mercoledì 28 giugno 2023

L'Italia della sanità spaccata in due

 


L’Italia della sanità si conferma spaccata in due. Metà dei cittadini, infatti, circa 29 milioni, ha la “fortuna” di vivere in otto regioni dove la sanità funziona e l’altra metà, pari ad altrettanti 29 milioni, si trova di fronte a notevoli difficoltà.

Questo è il principale risultato del rapporto 2023. del Crea (centro per la ricerca applicata in sanità) “Le performance regionali”.

Otto le Regioni/Province autonome (di cui tre migliori delle altre) risultano promosse, sette “rimandate” e sei “bocciate” alla prova delle performance 2023, valutate su sei dimensioni: appropriatezza, equità, sociale, esiti, economico-finanziaria, innovazione.

Un quadro che sottolinea la nuova impostazione di ammodernamento dell’assistenza che punta sul territorio e sulla domiciliarità, come prescritto dal Pnrr e dal decreto 77/2022 di riordino dell’assistenza territoriale e che si affianca (suggerendone anche alcuni criteri di implementazione) al nuovo sistema di garanzia per il controllo dei livelli essenziali di assistenza.

L’analisi dei risultati delle Regioni e le relative valutazioni sono state assegnate quest’anno da oltre 100 esperti raggruppati in un “panel multistakeholder” diviso in cinque grandi gruppi: istituzioni, management aziendale, professioni sanitarie, utenti, industria medicale, che hanno anche ideato un sistema di monitoraggio dinamico degli effetti dell’autonomia differenziata, che da oggi è oggetto di valutazione da parte del Crea e dei suoi esperti: oltre ai rappresentanti del panel, il Crea si avvale di docenti universitari nei campi dell’economia, del diritto, dell’epidemiologia, dell’ingegneria biomedica, della statistica medica.

Veneto, Trento e Bolzano hanno ottenuto il miglior risultato 2023 (con punteggi che superano la soglia del 50% del risultato massimo ottenibile, rispettivamente: 59%, 55% e 52%).

Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna, Lombardia e Marche vanno abbastanza bene, con livelli dell’indice di performance compresi tra il 47% e il 49 %.

Ma le buone notizie finiscono qui: se Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Umbria, Molise, Valle d’Aosta e Abruzzo raggiungono livelli di performance abbastanza omogenei, seppure inferiori, compresi nel range 37-43%, Sicilia, Puglia, Sardegna, Campania, Basilicata e Calabria, hanno livelli di performance che risultano inferiori al 32%.

In sostanza la valutazione divide in due l’Italia, con circa 29 milioni di cittadini nelle prime otto regioni che possono stare relativamente tranquilli e altri 29 milioni nelle regioni rimanenti che potrebbero avere serie difficoltà nei vari aspetti delle dimensioni considerate.

Sulle sei dimensioni, a loro volta suddivise ciascuna in tre indicatori - ognuno con un suo peso che ha determinato le differenze finali -, la valutazione degli stakeholder è stata abbastanza omogenea (ma i “voti” più bassi sono stati quelli degli utenti).

Le tre dimensioni appropriatezza, equità e sociale contribuiscano per oltre il 60% alla performance: 24,9%, 22,6% e 15,6% rispettivamente, segue la dimensione esiti (13,9%), le dimensioni economico-finanziaria e innovazione, contribuiscono rispettivamente per il 12,1% e l’11,5 per cento.

Con alcune differenze quantitative, equità e appropriatezza (quest’ultima con l’eccezione dei rappresentanti delle istituzioni) sono nelle prime tre posizioni per tutte le categorie di stakeholder; la dimensione sociale anche, ad eccezione però, dei rappresentanti dell’industria medicale.

Le performance sono chiaramente indicate Regione per Regione nel modo più semplice: i valori degli indicatori sono stati associati a due colori differenti: verde se il valore è migliore della media nazionale e rosso se è peggiore.

Un triangolo rivolto verso l’alto è indicativo di un miglioramento dell’indicatore rispetto al 2019, verso il basso di un peggioramento. L’assenza del triangolo significa una sostanziale invarianza del valore.

Così, ad esempio, il Veneto (Regione che ha ottenuto i risultati migliori) presenta tutti gli indicatori delle prime quattro dimensioni per importanza “verdi”. E solo nella dimensione economico-finanziaria ha due “rossi” per quanto riguarda la spesa sanitaria pubblica e l’incidenza dei consumi sanitari sul totale dei consumi e nella dimensione innovazione non va l’attuazione del fascicolo sanitario elettronico.

La Calabria (la Regione coi risultati peggiori) è quasi tutta “rossa”; su diciotto indicatori, in verde ha solo quelli sull’ospedalizzazione evitabile per malattie croniche (unico nelle dimensioni maggiori), l’indice di salute mentale, la spesa pro-capite standardizzata, l’implementazione della rete oncologica e lo sviluppo del fascicolo sanitario elettronico.

In prospettiva, obiettivo del Crea e degli oltre 100 stakeholder sarà verificare che con l’autonomia differenziata non si generino arretramenti regionali (almeno rispetto ai Lea, ma anche rispetto alla performance complessiva), ovvero che tutte le Regioni procedano in un processo di miglioramento, evitando peggioramenti attribuibili al rischio che l’autonomia diventi più competitiva che cooperativa.

Come? Osservando le variazioni di un nucleo di indicatori “permanenti”, onde permettere l’apprezzamento delle dinamiche in essere, grazie a tre indicatori: il primo, basato sulle variazioni dell’“area” delle performance peggiori regionali, il secondo, sul numero di miglioramenti o peggioramenti di tali performance ed il terzo, sulla diversa dinamica registrata dagli indicatori nelle Regioni a cui sarà stata riconosciuta un’autonomia differenziata in Sanità, rispetto alle restanti.

