domenica 26 febbraio 2023

Un anno dall'invasione russa dell'Ucraìna

 

E’ già passato un anno dall’invasione russa dell’Ucraìna, decisa irresponsabilmente da Putin. Putin non ha ottenuto quello che voleva: una vittoria in poche settimane con la sostituzione del presidente Zelensky.

La resistenza del popolo ucraìno ha stupìto tutti.

L’esercito ucraìno, grazie anche ai notevoli aiuti militari concessi dai Paesi occidentali, ha impedito che le aspettative di Putin fossero soddisfatte.

I russi hanno occupato una parte del territorio ucraìno, ma solo una parte e si sono dovuti anche ritirare da alcuni territori che avevano inizialmente conquistato.

Le vittime sono state numerose e non hanno riguardato solamente i militari dei due eserciti.

La Russia di Putin ha compiuto delle vere e proprie stragi di civili ucraìni. Anche molti bambini sono stati uccisi.

Ed è legittimo sostenere che l’esercito russo si sia reso responsabile di crimini di guerra inaccettabili che dovranno essere adeguatamente puniti.

Anche le conseguenze economiche per i Paesi occidentali provocati dalla guerra sono state pesanti. E’ sufficiente rilevare l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici.

Ad un anno dall’inizio della guerra non si avvertono possibilità concrete di pervenire ad una pace in tempi brevi.

E questo perché Putin non intende cessare la guerra. E le responsabilità della probabile prosecuzione della guerra sono solo sue, non di altri.

Ripeto che sono stati fondamentali gli aiuti militari, oltre che quelli umanitari, concessi dai Paesi occidentali per contrastare l’esercito russo.

Ed è necessario che tali aiuti militari continuino, altrimenti non ci sarà la pace ma solo la vittoria di Putin.

Peraltro, l’invasione russa dell’Ucraìna ha anche rappresentato un attacco alla democrazia occidentale, ai suoi valori, e se Putin non sarà fermato è probabile che estenda le sue mire espansioniste anche ad altri Paesi vicini.

La pace è certamente un obiettivo che tutti auspichiamo.

Ma non si potrà raggiungere la pace se Putin non sarà sconfitto.

mercoledì 22 febbraio 2023

L'insoddisfazione dei medici ospedalieri

 

Secondo un’indagine realizzata dall’Anaao Assomed, un sindacato di medici e dirigenti sanitari, più della metà (56,1%) tra medici e dirigenti sanitari è insoddisfatta delle condizioni del proprio lavoro e 1 su 4 (26,1%) anche della qualità della propria vita di relazione o familiare. Un sintomo inequivocabile di quanto il lavoro ospedaliero sia divenuto causa di sofferenza e di alienazione.                                      

I principali risultati di questa indagine sono stati riportati in un articolo pubblicato su www.quotidianosanita.it.

Questa insoddisfazione cresce con l’aumentare della anzianità di servizio e delle responsabilità, tanto che i giovani medici in formazione (24,6%) si dichiarano meno insoddisfatti dei colleghi di età più avanzata (36,5%), tra i quali si raggiunge l’apice nella fascia di età tra i 45 e i 55 anni, un periodo della vita lavorativa in cui si aspetta quel riconoscimento professionale che il nostro sistema, però, non riesce a garantire.

L’Anaao Assomed rileva: “Possono sembrare risultati scontati, ma oggi più che mai è importante controllare e misurare la temperatura dell’insoddisfazione che serpeggia nelle corsie ospedaliere fra i colleghi riguardo alle condizioni del loro lavoro, anche perchè dal contratto di lavoro ai nastri di partenza attendiamo risposte alle necessità e alle aspirazioni dei medici e dirigenti sanitari del nostro Paese.

