso e minacce contro gli operatori umanitari, continuano a ostacolare le operazioni umanitarie in tutto il Myanmar, afferma l’ufficio dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha).

Secondo fonti di Fides, sono diverse le regioni della nazione in cui si combatte con grande sofferenza dei civili.

In particolare le organizzazioni umanitarie sperano che un accordo informale di cessate il fuoco tra l'esercito di Arakan e le forze armate del Myanmar possa consentire l'assistenza necessaria nel Rakhine e nello stato di Chin, dove l'accesso è stato limitato da settembre.

Gli operatori umanitari sono preoccupati per la nuova legge sulla registrazione delle Ong, recentemente approvata, molto restrittiva, che avrà un impatto negativo sugli sfollati interni.

La ‘legge sulla registrazione delle organizzazioni’, in vigore dalla fine di novembre, limita il modo in cui le associazioni locali possono lavorare con i partner internazionali.

Molte Ong locali non si registreranno, poiché non vogliono, in tal modo, conferire una sorta di legittimità alla giunta militare. La mancata registrazione impedisce, però, di svolgere opera umanitaria, ed è punita con la reclusione fino a cinque anni e una multa di quasi 2.500 euro.

Dato che le agenzie internazionali si affidano alle Ong locali per gran parte di loro interventi e progetti, risulterà molto più difficile fornire in modo indipendente aiuti umanitari…

‘Intanto l'inflazione dei prezzi delle materie prime, anche per cibo e carburante, sta aggravando lo stress socioeconomico sulle comunità, sia nelle aree remote, sia nella città’, notano fonti di Fides in Myanmar.

‘L’assistenza umanitaria oggi in corso è largamente insufficiente’, si nota, in quanto è subordinata alla cessazione delle ostilità tra l'esercito che si scontra sia con le milizie etniche sia con le forze di difesa popolari, nate all'indomani del colpo di stato del febbraio 2021.

‘Attacchi frequenti e indiscriminati, inclusi attacchi aerei e colpi di artiglieria in aree civili, causano vittime e paura diffusa tra i civili. Lo sfollamento continua ad aumentare’, affermano alcuni religiosi contattati da Fides.

Secondo dati Onu, si stima che, in un anno e mezzo di conflitto, siano state distrutte quasi 31.000 proprietà civili, come case, chiese, monasteri e scuole, anche se le cifre sono difficili da verificare. Il livello di distruzione delle proprietà civili, in particolare delle abitazioni, unito al deterioramento della situazione della sicurezza, non fa altro che prolungare lo sfollamento di migliaia di persone.

"La sofferenza è aggravata da pesanti restrizioni all'accesso di aiuti umanitari, anche in zone di grave crisi o per interventi salvavita.

Alla fine di settembre le Nazioni Unite, le Ong e i partner locali, nonostante il contesto operativo ristretto e i finanziamenti limitati, sono riusciti a raggiungere quasi 3,9 milioni di persone in tutto il Myanmar, con particolare attenzione alle zone difficili da raggiungere”, afferma l'Ocha.

“Con il nuovo quadro legislativo questa assistenza sarà notevolmente penalizzata e in molti casi non sarà più possibile, con pesanti ripercussioni sui gruppi più svantaggiati e vulnerabili”.

Inoltre, secondo quanto si sostiene in un articolo pubblicato da “Il Sole 24 ore”, si stima che dal 2021 più di 2.600 persone siano state uccise dalla repressione esercitata dalla Giunta militare al potere,  e 16.600 quelle arrestate.

La Giunta militare, anche grazie al sostegno di Cina e Russia, è diventata dal momento in cui ha assunto il potere, cioè dal febbraio 2021, via via più spavalda e spietata.

Non esita ad annegare nel sangue le manifestazioni di protesta, a perseguitare le minoranze, a lanciare attacchi aerei su villaggi civili sospettati di sostenere la resistenza, compiendo carneficine.

Il vero problema è che quella del Myanmar è una scomoda crisi che molti governi occidentali hanno relegato in secondo piano.

Al di là delle condanne formali, la Giunta militare  non avverte alcuna minaccia reale da parte del mondo esterno.

Per mettere in difficoltà la Giunta, invece, la strada più efficace sarebbe privarla di ogni flusso di denaro, una misura che aggraverebbe l’attuale crisi economica.

Per la Giunta sono indispensabili gli investimenti stranieri ed è qui che entrano in gioco Cina e Russia.

Con le spalle protette da queste potenze, la giunta birmana è consapevole di un fatto: pur con la drammatica crisi umanitaria in corso, il Myanmar non possiede i requisiti per poter uscire dalla liste delle crisi dimenticate o da dimenticare.