Nel primo caso l’aspettativa è che, coerentemente con la logica del rispetto dei Lea e del miglioramento complessivo della performance (effetto “traino” descritto nel disegno di legge sull’autonomia differenziata) l’area (rossa nel grafico: gli indicatori sono quelli riportati nelle schede regionali per ogni dimensione) generata fra il valore medio nazionale e i risultati peggiori regionali (ovvero il risultato delle Regioni posizionate in corrispondenza del valore minimo o, in alternativa, del primo quartile della distribuzione) diminuisca negli anni (ovvero crescano i livelli minimi di performance regionali sui singoli indicatori).

Nel secondo, che utilizzando le preferenze sviluppate nell’ambito del progetto “Le Performance regionali”, sia possibile raffinare ulteriormente l’indicatore, elaborando una “area standardizzata” in base ai pesi attribuiti alle diverse dimensioni o ai diversi indicatori prescelti.

La terza necessità emersa dal panel richiede un adeguato investimento per migliorare i sistemi informativi: infatti, spesso i sistemi di monitoraggio adottati nell’ambito del servizio sanitario regionale sono stati costruiti (anche) sulla base della disponibilità dei flussi informativi che, peraltro, sono stati originariamente sviluppati per altre necessità, per lo più di tipo amministrativo.

domenica 25 giugno 2023

Fateci vedere i corpi dei bambini migranti morti

L’ennesima strage dei migranti avvenuta recentemente nel Mediterraneo, vicino alla Grecia, non è stata oggetto della necessaria attenzione da parte delle istituzioni europee, dei governi dei diversi Paesi e nemmeno da parte dell’opinione pubblica. Sono morti anche molti bambini. Una semplice proposta è stata avanzata per contribuire ad accrescere l’attenzione nei confronti di questa strage e delle altre che purtroppo si potranno verificare, ancora, in futuro, spero di no, ovviamente.

La proposta è stata inviata da un lettore de “Il Corriere della Sera”, in una lettera molto significativa, a mio avviso:

“Fateceli vedere, per favore, quei corpicini straziati dei bimbi affogati nel naufragio del barcone in Grecia.

Vorremmo che un sub o un robot entri nel relitto dell’Adriana per farci vedere quelle madri e quei bimbi abbracciati tra loro per sfuggire alla morte, per scambiarsi l’ultimo respiro.

Non vogliamo solo immaginarli.

Non sappiamo più parlarci, non sappiamo più scriverci, sappiamo solo filmare, mandarci selfie delle cose più banali.

Ma ora, il vedere quei filmati, paradossalmente, ci serve. Fateci vedere cosa c’è dentro quella pancia di balena della nave affondata, fateci vedere i corpicini che fluttuano nell’oscurità quasi cercando di uscire dall’ade, fateci vedere i loro capelli fluttuare nell’acqua, che avremmo dovuto accarezzare.

Che il vedere, il filmare, torni alla realtà: non solo imprimere su una memoria magnetica delle immagini, ma far arrivare anche nella nostra memoria questo orrore, per creare il dolore che questi morti innocenti meritano. Un dolore che ci dovrà tormentare.

Dopo la liberazione del campo di concentramento di Buchenwald la popolazione tedesca della vicina Weimar fu obbligata a vedere cosa realmente era accaduto nel campo, corpi decomposti, mucchi di cadaveri, donne e bambini con la loro straziante maschera di morte.

Molti di loro forse sapevano, altri immaginavano, ma tutti avevano fatto finta di nulla.

Anche noi sappiamo perché queste mamme con i loro bimbi fuggono dai loro Paesi, spesso passando in veri e propri campi di concentramento.

Sappiamo e giriamo la testa da un’altra parte.

Fateci vedere quello che c’è nella pancia della nave Adriana, lo dobbiamo a quei bambini che fluttuano nel buio del mare, fluttuano anche per colpa nostra”.

mercoledì 21 giugno 2023

100 milioni in fuga dalle loro case

Oltre 100 milioni di persone sono state costrette a lasciare la propria casa alla ricerca di sicurezza e protezione nel corso del 2022. Sono state 103 milioni in tutto il mondo, cioè un essere umano ogni 77. Dieci anni fa la proporzione era meno della metà: un individuo ogni 167. A dare una spinta notevole a tali fughe l’aggressione di Putin all’Ucraina e i disastri ecologici e ambientali.

Sia l’Unhcr che la fondazione Migrantes concordano sul numero di quanti nel 2022 sono stati costretti a fuggire dalle loro case.

Il 70% di quei 103 milioni hanno cercato rifugio in uno Stato confinante.

Solo una piccola parte intendeva andare in Europa e una porzione ancora minore ci è riuscita.

Per farlo ha dovuto affrontare viaggi lunghi e pericolosi e mettersi in mano ai trafficanti, perché anche coloro che hanno diritto alla protezione internazionale possono varcare le frontiere solo in maniera illegale. I canali di ingresso regolari sono un aspetto residuale dei percorsi migratori.

Nel territorio dell’Unione europea, poi, ci sono Stati che fanno già molto più dell’Italia in termini di accoglienza e asilo.

A fine 2021, prima dello scoppio della guerra in Ucraina, l’Italia ospitava 145.00 rifugiati, la Francia mezzo milione e la Germania oltre 1,2 milioni. A giugno del 2022, nel mezzo della crisi umanitaria dell’Ucraìna, nei tre Paesi c’erano rispettivamente 296.000, 613.000 e addirittura 2.235.000 rifugiati (ucraini inclusi).

La rotta più letale è rimasta quella del Mediterraneo centrale, dove ci sono  state 1.295 persone scomparse su un totale di 1.800 nel Mare Nostrum.