Comprendere i motivi di un disagio diffuso, e prospettare possibili soluzioni, può contribuire a rallentare l’esodo dei medici ospedalieri verso il settore convenzionato o privato o verso l’estero, nonchè a evitare forme di ‘uberizzazione’ dell’attività medica che contribuisce a generare contratti a cottimo tanto ricchi quanto poco chiari sulle norme e sulla sicurezza”.

Per quanto riguarda i cambiamenti desiderati nel lavoro, il podio è occupato da incrementi delle retribuzioni con il 63,9 % delle risposte, e da una maggiore disponibilità di tempo con il 55,2%, con una prevalenza del fattore tempo per le donne (39,5%) sugli uomini (47,56%) che invece mirano, in maggiore misura, a retribuzioni più adeguate.

Si evidenzia anche come per gli over 65 (15,8%) sia prioritaria una maggiore sicurezza rispetto ai colleghi più giovani (6,3%). Al contrario, l’esigenza dei giovani di una maggiore disponibilità di tempo per la famiglia e il tempo libero è più alta (37,9 %) rispetto ai colleghi con maggior anzianità di servizio (27,6%).

In generale aumento delle retribuzioni e del tempo libero hanno un peso maggiore nelle aspettative rispetto alla progressione di carriera.

La domanda finale sul futuro del proprio lavoro registra risposte che rappresentano il segnale più inquietante della crisi della più antica professione di cura.

Il 36%, ovvero quasi 1 su 3, specie nelle classi di età tra i 45 e i 55 anni, appare disposta a cambiare il lavoro attuale. Il 20% degli intervistati si dichiara ancora indeciso, segno del fatto che almeno una volta si è interrogato sul futuro della professione e sul suo ruolo all’interno del sistema.

Forte è il rischio che, procedendo la sanità pubblica per la impervia strada del definanziamento e della privatizzazione, vadano ad accrescere le fila delle migliaia di desaparecidos che già oggi abbandonano la professione in cerca di altri lidi o, perché no, di altri lavori.

Se guardiamo alla collocazione geografica, non sorprende che la crisi della professione sia più sentita al Sud rispetto al Nord: si va dal 53,6% del Nord, passando al 56,3% del Centro per finire al Sud e Isole con ben il 64,2% di insoddisfatti.

Ma il dato appare talmente diffuso da configurare quasi una patologia endemica con la quale convivere e per la quale non esiste vaccino o terapia.

Invece la terapia esiste, e non è solo di carattere economico, anche se pesa il fatto che l’Italia spenda solo il 6,1% del Pil per la sanità, la cifra più bassa tra i paesi del G7, ben al di sotto della media europea di 11,3% con il costo della sanità privata pari al 2,3%, poco sopra la media europea.

Per recuperare il gap accumulato con le altre nazioni occorrerebbe un incremento annuo del fondo sanitario nazionale di 10 miliardi di euro.

Ma pesano anche questioni di organizzazione e di scelte politiche, se il sistema di cure universalistico non appare in grado, per come è oggi, di reggere l’onda d’urto di nuove patologie infettive o della epidemia delle patologie croniche che accompagnano il sensibile aumento della aspettativa di vita.

Occorre immaginare - propone l’Anaao Assomed - un nuovo modello che tenga nella dovuta attenzione la presa in carico del paziente, sia cronico che in acuzie, aumentando posti letto e personale, e implementando quella medicina di prossimità che appare oggi sempre più teorica, liberando i professionisti dalla medicina di carta che sottrae tempo alla cura.

Ma, soffrire, e morire, sul lavoro non è un destino, tantomeno stare male può essere accettato come fatto “normale”. Per uscire dalla attuale crisi professionale, il lavoro deve essere vissuto come fattore di cambiamento, mezzo per recuperare la autonomia nel leggere le necessità del paziente, evitando la riduzione a macchina ubbidiente. Al quale riconoscere un diverso valore, sociale e salariale, diverse collocazioni giuridiche e diversi modelli organizzativi che riportino i medici e i dirigenti sanitari, e non chi governa il sistema campando sul lavoro altrui, a decidere sulle necessità del malato.

