mercoledì 29 giugno 2022

La povertà in Italia ancora troppo diffusa

 

Secondo un’indagine dell’Istat, nel 2021 erano poco più di 1,9 milioni le famiglie in povertà assoluta (con un’incidenza pari al 7,5%), per un totale di circa 5,6 milioni di individui (9,4%), valori stabili rispetto al 2020 quando l’incidenza ha raggiunto i suoi massimi storici ed era pari, rispettivamente, al 7,7% e al 9,4%. La povertà relativa, invece, è aumentata.

La stabilità è spiegabile perché nel 2020 furono maggiori gli effetti economici negativi causati dalla pandemia.

Innanzitutto, ricordo cosa si intende per povertà assoluta e per povertà relativa.

Quando si parla di “povertà assoluta” si fa riferimento alla sopravvivenza, cioè al livello di vita ritenuto il minimo indispensabile. La povertà relativa è appunto “relativa” agli standard di vita prevalenti all'interno di una determinata comunità.

Nel 2021, l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta è cresciuta nel Mezzogiorno (10,0%, da 9,4% del 2020) mentre è scesa in misura significativa al Nord (6,7% da 7,6%), in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%).

Tra le famiglie povere, il 42,2% risiedeva nel Mezzogiorno (38,6% nel 2020), e il 42,6% al Nord (47,0% nel 2020).

Si è ristabilita dunque la proporzione registrata nel 2019, quando le famiglie povere del nostro Paese erano distribuite quasi in egual misura fra Nord e Mezzogiorno.

Anche in termini di individui il Nord ha registrato un miglioramento marcato dell’incidenza di povertà assoluta che è passato dal 9,3% all’8,2% (risultato della diminuzione nel Nord-Ovest dal 10,1% all’8,0% e della sostanziale stabilità nel Nord-Est dall’8,2% all’8,6%) con valori tuttora distanti, però, da quelli assunti nel 2019.

Erano così oltre 2 milioni 200.000 i poveri assoluti residenti nelle regioni del Nord contro 2 milioni 455.000 nel Mezzogiorno.

Facendo riferimento alla classe di età, l’incidenza di povertà assoluta si attestava al 14,2% (poco meno di 1,4 milioni) fra i minori, all’11,1% fra i giovani di 18-34 anni (pari a 1 milione 86.000 individui) e è rimasta su un livello elevato (9,1%) anche per la classe di età 35-64 anni (2 milioni 361.000 individui), mentre si è mantenuta su valori inferiori alla media nazionale per gli over 65 (5,3%, interessando circa 743.000 persone).

Nel 2021, l’incidenza di povertà assoluta era più elevata tra le famiglie con un maggior numero di componenti: ha raggiunto il 22,6% tra quelle con cinque e più componenti e l’11,6% tra quelle con quattro, mentre segnali di miglioramento si sono registrati nelle famiglie di tre (da 8,5% a 7,1%) e di due componenti (da 5,7% a 5,0%).

Il disagio è risultato più marcato per le famiglie con figli minori, per le quali l’incidenza è passata dall’8,1% delle famiglie con un solo figlio minore al 22,8% di quelle che ne hanno da tre in su.

L’incidenza di povertà era invece più bassa, al 5,5%, nelle famiglie con almeno un anziano e si è confermata al 3,6% tra le coppie in cui l’età della persona di riferimento della famiglia è superiore a 64 anni (nel caso di persone sole con più di 64 anni l’incidenza era pari al 5,1%).

L’incidenza della povertà assoluta è diminuita al crescere del titolo di studio della persona di riferimento della famiglia.

Valori elevati si sono confermati per i dipendenti inquadrati nei livelli più bassi (13,3%) e, fra gli indipendenti, per coloro che svolgono un lavoro autonomo (7,8%), mentre nel confronto con il 2020 solamente le famiglie con persona di riferimento un imprenditore o un libero professionista hanno mostrato segnali di miglioramento (1,8% dal 3,2% del 2020).

Si è confermato, inoltre, il disagio per le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione, per le quali l’incidenza è arrivata al 22,6%.

Nel 2021, la povertà assoluta in Italia ha colpito 1 milione 382.000 bambini (14,2%, rispetto al 9,4% degli individui a livello nazionale).