Preoccupa però la “rotta Canaria”: nel 2021 i morti stimati sono stati 1.126, +28% rispetto alle 877 vittime del 2020. Quella rotta, che dalle coste dell’Africa occidentale conduce all’arcipelago spagnolo delle Canarie, ha segnato il record di mortalità relativa: una vittima ogni 20-30 migranti sbarcati.

Alla fine del 2021, la marea umana costretta a scappare dal proprio Paese si attestava attorno agli 89,3 milioni.

Di questi, 27 milioni erano rifugiati, 53 milioni sfollati interni, 4,6 milioni richiedenti asilo e 4,4 milioni i venezuelani fuggiti all’estero.

Per quanto riguarda le richieste di asilo, aumentate dell’11%, invece, gli Stati Uniti sono stati il Paese che ha ricevuto il numero più alto di domande (188.900).

Ogni tre persone che hanno lasciato la propria casa nel 2021, perché in pericolo di vita, almeno due sono scappate dalla guerra in Siria (6,8 milioni), dalla povertà del Venezuela (4,4 milioni), dalla violenza dei talebani in Afghanistan (2,4), o dai conflitti e dalle persecuzioni in Sud Sudan (2,4) e Myanmar (1,2).

Se i minori costituiscono il 30% della popolazione mondiale, il 42% della popolazione globale che fugge è composta da bambini e ragazzi fino ai 17 anni.

Tra i rifugiati su scala globale, 3,8 milioni sono accolti nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che più di una volta ne ha fatto un’arma politica contro l’Europa. Mentre il Libano risulta essere il Paese che ha accolto il numero più elevato di rifugiati pro capite, 1 ogni 8 cittadini libanesi. Il 72% del totale, invece, compresi i rifugiati venezuelani, è accolto in Paesi confinanti con scarse risorse.

Il numero di rifugiati e di sfollati interni che hanno fatto ritorno a casa nel 2021, è aumentato, tornando ai livelli pre-pandemia, con un incremento del 71% dei casi di rimpatrio volontario. Quasi sei milioni di persone hanno fatto ritorno ai propri Paesi di origine nel 2021, e 57.500 rifugiati sono stati reinsediati, due terzi in più rispetto al 2020.

In occasione della giornata mondiale del rifugiato il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

“Circa 100 milioni di uomini, donne e bambini, in tutti i continenti, sono costrette a lasciare le proprie case per trovare protezione contro la persecuzione, gli abusi, le violenze. Il senso di umanità e il rispetto per i più alti valori iscritti nella Costituzione repubblicana impongono di non ignorare il loro dramma

Nel celebrare oggi la Giornata Mondiale del Rifugiato è opportuno ribadire che le iniziative di assistenza a queste persone - e in particolare ai rifugiati che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità - devono essere accompagnate dalla ricerca di un’indispensabile e urgentissima soluzione strutturale di lungo periodo.

Per superare definitivamente la gestione emergenziale di tali fenomeni con un’azione di respiro europeo ed internazionale è indifferibile intervenire sulle cause profonde che spingono un così gran numero di esseri umani bisognosi ad abbandonare i loro Paesi.

Essi meritano opportunità alternative ai rischiosi viaggi che, spinti dalle circostanze, intraprendono in condizioni anche proibitive.

Da sempre l’Italia è in prima linea nell’adempiere all’alto dovere di solidarietà, assistenza e accoglienza, secondo quanto previsto dalla Costituzione per coloro ai quali venga impedito nel proprio paese l’effettivo esercizio dei diritti e delle libertà democratiche.

Della consapevolezza delle numerose sfide che ci vedono protagonisti a difesa dei rifugiati, desidero ringraziare l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, con il quale l’Italia intrattiene intensi vincoli di collaborazione.

Ringrazio altresì il personale delle varie Amministrazioni dello Stato e tutti gli operatori della protezione internazionale e dell’accoglienza che, con grande professionalità e profondo spirito umanitario, si adoperano quotidianamente per alleviare le sofferenze dei rifugiati e garantire loro l’accesso ai servizi essenziali”.

domenica 18 giugno 2023

14 milioni di persone a rischio povertà

 

Secondo un rapporto, recentemente diffuso dall’Istat, nel 2022 la popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale (indicatore composito Europa 2030), ovvero la quota di individui che si trova in almeno una  di tre condizioni (riferite a reddito, deprivazione e intensità di lavoro), era pari al 24,4% (circa 14 milioni e 304.000 persone).

Nel 2022, il 20,1% delle persone residenti in Italia risultava a rischio di povertà (circa 11 milioni e 800.000 individui) avendo avuto, nell’anno precedente l’indagine, un reddito netto equivalente, senza componenti figurative e in natura, inferiore al 60% di quello mediano (ossia 11.155 euro).

Comunque, a livello nazionale, la quota di popolazione a rischio di povertà rimaneva uguale all’anno precedente (20,1%).

Il 4,5% della popolazione (circa 2 milioni e 613.000 individui) si trovava in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale, ossia presentava almeno sette segnali di deprivazione dei tredici individuati dal nuovo indicatore (Europa 2030).

Rispetto al 2021 (la quota era del 5,9%) vi è stata una decisa riduzione delle condizioni di grave disagio, grazie alla ripresa dell’economia dopo la crisi pandemica e l’incremento dell’occupazione e dei redditi familiari.

La riduzione della percentuale di popolazione in condizione di grave deprivazione materiale e sociale è stata marcata al Nord-Ovest e al Centro.

La popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale (indicatore composito Europa 2030), ovvero la quota di individui che si trovava in almeno una  di tre condizioni (riferite a reddito, deprivazione e intensità di lavoro), era pari al 24,4% (circa 14 milioni e 304.000 persone), pressocchè stabile rispetto al 2021 (25,2%).

Questo andamento sintetizza la sensibile riduzione della popolazione in condizione di grave deprivazione materiale e sociale, grazie alla ripresa economica, con una quota di popolazione a rischio di povertà uguale all’anno precedente.