Serve una profonda riprogrammazione strategica delle politiche sanitarie, un cambio di paradigma che realizzi un netto investimento sul lavoro professionale, che nella sanità pubblica rappresenta il capitale più prezioso. Altrimenti anche il Pnrr rappresenterà l’ennesima occasione perduta.

domenica 19 febbraio 2023

Le importazioni crescono più delle esportazioni

 

Secondo i dati recentemente diffusi dall’Istat, in Italia, nel 2022, le importazioni sono cresciute in misura maggiore rispetto alle esportazioni. Pertanto il saldo della bilancia commerciale è diventato negativo, pari a 31 miliardi, cioè le importazioni sono risultate essere maggiori rispetto alle esportazioni. Nel 2021 era stato positivo, pari a 40 miliardi. Un saldo commerciale negativo non si verificava dal 2011.

A questi risultati relativi all’intero anno 2022 si perviene dopo che l’Istat ha diffuso i dati relativi al mese di dicembre.

Nel dicembre 2022 le esportazioni sono cresciute su base annua del 13,5% in termini monetari mentre in volume si sono ridotte del 2,4%.

Sempre nello stesso mese le importazioni in valore hanno registrato un incremento tendenziale del 7,7% e una riduzione dell’11,4% in volume.

Nel complesso del 2022, le esportazioni sono aumentate del 19,9%, raggiungendo i 625 miliardi, oltre 100 miliardi in più rispetto al 2021.

Ma poiché le importazioni hanno raggiunto, sempre nel complesso del 2022, un valore pari a 655 miliardi, 175 in più rispetto all’anno precedente, si è verificato un deficit commerciale pari a 31 miliardi (nel 2021 invece vi era stato un avanzo di 40 miliardi).

Il deficit commerciale è stato determinato dal deficit energetico, pari a 111 miliardi (nel 2021 era stato pari a 48 miliardi).

Pertanto l’avanzo dell’interscambio di prodotti non energetici (80 miliardi) è stato elevato ma meno ampio rispetto al 2021 (89 miliardi).

Come valutare quindi quanto avvenuto nel 2022 negli scambi commerciali con l’estero?

Un giudizio positivo può essere espresso sull’evoluzione delle esportazioni.

Il valore delle esportazioni ha superato per la prima volta i 600 miliardi, nonostante il 2022 sia stato un anno funestato da ogni genere di ostacolo, tra invasione russa dell’Ucraìna, impennata dei prezzi dei prodotti energetici, aumento del tasso di inflazione e dei tassi di interesse.

E i risultati raggiunti dalle nostre esportazioni sono stati migliori di quelli che hanno caratterizzato diversi nostri Paesi concorrenti.

Ma la crescita delle esportazioni italiane è stata insufficiente, in quanto inferiore rispetto all’aumento molto consistente delle importazioni, aumento che peraltro si è verificato in tutta Europa.

Quindi si è determinato un saldo commerciale negativo che non si verificava dal lontano 2011. Tuttavia esso è il risultato di tendenze temporali diverse.

Infatti, se in estate il passivo si è andato appesantendo, fino a superare i 9 miliardi in agosto, da allora, mese dopo mese, la discesa dei prezzi del gas ha prodotto effetti visibili. A novembre e a dicembre, in particolare, si è prodotto persino un piccolo avanzo (2,4 miliardi), non sufficiente a cambiare il segno della bilancia commerciale ma almeno in grado di contenere il danno.

mercoledì 15 febbraio 2023

Cosa dovrebbe fare il centrosinistra per tornare a vincere

 

Domenica e lunedì si sono svolte le elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia. Vi è stata una netta vittoria del centrodestra. Sono stati confermati quindi i risultati delle elezioni politiche del settembre 2022. Inoltre si è registrato un forte aumento dell’astensionismo. Infatti hanno votato solamente il 40% degli elettori.

