Secondo un’indagine realizzata dall’Anaao Assomed, un
sindacato di medici e dirigenti sanitari, più della metà (56,1%) tra medici e
dirigenti sanitari è insoddisfatta delle condizioni del proprio lavoro e 1 su 4
(26,1%) anche della qualità della propria vita di relazione o familiare. Un
sintomo inequivocabile di quanto il lavoro ospedaliero sia divenuto causa di
sofferenza e di alienazione.
I principali
risultati di questa indagine sono stati riportati in un articolo pubblicato su www.quotidianosanita.it.
Questa
insoddisfazione cresce con l’aumentare della anzianità di servizio e delle
responsabilità, tanto che i giovani medici in formazione (24,6%) si dichiarano
meno insoddisfatti dei colleghi di età più avanzata (36,5%), tra i quali si
raggiunge l’apice nella fascia di età tra i 45 e i 55 anni, un periodo della
vita lavorativa in cui si aspetta quel riconoscimento professionale che il
nostro sistema, però, non riesce a garantire.
L’Anaao Assomed
rileva: “Possono sembrare risultati scontati, ma oggi più che mai è importante
controllare e misurare la temperatura dell’insoddisfazione che serpeggia nelle
corsie ospedaliere fra i colleghi riguardo alle condizioni del loro lavoro,
anche perchè dal contratto di lavoro ai nastri di partenza attendiamo risposte
alle necessità e alle aspirazioni dei medici e dirigenti sanitari del nostro
Paese.
Comprendere i
motivi di un disagio diffuso, e prospettare possibili soluzioni, può
contribuire a rallentare l’esodo dei medici ospedalieri verso il settore
convenzionato o privato o verso l’estero, nonchè a evitare forme di
‘uberizzazione’ dell’attività medica che contribuisce a generare contratti a
cottimo tanto ricchi quanto poco chiari sulle norme e sulla sicurezza”.
Per quanto
riguarda i cambiamenti desiderati nel lavoro, il podio è occupato da incrementi
delle retribuzioni con il 63,9 % delle risposte, e da una maggiore
disponibilità di tempo con il 55,2%, con una prevalenza del fattore tempo per
le donne (39,5%) sugli uomini (47,56%) che invece mirano, in maggiore misura, a
retribuzioni più adeguate.
Si evidenzia
anche come per gli over 65 (15,8%) sia prioritaria una maggiore sicurezza
rispetto ai colleghi più giovani (6,3%). Al contrario, l’esigenza dei giovani
di una maggiore disponibilità di tempo per la famiglia e il tempo libero è più
alta (37,9 %) rispetto ai colleghi con maggior anzianità di servizio (27,6%).
In generale
aumento delle retribuzioni e del tempo libero hanno un peso maggiore nelle
aspettative rispetto alla progressione di carriera.
La domanda
finale sul futuro del proprio lavoro registra risposte che rappresentano il
segnale più inquietante della crisi della più antica professione di cura.
Il 36%, ovvero
quasi 1 su 3, specie nelle classi di età tra i 45 e i 55 anni, appare disposta
a cambiare il lavoro attuale. Il 20% degli intervistati si dichiara ancora
indeciso, segno del fatto che almeno una volta si è interrogato sul futuro
della professione e sul suo ruolo all’interno del sistema.
Forte è il
rischio che, procedendo la sanità pubblica per la impervia strada del
definanziamento e della privatizzazione, vadano ad accrescere le fila delle
migliaia di desaparecidos che già oggi abbandonano la professione in cerca di
altri lidi o, perché no, di altri lavori.
Se guardiamo
alla collocazione geografica, non sorprende che la crisi della professione sia
più sentita al Sud rispetto al Nord: si va dal 53,6% del Nord, passando al
56,3% del Centro per finire al Sud e Isole con ben il 64,2% di insoddisfatti.
Ma il dato
appare talmente diffuso da configurare quasi una patologia endemica con la
quale convivere e per la quale non esiste vaccino o terapia.
Invece la
terapia esiste, e non è solo di carattere economico, anche se pesa il fatto che
l’Italia spenda solo il 6,1% del Pil per la sanità, la cifra più bassa tra i
paesi del G7, ben al di sotto della media europea di 11,3% con il costo della
sanità privata pari al 2,3%, poco sopra la media europea.
Per recuperare
il gap accumulato con le altre nazioni occorrerebbe un incremento annuo del fondo
sanitario nazionale di 10 miliardi di euro.
Ma pesano anche
questioni di organizzazione e di scelte politiche, se il sistema di cure
universalistico non appare in grado, per come è oggi, di reggere l’onda d’urto
di nuove patologie infettive o della epidemia delle patologie croniche che
accompagnano il sensibile aumento della aspettativa di vita.
Occorre
immaginare - propone l’Anaao Assomed - un nuovo modello che tenga nella dovuta
attenzione la presa in carico del paziente, sia cronico che in acuzie,
aumentando posti letto e personale, e implementando quella medicina di
prossimità che appare oggi sempre più teorica, liberando i professionisti dalla
medicina di carta che sottrae tempo alla cura.
Ma, soffrire, e
morire, sul lavoro non è un destino, tantomeno stare male può essere accettato
come fatto “normale”. Per uscire dalla attuale crisi professionale, il lavoro
deve essere vissuto come fattore di cambiamento, mezzo per recuperare la
autonomia nel leggere le necessità del paziente, evitando la riduzione a
macchina ubbidiente. Al quale riconoscere un diverso valore, sociale e
salariale, diverse collocazioni giuridiche e diversi modelli organizzativi che
riportino i medici e i dirigenti sanitari, e non chi governa il sistema
campando sul lavoro altrui, a decidere sulle necessità del malato.
Serve una
profonda riprogrammazione strategica delle politiche sanitarie, un cambio di
paradigma che realizzi un netto investimento sul lavoro professionale, che
nella sanità pubblica rappresenta il capitale più prezioso. Altrimenti anche il
Pnrr rappresenterà l’ennesima occasione perduta.