Nel 2022 la riduzione della popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale interessava tutte le ripartizioni ad eccezione del Mezzogiorno, che rimaneva l’area del Paese con la percentuale più alta di individui a rischio (40,6%, come nel 2021).

In questa ripartizione l’indicatore composito rivela un aumento della quota di individui a rischio di povertà (33,7% rispetto al 33,1% del 2021) e il segnale positivo della riduzione della quota di individui che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro (17,1% rispetto al 19,5% del 2021).

A livello regionale si osserva un deciso miglioramento per la Campania e la Sicilia, con la riduzione del rischio di povertà o esclusione sociale, trainato da una sensibile riduzione di tutti e tre gli indicatori (rischio di povertà, grave deprivazione e bassa intensità di lavoro).

Tuttavia, il rischio di povertà o esclusione sociale è aumentato in Puglia, Sardegna e Calabria. In queste ultime due regioni sono peggiorati i tre indicatori e soprattutto è aumentata la bassa intensità di lavoro e la grave deprivazione.

Al Nord vi è stato un deciso miglioramento delle condizioni di vita e dei livelli reddituali delle famiglie. In particolare, il Nord-Est si è confermata la ripartizione con la minore quota di popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale del paese (12,6% rispetto al 14,2% del 2021).

Nella provincia autonoma di Trento, in Emilia Romagna e Veneto si è osservata una forte riduzione del rischio di povertà e nelle ultime due regioni anche della bassa intensità di lavoro. In controtendenza la provincia autonoma di Bolzano, dove è aumentato il rischio di povertà o esclusione sociale.

Il rischio si è ridotto anche nel Nord-Ovest (16,1% rispetto al 17,4% del 2021); in particolare, in Lombardia si è ridotta la grave deprivazione materiale e sociale e in Piemonte sono migliorati i tre indicatori. In Liguria, invece sono aumentati il rischio di povertà e la bassa intensità di lavoro.

Anche al Centro si è ridotta la popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale (19,6% rispetto a 20,4% del 2021), per la riduzione in particolare della grave deprivazione materiale e sociale mentre è aumentato l’indicatore di bassa intensità di lavoro.

A livello regionale, in Toscana sono migliorati tutti e tre gli indicatori, in Umbria si è ridotto il rischio di povertà, mentre nelle Marche e nel Lazio sono aumentati il rischio di povertà e la bassa intensità di lavoro.

Nel 2022 l’incidenza del rischio di povertà o esclusione sociale si è ridotto in particolare per gli individui che vivono in famiglie con cinque o più componenti (31,2% rispetto al 40,7% del 2021) e per le famiglie con tre o più figli (32,7% rispetto al 42,4% del 2021).

Per queste tipologie familiare si sono ridotti il rischio di povertà (a seguito dell’aumento dei redditi) e l’indicatore di grave deprivazione materiale e sociale.

Il rischio di povertà o esclusione sociale si è ridotto anche per le persone sole in età da lavoro con meno di 65 anni (29,5% rispetto al 34,1% del 2021) mentre è peggiorato per le coppie senza figli con persona di riferimento ultra 65enne (15,9% e 12,8% nel 2021).

Il rischio di povertà o esclusione sociale è diminuito, inoltre, per coloro che vivono in famiglie in cui la fonte principale di reddito è il lavoro autonomo (19,9% rispetto al 22,5% nel 2021, grazie al rimbalzo dei redditi) e il lavoro dipendente (17,2%, era 17,7% nel 2021), mentre è rimastoe alto e invariato per coloro che possono contare principalmente sul reddito da pensioni e/o trasferimenti pubblici (34,2% in entrambi gli anni).

Anche per i componenti delle famiglie con almeno un cittadino straniero, che avevano registrato un forte peggioramento durante la pandemia, il rischio di povertà o esclusione sociale si è mostrato in calo (39,6%, rispetto al 44,7% del 2021).

mercoledì 14 giugno 2023

Migliorano le prospettive di lavoro per i laureati

 

E’ stato reso noto, recentemente, il rapporto 2023 sulla condizione occupazionale dei laureati, realizzato dal consorzio interuniversitario Almalaurea. Il rapporto si basa su un’indagine che ha riguardato circa 670.000 laureati di 78 atenei. I dati si riferiscono al 2022.

La rilevazione svolta nel 2022 restituisce un quadro occupazionale sostanzialmente positivo, sia per i neolaureati sia per quanti si sono inseriti nel mercato del lavoro da più tempo, seppure emergano alcuni elementi di criticità.

I principali indicatori esaminati (tasso di occupazione, di disoccupazione, ma anche la quota di contratti a tempo indeterminato) confermano il progressivo miglioramento del mercato del lavoro osservato da diversi anni.

Tale miglioramento si è interrotto esclusivamente nel 2020 a seguito dello scoppio della pandemia da Covid-19, che ha duramente colpito l’economia italiana, alterando le tendenze del mercato del lavoro registrate prima del suo incedere. A ciò si è aggiunta l’instabilità dettata dalla perdurante situazione geopolitica.

Si tratta di elementi che rendono difficile discernere quali variazioni negli indicatori occupazionali siano da attribuire a fattori contingenti e quali, invece, a evoluzioni strutturali del mercato del lavoro.

A tal proposito, tra gli indicatori che mostrano segni di involuzione si evidenzia la retribuzione percepita dai laureati che figura, a causa del recente aumento dell’inflazione, in contrazione rispetto allo scorso anno.

Ad un anno dal titolo, il tasso di occupazione è pari al 75,4% tra i laureati di primo livello e al 77,1% tra quelli di secondo livello.