Pertanto si è verificata una nuova sconfitta del centrosinistra.

Cosa dovrebbero fare, a mio avviso, i partiti del centrosinistra per tornare a vincere?

Innanzitutto devono presentarsi uniti nelle prossime elezioni, ad esempio in quelle amministrative che si terranno nel 2024.

I 3 partiti che compongono il centrosinistra, il Pd, il movimento 5Stelle e il cosiddetto Terzo Polo dovranno assolutamente allearsi, pur nelle diversità che li caratterizzano.

La necessità di questa alleanza peraltro era stata già dimostrata in occasione delle elezioni politiche del 2022. Se vi fosse stata quell’alleanza avrebbe potuto vincere il centrosinistra, considerando che la legge elettorale in vigore premiava le coalizioni.

Le diversità tra i 3 principali partiti del centrosinistra sono notevoli ed evidenti ma vanno superate. Altrimenti per molti anni ancora e in molte elezioni vincerà ancora il centrodestra.

Del resto anche i partiti del centrodestra sono contraddistinti da posizioni molto diverse, ma in occasione delle elezioni, generalmente, superano le loro differenze e si presentano uniti.

Perché non lo può fare il centrosinistra, perché i principali partiti che lo compongono non superano le loro differenze e non possono presentarsi uniti?

Inoltre, i partiti del centrosinistra devono affrontare davvero il problema del crescente astensionismo.

E l’unico modo per farlo è tentare di essere in maggiore sintonia con la società italiana, soprattutto con le sue componenti che in maggiore misura si astengono.

Ciò significa anche mutare in modo radicale la propria natura, i propri obiettivi che non devono essere rappresentati solamente dalla ricerca e dalla gestione del potere, e rinnovare profondamente i loro gruppi dirigenti, tentando di affrontare i principali problemi del nostro Paese.

Se i partiti del centrosinistra faranno quello che propongo, io credo, i vantaggi non riguarderanno solo loro ma l’intero Paese, perché se si ha un sistema politico contraddistinto da almeno due componenti che possono alternarsi al governo ciò migliorerà la sua efficienza e più facilmente potranno essere affrontati i problemi della società italiana.

domenica 12 febbraio 2023

In Niger sempre più bambini soffrono di malnutrizione

Sempre più bambini nel sud del Niger soffrono di malnutrizione e medici e agenzie umanitarie avvertono che la situazione potrebbe peggiorare quest'anno a causa della crisi climatica, dell'aumento dei prezzi del cibo e dell’incremento di donne e bambini che arrivano per sfuggire alla violenza in Nigeria. Lo afferma Save the Children.

In Niger, dove l'80% della popolazione dipende dall'agricoltura, secondo le agenzie umanitarie che lavorano nell'Africa occidentale e centrale si prevede che quasi 3 milioni di persone - circa il 10% della popolazione - soffriranno la fame nei prossimi sei mesi.

Attualmente, più di 30 milioni di bambini sotto i cinque anni nei 15 Paesi più colpiti dalla crisi alimentare e nutrizionale globale senza precedenti - di cui il Niger e altre due nazioni del Sahel centrale fanno parte - soffrono di malnutrizione acuta e 8 milioni di questi sono gravemente deperiti, la forma più visibile e mortale di denutrizione, secondo le Nazioni Unite, che sottolineano la necessità di progressi più rapidi per affrontare la malnutrizione acuta tra i bambini.

Inoltre, durante una conferenza a Niamey, capitale del Niger, è emerso che la violenza nella regione del lago Ciad, che abbraccia Niger, Nigeria, Camerun e Ciad, ha costretto circa 3 milioni di persone a lasciare le loro case, con intere comunità che vivono in un limbo, incerte se torneranno mai nelle proprie abitazioni.