Le famiglie in povertà assoluta in cui sono presenti minori erano quasi 762.000, con un’incidenza del 12,1% (stabile rispetto al 2020).

La cittadinanza ha giocato un ruolo importante nel determinare la condizione socio-economica della famiglia.

Si è attestata a 8,3% l’incidenza di povertà assoluta delle famiglie con minori composte solamente da italiani, mentre è cresciuta al 36,2% (dal 28,6% del 2020) per le famiglie con minori composte unicamente da stranieri.

Gli stranieri in povertà assoluta erano oltre un milione  600.000, con una incidenza pari al 32,4%, oltre quattro volte superiore a quella degli italiani (7,2%).

Il livello raggiunto dalla povertà assoluta nel 2021 (7,5%) è risultata essere tra i più elevati dall’anno in cui si è iniziato a misurare questo indicatore.

Guardando all’ultimo quinquennio, nel 2017 l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta era del 6,9%, in forte crescita sull’anno precedente (6,3%) e nettamente superiore a quella media del quadriennio precedente (2013-2016) quando risultava stabile e pari al 6,1%.

Nel 2021, l’incremento relativamente contenuto della spesa delle famiglie meno abbienti e la crescita più consistente per le famiglie con alti livelli di consumo (che, al contrario, nel 2020, avevano registrato riduzioni più marcate) hanno favorito un aumento generalizzato dell’incidenza della povertà relativa, ampliando la distanza tra le famiglie che spendono di più e quelle che spendono di meno.

Le famiglie in condizioni di povertà relativa erano circa 2,9 milioni (l’11,1%, contro il 10,1% del 2020) per un totale di quasi 8,8 milioni di individui (14,8%, contro il 13,5%).

Anche a livello individuale si è registrata una crescita significativa dell’incidenza di povertà relativa sia in media nazionale (che è tornata ai livelli del 2019 quando era 14,7%).

A livello territoriale, nel Nord l’incidenza di povertà relativa si è attestata al 6,5%, con valori simili nel Nord-Ovest rispetto al Nord-Est (rispettivamente, 6,4% e 6,6%), al Centro era del 6,9% mentre nel Mezzogiorno, dove il peggioramento è stato più consistente, è stata pari al 20,8% dal 18,3% (più vicina al valore del 2019, 21,1%).

Nel 2021, l’incidenza di povertà relativa è cresciuta per le famiglie monocomponente (dal 4,5% nel 2020 al 5,7% nel 2021), sono per lo più persone sole over 65 anni per le quali l’incidenza è aumentata dal 4,4% al 6,6% a livello nazionale.

Tale andamento ha riguardato anche le coppie con persona di riferimento con più di 65 anni (dal 6,8% all’8,4%).

Ancora in sofferenza le famiglie con tre o più figli minori che hanno mostrato un’incidenza di povertà relativa quasi tre volte superiore a quella media nazionale (31,9% contro 11,1%) più elevata anche di quella registrata per le coppie con tre o più figli, non necessariamente minori (28,4%).

Decisamente più contenuto, seppur in crescita rispetto al 2020, il valore dell’incidenza per le famiglie in cui è presente almeno un anziano, che è passato dall’8,0% al 9,7%.

La dinamica dell’incidenza di povertà relativa per le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione ha mostrato valori in crescita (30,1% da 24,4%) e in linea con i livelli del 2019 (30,7%). Analogamente, è peggiorata tra le famiglie in cui la persona di riferimento è ritirata dal lavoro (incidenza che è cresciuta dal 6,7% del 2020 all’8,0% del 2021).

In base alla cittadinanza dei componenti della famiglia, l’incidenza di povertà relativa è aumentata ed era pari al 9,2% per le famiglie di soli italiani (dall’8,6%), ma era tre volte più grande ed è cresciuta molto per le famiglie con almeno uno straniero (30,4% da 26,5%; 32,2% per quelle di soli stranieri che mostravano un valore di 25,7% nel 2020).

domenica 26 giugno 2022

In Etiopia 185.000 bambini malnutriti

Nel 2022, la crisi in Etiopia è cresciuta in complessità ed ampiezza. Nel sud e nell'est del Paese, la siccità prolungata continua a espandersi e a devastare vite e mezzi di sussistenza per circa 8,1 milioni persone. E 185.000 bambini sono colpiti dalla malnutrizione.