Rispetto a quanto osservato nella rilevazione del 2021, nel 2022 il tasso di occupazione è aumentato di 0,9 punti percentuali per i laureati di primo livello e di ben 2,5 punti per quelli di secondo livello, confermando il progressivo miglioramento della capacità di assorbimento del mercato del lavoro osservato da diversi anni, che si era interrotto esclusivamente nel 2020 a seguito dello scoppio della pandemia da Covid-19.

Nel 2022, la retribuzione mensile netta a un anno dal titolo è, in media, pari a 1.332 euro per i laureati di primo livello e a 1.366 euro per i laureati di secondo livello.

Il confronto con le precedenti indagini mostra un tendenziale aumento dei livelli retributivi in termini nominali, ossia considerando i valori effettivamente raccolti dalle dichiarazioni dei laureati nelle interviste.

Tuttavia, tenendo conto del mutato potere d’acquisto, determinato dall’aumento dell’inflazione, il quadro restituito si modifica in modo sostanziale: infatti, in termini reali i livelli retributivi hanno subìto nel 2022 una consistente contrazione, interrompendo l’andamento di crescita registrato fino allo scorso anno.

In quanti svolgono un lavoro coerente con gli studi fatti?

Per rispondere a questa domanda Almalaurea considera l’efficacia del titolo, che combina la richiesta (formale o sostanziale) della laurea per l’esercizio del lavoro svolto e l’utilizzo, nel lavoro, delle competenze acquisite all’università.

Nel 2022, si rileva che a un anno dalla laurea il titolo è “molto efficace o efficace” per il 59,3% degli occupati di primo livello e per il 68,7% di quelli di secondo livello.

Nel 2022, a cinque anni dalla laurea, il tasso di occupazione è pari al 92,1% tra i laureati di primo livello e all’88,7% tra i laureati di secondo livello.

Il confronto con la rilevazione del 2021 mostra un tasso di occupazione in aumento di 2,5 punti percentuali tra i laureati di primo livello, mentre risulta sostanzialmente stabile tra i laureati di secondo livello (+0,2 punti percentuali).

Nel 2022, a cinque anni dal conseguimento del titolo, la quota di chi è assunto con un contratto a tempo indeterminato supera la metà degli occupati e raggiunge il 68,2% tra i laureati di primo livello e il 51,1% tra quelli di secondo livello.

E’ assunto con un contratto a tempo determinato il 13,1% dei laureati di primo livello e il 16,6% di quelli di secondo livello. Le attività in proprio riguardano invece il 7,9% dei gli occupati di primo livello e il 16,7% di quelli di secondo livello.

A cinque anni dalla laurea la retribuzione mensile netta è pari a 1.635 euro per i laureati di primo livello e a 1.697 euro per i laureati di secondo livello.

A causa degli elevati livelli di inflazione rilevati nel 2022, anche a cinque anni dalla laurea si osserva una riduzione delle retribuzioni reali rispetto all’analoga rilevazione del 2021: -2,4% per i laureati di primo livello e -3,3% per quelli di secondo livello.

La corrispondenza tra laurea conseguita e lavoro svolto è misurata dall’efficacia del titolo che, a cinque anni, risulta “molto efficace o efficace” per il 67,6% e per il 72,7% degli occupati di primo e secondo livello.

Rispetto all’analoga rilevazione del 2021, i livelli di efficacia risultano in aumento di +1,3 punti percentuali tra gli occupati di primo livello e di +0,6 punti percentuali tra quelli di secondo livello.

Tra i laureati di secondo livello del 2017 intervistati a cinque anni dal conseguimento del titolo si registrano rilevanti differenze tra i vari gruppi disciplinari.

I tassi di occupazione più elevati sono riscontrati per i gruppi ingegneria industriale e dell’informazione, informatica e tecnologie Ict, architettura e ingegneria civile, a cui si aggiungono il gruppo economico e medico-sanitario e farmaceutico.

Per tutti i gruppi citati il tasso di occupazione risulta infatti superiore al 90%.

I livelli occupazionali sono invece inferiori alla media tra i laureati di secondo livello dei gruppi arte e design, letterario-umanistico, giuridico e psicologico (il tasso di occupazione è inferiore all’85,0%).

Tra i laureati di secondo livello sono soprattutto i laureati in informatica e tecnologie Ict e quelli ingegneria industriale e dell’informazione a poter contare, a cinque anni dalla laurea, sulle più alte retribuzioni, con valori superiori a 2.000 euro mensili netti. Risultano invece decisamente inferiori i livelli retributivi dei laureati del gruppo educazione e formazione (1.380 euro) e psicologico (1.406 euro).

A cinque anni dal titolo, i valori più elevati di efficacia sono raggiunti tra i laureati di secondo livello dei gruppi medico-sanitario e farmaceutico, educazione e formazione, agrario-forestale e veterinario e scienze motorie e sportive, tutti con valori superiori all’80%.

Inferiori alla media invece i livelli di efficacia dei laureati dei gruppi politico-sociale e comunicazione (50,3%) e arte e design (57,0%).

domenica 11 giugno 2023

Anche il Pd di Schlein è masochista

Nonostante Elly Schlein sia diventata segretaria del Pd da pochi mesi, negli ultimi periodi, viene sottoposta a critiche di varia natura. Io credo giustamente perché, nonostante, ripeto, siano pochi i mesi passati da quanto ha vinto le primarie per l’elezione del nuovo segretario, alcune scelte io non le condivido e, credo, che non le condividano molti iscritti e elettori del Pd.

A tale proposito, per citare una decisione di Elly Schlein che io considero sbagliata, riporto integralmente un corsivo di Massimo Gramellini, comparso sulla prima pagina de “Il Corriere della Sera” alcuni giorni fa.