In un ospedale di Aguié, a 70 km da Maradi, la terza città più grande del Niger, i medici hanno affermato che il numero di bambini ricoverati per malnutrizione lo scorso anno è aumentato del 25% toccando gli oltre 2.300, ma nonostante la maggior parte di loro siano stati curati con successo, ben 175 hanno perso la vita.

Moussa Boubacar, capo della medicina per il distretto di Aguié, ha affermato di temere che i numeri nel 2023 potrebbero essere più alti dopo un altro raccolto deludente, inondazioni improvvise, un aumento dei prezzi dei fertilizzanti che è stato collegato alla guerra in Ucraina e un incremento del tasso di natalità.

Oltre a dover affrontare la crisi alimentare, il Niger è alle prese con un numero crescente di rifugiati, alcuni in fuga da gruppi armati non statali nel nord-ovest della Nigeria. Anche il costo del cibo è aumentato, secondo i commercianti del mercato principale di Maradi i prezzi hanno subito un incremento del 50-75% nell'ultimo anno, in particolare i prodotti di base importati come olio da cucina, riso e zucchero.

Decine di migliaia di persone sono entrate in Niger dal 2019, il governo collabora con l'Unhcr e le altre agenzie umanitarie per allestire e gestire campi profughi chiamati Villages of Opportunity, vicino a Maradi, a 40 km dal confine con la Nigeria. Altri rifugiati vivono in comunità ospitanti. Il Niger ospita attualmente più di 300.000 rifugiati.

I leader di due campi profughi hanno affermato che le persone arrivano costantemente, molte sono donne sole perché i mariti sono stati uccisi o sono andati a cercare lavoro in altri Paesi. Le comunità locali le hanno accolte e ci sono stati anche alcuni matrimoni tra i due gruppi.

“L'escalation della crisi in Niger e nella regione del Sahel centrale è pericolosamente sotto il radar ma l'attenzione internazionale è altrove.

Ogni giorno vediamo sempre più bambini soffrire la fame e la mancanza di cibo nutriente a causa di un insieme di shock climatici ed economici, conflitti in corso e profonda povertà.

I medici stanno lanciando l’allarme, ma gli avvertimenti non vengono ascoltati e le esigenze quest'anno sono destinate ad aumentare ulteriormente. Sempre più persone stanno attraversando i confini del Niger a causa dei tanti conflitti in corso nei Paesi vicini, il Niger è molto accogliente, ma le risorse sono limitate.

Sono necessari maggiori finanziamenti per poter salvare vite umane e garantire che i bambini abbiano un sano inizio di vita, un'istruzione e un’esistenza libera dalla violenza” ha dichiarato Ilaria Manunza, direttrice di Save the Children Niger.

Ed è proprio dal Niger, come da altri Paesi africani in situazioni simili, che provengono una parte consistente dei migranti che tentano di raggiungere l’Italia ed altre nazioni europee.

E non ci si può lamentare del verificarsi di questo flusso di migranti in quanto, come rileva Save the Children, l’attenzione internazionale nei confronti di ciò che avviene in quei Paesi è del tutto insufficiente.

mercoledì 8 febbraio 2023

6 milioni gli italiani all'estero

 

Secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno, sono poco meno di sei milioni gli italiani iscritti all’Aire (anagrafe italiani residenti all’estero), e quindi stabilmente al’estero da oltre 12 mesi, al 31 dicembre 2022, circa un decimo della popolazione residente nel nostro Paese. Rispetto al 2021, gli italiani all’estero sono aumentati del 2,2%, con 127.350 nuove iscrizioni.

Ad emigrare sono soprattutto i giovani. Infatti ogni 100 residenti in Italia con meno di trent’anni 10,7 hanno scelto di trasferirsi all’estero, per un totale di oltre 1,8 milioni di iscritti under 30. In pratica ogni 10 giovani ce n’è un altro che se ne è andato. Un’incidenza che scende a 8,6 ogni 100 tra gli over 60.

Se dunque la pandemia ha in parte frenato i trasferimenti definitivi all’estero, comunque le nuove iscrizioni all’Aire sono aumentate del 12,2% rispetto a prima della pandemia.

E dove vanno gli italiani che abbandonano l’Italia?

Secondo l’ultimo rapporto della fondazione Migrantes, che i cui dati si riferiscono al 2021, il 78,6% di chi è espatriato si è diretto in Europa. E’ qui che vive oltre la metà (54,9%) degli italiani che hanno scelto di trasferirsi stabilmente oltre confine.

Nel 2021 le destinazioni di chi si è iscritto all’Aire sono stati ben 187 Paesi diversi, ma le comunità più numerose di emigrati sono in Argentina (903.000), in Germania (813.650), in Svizzera (648.320), in Brasile (527.901) e in Francia (457.138).

In base agli studi della fondazione Migrantes, aumentano le partenze degli uomini, diminuiscono quelle delle donne e sono quasi azzerate quelle dei minori.

Secondo la sociologa Delfina Licata, referente dell’area ricerca e documentazione della fondazione Migrantes, “Partono soprattutto lavoratori da soli e senza famiglia. Crescono le iscrizioni dei giovani, in particolare dopo la pandemia, e quelle di italiani tra i 30 e i 40 anni, con un’identità professionale già ben definita.

Sono anni che da questi dati emerge la fuga dei giovani come un campanello d’allarme per una società in piena crisi demografica. Di solito partono subito dopo aver ottenuto un titolo di studio, diploma o laurea, in cerca di un percorso professionalizzante da definire oltre confine.

Ma con la pandemia abbiamo visto aumentare il trasferimento all’estero di profili con un’identità ben precisa, che riescono ad ottenere un lavoro grazie a competenze ben definite. In calo invece i progetti migratori più fragili, quelli relativi a persone che ancora vivono nella precarietà e senza contratto. Addirittura nel 2020, in seguito ai lockdown per il Covid, circa in 20.000 sono rientrati in Italia, anche se non si sa ancora se stabilmente”.

Sempre secondo gli studi della fondazione Migrantes, si può rilevare che si parte da tutte le province italiane, ma l’impatto della mobilità diventa “devastante” al Sud, “nelle aree interne e in quelle più ai margini che offrono meno opportunità ai giovani”.

In queste aree rispetto al numero dei residenti l’incidenza degli iscritti all’Aire è più elevata, anche se negli ultimi anni le nuove iscrizioni sono partite soprattutto dal Nord, da alcune zone della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna.

Ma, sostiene Delfina Licata, “Non è detto che a partire siano veneti o lombardi, magari si tratta di persone già emigrate lì in passato da altrove.

E l’aumento da aree metropolitane come Milano e Torino, oppure Venezia e Firenze, va letto come un rimbalzo dopo due anni di blocco dei movimenti, da territori dove università cosmopolite formano da sempre studenti più predisposti a un progetto oltre confine”.

domenica 5 febbraio 2023

Lo sport vale l'1,4% del Pil ma i problemi non mancano

 

Il valore aggiunto complessivo dell’industria dello sport è pari a 24,5 miliardi di euro, circa l’1,4% del Pil. Il dato emerge dall’Osservatorio valore sport realizzato da “The european house Ambrosetti”, in collaborazione con il Comitato olimpico nazionale italiano, l’Istituto per il credito sportivo e Sport e salute

Inoltre la filiera dello sport occupa circa 420.000 lavoratori, pari all’1,6% della forza lavoro del Paese, con un tasso di crescita dal 2012 al 2019 pari al +1,1%, quasi tre volte superiore rispetto all’aumento verificatosi complessivamente, pari allo 0,4%.

Più sport si traduce quindi in valore economico e occupazionale.

L’Osservatorio rileva, poi, un basso livello di investimenti dedicati al settore sportivo che, unitamente alle condizioni delle infrastrutture sportive, non sono allineati agli altri Paesi europei.