“Il sol del tafazzismo

Il nuovo vicecapogruppo alla Camera del Pd, Paolo Ciani, non è iscritto al Pd e ha fatto subito sapere di non avere alcuna intenzione di iscriversi al Pd, anche perchè è già iscritto a un altro partito; inoltre ha votato contro le armi all'Ucraìna, in contrasto con la linea del Pd. Riassunto delle puntate precedenti (mi sta venendo il mal di testa).

Il predecessore del vicecapogruppo del Pd si chiamava De Luca proprio come il presidente della Campania, e non si tratta di un caso di omonimia. Era stato nominato vicecapogruppo in quanto figlio di suo padre e ora è stato degradato per lo stesso motivo, a prescindere dalle sue qualità personali, magari modeste o magari invece notevolissime.

E questo accade nel partito che ogni giorno rinfaccia alla Meloni di muoversi secondo logiche di clan. Dimenticavo: a far fuori il figlio di De Luca per sostituirlo con un non iscritto al PD è stata la nuova segretaria del Pd Elly Schlein, che fino a poco prima di diventarlo, non era iscritta al Pd neanche lei. Chiarissimo, direi.

Non è affatto vero che il Pd è cambiato. Al contrario, rimane una solida certezza, una roccia di puro masochismo che si erge al centro del sistema con immutabile e spavaldo sprezzo del ridicolo.

E non è affatto vero che ha cambiato dieci leader in sedici anni, perchè sono sedici anni che a guidarlo con encomiabile coerenza è sempre lo stesso omino autolesionista immortalato dal comico Giacomo Poretti: il compagno Tafazzi”..

Io condivido in pieno quanto scritto da Massimo Gramellini.

Si potrebbero formulare anche altre critiche al comportamento di Elly Schlein, ma, per ora, può essere sufficiente limitarsi a quanto sostenuto da Gramellini.

mercoledì 7 giugno 2023

In aumento il consumo di suolo

 

Ci si è occupati in misura maggiore del tema del consumo di suolo in occasione delle recenti alluvioni in Romagna. In parte quelle alluvioni sono state attribuite, da alcuni, al notevole consumo di suolo che si è verificato negli ultimi anni nell’Emilia-Romagna.

E’ bene precisare che per consumo di suolo si intende la quantità complessiva di suolo con copertura artificiale, cioè determinata principalmente da costruzioni, residenziali e non, e da infrastrutture, esistente in un determinato anno.

Ed è interessante, quindi, esaminare i principali contenuti del rapporto dell’Ispra (Istituo superiore per la protezione e la ricerca ambientale), da poco reso noto, proprio sul consumo di suolo in Italia,

Infatti, il consumo di suolo in Italia continua a trasformare il territorio nazionale con velocità elevate.

Nell’ultimo anno, il 2021, per il quale sono disponibili i dati, le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 69,1 kmq., ovvero, in media, circa 19 ettari al giorno, il valore più alto degli ultimi 10 anni.

Un incremento che mostra un’evidente accelerazione rispetto ai dati rilevati nel recente passato, invertendo nettamente il trend di riduzione degli ultimi anni e facendo perdere al nostro Paese 2,2 metri quadrati di suolo ogni secondo e causando la scomparsa irreversibile di aree naturali e agricole.

Tali superfici sono sostituite da nuovi edifici, infrastrutture, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio e da altre aree a copertura artificiale all’interno e all’esterno delle aree urbane esistenti.

Una crescita delle superfici artificiali solo in parte compensata dal ripristino di aree naturali, pari quest’anno a 5,8 kmq., dovuti al passaggio da suolo consumato a suolo non consumato (in genere grazie al recupero di aree di cantiere o di superfici che erano state già classificate come consumo di suolo reversibile).

La relazione tra il consumo di suolo e le dinamiche della popolazione conferma che il legame tra la demografia e i processi di urbanizzazione e di infrastrutturazione non è diretto e si assiste a una crescita delle superfici artificiali anche in presenza di stabilizzazione, in molti casi di decrescita, dei residenti.

Anche a causa della flessione demografica, il suolo consumato pro capite aumenta in un anno di 3,46 mq., passando da 359 a 363 mq. per abitante. Erano 349 nel 2012.  

La copertura artificiale del suolo è ormai arrivata al 7,13% (7,02% nel 2015, 6,76% nel 2006) ri-spetto alla media Ue del 4,2%. La percentuale nazionale supera il 10% all’interno del suolo utile, ovvero quella parte di territorio teoricamente disponibile e idonea ai diversi usi.

I valori percentuali più elevati del suolo consumato sono in Lombardia (12,12%), Veneto (11,90%) e Campania (10,49%)

In termini di incremento percentuale rispetto alla superficie artificiale dell’anno precedente, i valori più elevati sono in Abruzzo (+0,78%), Piemonte (+0,37%), Campania (+0,34%) Emilia-Romagna (+0,33%).

La densità dei cambiamenti netti del 2021, ovvero il consumo di suolo rapportato alla superficie territoriale, rende evidente il peso del Nord-Ovest che consuma 2,70 metri quadrati ogni ettaro di territorio, e del Nord-Est (2,45) contro una media nazionale di 2,10. Tra le regioni, la densità del consumo di suolo è più alta in Abruzzo (3,88), Veneto (3,73), Lombardia (3,70) e Campania (3,60).

In termini di suolo consumato pro capite, i valori regionali più alti risentono della bassa densità abitativa tipica di alcune regioni. Il Molise presenta il valore più alto (592 metri quadrati per abitante) quasi 200 in più rispetto al valore nazionale (366), seguita da Basilicata (582) e Valle d’Aosta (564). Lazio, Campania, Liguria e Lombardia presentano i valori più bassi e al di sotto del valore nazionale.

Limitandosi alla crescita annuale, l’Abruzzo (3,27 metri quadrati per abitante), è la regione che presenta i valori più alti, mentre in Liguria si registra il valore più basso (0,26).