L’Italia è il 16° Paese dell’Unione europea per la spesa pubblica dedicata allo sport per singolo abitante, con 73,6 euro pro capite rispetto ad una media europea di 119,5 euro. 

L’Italia è anche terzultima per incidenza della spesa per lo sport sul totale, pari allo 0,5% su una media europea di 0,7%.

Anche le dotazioni infrastrutturali rappresentano una nota dolente. Infatti ci sono solo 131 impianti ogni 100.000 abitanti, rispetto alla media europea di 250 impianti.

In pratica l’Italia ha la metà della dotazione francese e cinque volte meno della finlandese. Pochi impianti e anche vetusti, se si pensa che il 60% delle strutture italiane hanno più di 40 anni. 

Non migliora la situazione della dotazione sportiva scolastica: 6 edifici scolastici italiani su 10 non dispongono di una palestra.

In Italia comunque ci sono tanti campioni e pochi sportivi. 

L’Italia è stato il Paese dei record per lo sport agonistico internazionale nel 2020/21. 

Nel 2021 si è posizionata come 2° Paese al mondo, dopo Usa e prima della Cina, per numero di podi in competizioni sportive ufficiali, ben 283, primo Paese in Europa per record assoluto di medaglie alle Olimpiadi di Tokyo 2022. Anche nel 2022 l’Italia ha registrato trionfi, dai Giochi Olimpici invernali di Pechino, ai XIX Giochi del Mediterraneo in Algeria, fino agli europei di nuoto di Roma.

Ma vi è un paradosso.

Infatti  la popolazione italiana sostiene gli atleti ma non pratica attivamente sport. 

L’Italia è infatti il 4° Paese più sedentario nell’ambito delle nazioni  Ocse tra gli adulti (44,8%), e ultimo considerando i bambini (94,5%).  

Italiani popolo di sedentari, se consideriamo che il livello minimo di attività fisica, secondo le linee guida Oms, è di 150 minuti di pratica sportiva settimanale per gli adulti e 60 minuti al giorno per i bambini.

La cultura dello sport non è molto diffusa in Italia, visto che il 27% degli italiani non pratica sport perché non è interessato, 3 ragazzi su 10 non fanno sport se nemmeno i genitori praticano attività.

C’è poi una scarsa propensione al “multi sport”.

Secondo i dati Istat e Coni, solo 5 discipline sportive raggiungono un bacino d’utenza di almeno il 10% degli sportivi tra la popolazione, mentre tra gli atleti tesserati le prime 5 discipline racchiudono oltre il 50% dei praticanti.

Si fa riferimento a calcio, nuoto, pallavolo, pallacanestro, atletica.

Promuovere la cultura del movimento dovrebbe essere al vertice dell’agenda politica nazionale, per puntare a migliorare il benessere individuale e collettivo della popolazione, unitamente alla qualità della vita media, generando anche un notevole risparmio per il sistema sanitario nazionale. Ma questo non avviene.

L’Osservatorio evidenzia sei “macro-policy”, proposte di sviluppo per il settore: la definizione di una visione di lungo periodo, che è stata chiamata “2050 - Italia in movimento”.

E’utile anche puntare ad un incremento degli investimenti destinati agli impianti sportivi, al loro efficientamento e all’innovazione nel settore.

Il settore deve essere poi dotato di sistemi di rilevazione e monitoraggio delle (multi)dimensioni della pratica sportiva e del settore allargato.

E’ anche utile incentivare offerta e domanda di sport, attraverso la leva fiscale e la semplificazione degli iter burocratici.

Va di pari passo rispetto a tutto il resto, la promozione di uno stile di vita attivo, nelle scuole ma anche nei luoghi di lavoro.

In ultimo, l’Osservatorio evidenza la necessità di attivare una strategia di formazione, sensibilizzazione e comunicazione multilivello sui benefici dello sport.