Il consumo di suolo è più intenso nelle aree già molto compromesse. Nelle città a più alta densità, dove gli spazi aperti residui sono spesso molto limitati, si sono persi 27 metri quadrati per ogni ettaro di aree a verde nell’ultimo anno.

Tale incremento contribuisce a far diventare sempre più calde le nostre città, con il fenomeno delle isole di calore e la differenza di temperatura estiva tra aree a copertura artificiale densa o diffusa che, rispetto a quelle rurali raggiunge spesso valori superiori a 3 gradi nelle città più grandi.

Il consumo di suolo è meno evidente all’interno delle aree protette (dove si registrano comunque 75 ettari in più nell’ultimo anno) e nelle aree montane.

E’ invece presente all’interno delle aree vincolate per la tutela paesaggistica (+1.270 ettari), entro i 10 km dal mare (+1.353 ettari), in aree a pericolosità idraulica media (+992 ettari), in aree a pericolosità da frana (+371 ettari) e in aree a pericolosità sismica (+2.397 ettari).

Il 25% dell’intero suolo consumato è rappresentato dagli edifici (5.400 kmq.) che continuano ad aumentare costantemente (+1.125 ettari), distribuendosi tra aree urbane compatte (32%), aree suburbane e produttive (40%) e aree rurali (28%). Oltre 310 kmq. di edifici risultano non utilizzati e degradati, una superficie pari all’estensione di Milano e Napoli.

323 ettari nel 2021 sono stati destinati alla realizzazione di nuovi poli logistici, prevalentemente nel Nord-Est (105 ettari) e nel Nord-Ovest (89 ettari).

Le aree perse in Italia dal 2012 avrebbero garantito la fornitura complessiva di 4 milioni e 150.000 quintali di prodotti agricoli e l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua di pioggia che ora, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per la ricarica delle falde e aggravano la pericolosità idraulica dei nostri territori.

domenica 4 giugno 2023

Elly Schlein deve cambiare

 

Prima e dopo la netta sconfitta del centrosinistra nelle elezioni comunali recentemente tenutesi, sono state formulate da esponenti del Pd alcune critiche all’operato della nuova segretaria Elly Schlein.

Io condivido le critiche contenute in un documento denominato “E’ ora di alzare la voce: l’appello dei riformisti alternativi a Schlein”, redatto da Stefano Ceccanti, Enrico Morando e Giorgio Tonini, diffuso prima del secondo turno delle elezioni comunali.

E ho, quindi, ritenuto opportuno riportarlo integralmente.

“La Segretaria Schlein ha pieno diritto di tentare di realizzare la piattaforma politico-culturale e programmatica con cui ha vinto il Congresso del Pd.

Noi, che abbiamo limpidamente avversato quella piattaforma, mettendo in evidenza il rischio di un regresso verso un antagonismo identitario incoerente con la natura stessa del Pd come partito a vocazione maggioritaria, abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di far vivere (e di far percepire all’esterno del partito) una visione, una cultura politica e una proposta programmatica distinta e, per molti aspetti, alternativa a quella di Schlein.

Abbiamo questo diritto, perché la nostra cultura politica (espressione, al pari di quella di cui Schlein è portatrice, di quelle ‘grandi tradizioni che, consapevoli della loro inadeguatezza, da sole, a costituire un nuovo quadro politico di riferimento per la società italiana’, confluiscono nel Pd), è essenziale per comporre quella ideologia democratica che nel nostro tempo sta sprigionando - da Hong Kong all’Iran, dalla Cina all’Ucraina - la sua straordinaria forza emancipatrice.

Così consentendo che ‘democratico’, da aggettivo qualificativo di altre ideologie, diventi un sostantivo sufficiente a se stesso, identificativo di un autonomo progetto di emancipazione. E’ questa la ragione per la quale continuiamo a ritenere che il termine ‘democratico’, proprio perché più comprensivo di ‘socialista’, non possa in alcun modo essere messo in discussione nella denominazione del nostro gruppo parlamentare ed andrebbe esteso anche al partito europeo.

Nel Manifesto dei valori del 2008 (l’unico nel quale continuiamo a riconoscerci pienamente), è l’impegno costituente delle diverse culture del riformismo italiano - fino ad allora disperse in più partiti e quasi sempre minoritarie - ciò che dà un fondamento di cultura politica - l’ideologia democratica in quanto tale - alla funzione che il Pd assegna a se stesso: costituire – per livello di radicamento sociale e di consenso elettorale, per la qualità e la legittimazione della sua leadership individuale e collettiva, per il suo europeismo visionario - il partito asse di una credibile alternativa di governo al destra-centro.

L’effettiva contendibilità di linea politica e leadership è l’indispensabile corollario di questo fondativo pluralismo interno, poiché garantisce al tempo stesso dell’ampiezza della rappresentanza e della capacità di decisione del partito. Per questo sono da evitare come la peste sia le scissioni ad opera di minoranze sconfitte in regolari Congressi, sia le sollecitazioni ad accomodarsi fuori rivolte da maggioranze inconsapevoli ed arroganti a chi non condivide la linea politica e le scelte del leader pro-tempore.

Rendere visibile ed efficace la presenza riformista nel Pd è soprattutto un dovere. Innanzitutto perché questa presenza è in grado di migliorare le performance del partito nella gestione dell’agenda politica, condizionando la Segretaria e la sua maggioranza sulle scelte fondamentali, grazie a concrete proposte di iniziativa politica.

Dopo il Congresso, la Segretaria ha sostanzialmente mantenuto una continuità sul rigoroso posizionamento euroatlantico rispetto all’aggressione russa in Ucraina. Al consolidamento di questa scelta – nel rapporto con il Governo Meloni e con i cittadini italiani - dobbiamo e vogliamo attivamente concorrere, perché la collocazione europea ed atlantica è la prima che definisce l’identità di un partito e la sua visione della funzione dell’Italia nel mondo.

Quando invece Schlein sembra tentata - in tema di riforme istituzionali – dal rifugiarsi nell’Aventino, con il fallace argomento che non si tratterebbe di questione prioritaria nell’agenda del Paese, tocca anoi riformisti un’aperta contestazione di una scelta che - contraddicendo una delle architravi della piattaforma del Pd e, prima ancora, dell’Ulivo del 1996 - finirebbe per trasferire gratuitamente alla destra un patrimonio di riformismo istituzionale costitutivo dell’identità stessa del Partito Democratico.

Se Schlein è timida nel rivendicare ai Governi del Pd o sostenuti dal Pd un primato nella riduzione strutturale del cuneo fiscale sul lavoro che Meloni attribuisce al mini-intervento del suo recente decreto (non strutturale e in larga misura ‘divorato’ dalla mancata neutralizzazione del fiscal drag, in un contesto di elevata inflazione), tocca a noi riformisti - consapevoli che il campo della nostra responsabilità non ha i confini temporali né dell’ultimo né del prossimo Congresso - mettere in evidenza i risultati quali-quantitativi del nostro impegno, anche al fine di impegnare l’intero partito su di un versante su cui il nostro rendiconto non è altrettanto soddisfacente: se i salari italiani sono così bassi, gli interventi di riduzione del prelievo fiscale sugli stessi possono alleviare la pena, ma non possono rimuovere la causa, che si chiama produttività del lavoro e dei fattori che non cresce adeguatamente o non cresce affatto.

La produttività cresce se il sistema pubblico di istruzione si organizza attorno all’obiettivo di garantire formazione di qualità anche ai bambini meno fortunati per il livello di istruzione, di reddito e di patrimonio della famiglia in cui nascono. 

Ma ancora esitiamo a farci i protagonisti della costruzione di un penetrante sistema di valutazione, che favorisca l’introduzione di forti discriminazioni positive a favore di chi si impegna di più e ottiene migliori risultati nelle realtà sociali e territoriali più difficili. Senza valutare tutto e tutti il sistema scolastico non favorisce né la crescita economica, né il superamento della disuguaglianza delle opportunità.

La produttività cresce se cresce la partecipazione delle donne alle forze di lavoro.

Ma nella definizione delle nostre proposte di riforma della tassazione non trova ancora posto l’idea di provare a forzare il cambiamento attraverso una secca riduzione del prelievo Irpef sul reddito da lavoro – dipendente e autonomo – delle donne, così da favorire un mutamento non solo delle convenienze economiche, ma anche degli atteggiamenti culturali verso il lavoro fuori casa.

La produttività cresce se la contrattazione tra le parti, superando le diffidenze e le resistenze di una parte del padronato e di una parte della sinistra sindacale e politica, si concentra, nel quadro costituito dal contratto nazionale, sulla dimensione dell’impresa, del gruppo, della filiera, del distretto, del territorio, là dove la produttività si può davvero misurare.

Una capillare diffusione del confronto/conflitto tra lavoratori e datori di lavoro a questo livello crea l’humus nel quale sviluppare forme nuove (almeno per l’Italia) di democrazia economica - dalla partecipazione agli utili fino all’azionariato dei lavoratori, dal Welfare aziendale alla presenza negli organismi di indirizzo.

Introdurre queste innovazioni è oggi più facile di ieri, perché le necessarie riforme possono contare sulle ingentissime risorse finanziarie del programma Next Generation EU (il motore della politica fiscale espansiva che è mancato ai Governi dell’ultimo decennio), i cui massicci investimenti possono a loro volta sostenere più efficacemente la crescita grazie alle riforme che li accompagnano.

Ma il Governo Meloni rimanda le riforme (a partire da quelle più facili, come le gare per le concessioni balneari); irrita i partner europei non ratificando il nuovo Mes; sembra incapace di incidere nel confronto sul nuovo Patto di stabilità, fino a ieri magistralmente impostato da Mario Draghi tra i capi di governo e da Paolo Gentiloni in Commissione. E diffonde pessimismo sul rispetto dei tempi in fatto di concreta realizzazione degli investimenti.

Un imbarazzante insieme di irresolutezza (abbandonare le sciocchezze sostenute sul Mes nel recentissimo passato è necessario, ma ha costi politici rilevanti), incompetenza e tentazioni di ricorrere allo scaricabarile che apre un’autostrada per un’opposizione che voglia ispirarsi alle effettive priorità del Paese e non ad una identità da testimoniare nel vuoto di iniziativa politica.

Certo, Schlein può ignorare queste sollecitazioni della minoranza riformista e proseguire sulla sua strada, insistendo sulle riforme istituzionali come diversivo e sulla priorità della redistribuzione rispetto alla crescita (nella pretesa che, alla fine, quest’ultima segua la prima, come l’intendenza napoleonica).

Sarà un peccato, perché per questa via il Pd potrà forse recuperare qualche punto percentuale (alle Europee si vota col proporzionale) a danno del M5S, ma non riuscirà a ridurre la distanza rispetto a Meloni sul terreno che conta davvero: la credibilità della proposta di governo.

Il timore di non riuscire a modificare l’orientamento di Schlein non può tuttavia indurci al silenzio rassegnato della fase post-congressuale: c’è una larga parte dell’elettorato di centrosinistra che ha bisogno di un riferimento solido, e oggi non lo trova.

I riformisti del Pd, con una visibile battaglia delle idee all’interno del partito, possono fornirglielo. E’ molto probabile che non si tratterà di una battaglia breve, accompagnata da risultati immediati.

Anche per questo, è indispensabile che cominci subito, prima dell’estate, promuovendo un’occasione di confronto, aperto anche all’esterno del partito, per discutere, aggiornare e rilanciare un’ambiziosa agenda riformista”.