In tutta l’Etiopia si stima che quasi 30 milioni di persone, un quarto della popolazione, abbiano bisogno di assistenza umanitaria e tra questi 12 milioni sono bambini.

La malnutrizione acuta grave è una condizione che mette in pericolo la sopravvivenza di bambine e bambini, indebolendo in modo significativo il loro sistema immunitario, con il rischio che ogni ulteriore complicazione sanitaria o infezione si riveli letale.

Nella regione somala dell'Etiopia orientale, una delle più colpite dalla siccità, i tassi di malnutrizione negli ultimi 12 mesi sono aumentati del 64%, con un incremento del 43% solo tra gennaio e aprile 2022.

Negli stessi tre mesi, i casi totali di malnutrizione acuta grave, la forma più letale di malnutrizione nei bambini, hanno raggiunto quasi quota 50.000. 

Gli operatori di Save the Children hanno constatato che, nella zona di Dawa nel Somali, gran parte della comunità nomade pastorale è ormai sull’orlo della fame.

Il numero di persone che si rivolgono ai centri nutrizionali di Save the Children per il trattamento della malnutrizione è aumentato di oltre il 320% da settembre 2021 a gennaio 2022.

Inoltre, si prevede un peggioramento della situazione di malnutrizione estrema a causa dell’aumento del costo dei generi alimentari, in crescita per la svalutazione della valuta etiope e della guerra in Ucraina, mentre il bestiame delle famiglie di pastori continua a perdere valore.

“Soprattutto i più piccoli, stanno sopportando il peso di una crisi straziante. Una siccità prolungata, estesa e debilitante sta indebolendo la loro capacità di recupero già logorata da un conflitto estenuante e da due anni di pandemia Covid-1922”, ha affermato Xavier Joubert, direttore di Save the Children in Etiopia. 

L’associazione chiede urgentemente ai donatori nuovi fondi per rispondere alle esigenze delle bambine, dei bambini e delle loro famiglie in tutta l'Etiopia.

E’ bene sottolineare di nuovo che le prospettive future per la popolazione dell’Etiopia, e soprattutto per i bambini, sono ancora più negative, proprio per la carenza di generi alimenti e per l’incremento dei loro prezzi che saranno causati dalla guerra in Ucraìna.

Ed è necessario aggiungere che gravi problemi alimentari, a causa sempre della guerra in Ucraìna, si verificheranno anche in molti altri Paesi africani.

Ciò dovrebbe indurre Putin a consentire alle navi per il trasporto del grano dall’Ucraìna di partire da questo Paese.

Ma fino ad ora Putin non lo ha fatto e probabilmente non lo farà nemmeno nel prossimo futuro.

Quindi Putin oltre a causare la morte di molti ucraìni, in seguito all’aggressione da lui decisa, sarà il vero responsabile di altre e numerose  morti in Africa e, probabilmente, anche in altri continenti non europei.

mercoledì 22 giugno 2022

Il lavoro minorile molto diffuso anche in Italia

 

In Italia 2,4 milioni di occupati hanno iniziato a lavorare prima dei 16 anni Il lavoro minorile continua ad essere un fenomeno ancora diffuso non solo a livello mondiale, ma anche nel nostro Paese dove tale tematica trova specifica tutela nella Costituzione e nella normativa (L. n. 977/1967). Di tale fenomeno si occupa una ricerca promossa dalla fondazione studi dei consulenti del lavoro.

Per quanto si tratti di un problema diffuso soprattutto nei Paesi in via di sviluppo (l’Ilo - Organizzazione internazionale del Lavoro - stima in 152 milioni i bambini vittime di lavoro minorile nel mondo), anche le economie più avanzate, come la nostra, non ne sono immuni.

Tra il 2018 e il 2019 sono stati accertati dall’Ispettorato del lavoro più di 500 casi di illeciti riguardanti l’occupazione irregolare di bambini e adolescenti, sia italiani che stranieri, di cui la maggioranza nei servizi di alloggio e ristorazione, circa 70 nel commercio all’ingrosso o al dettaglio, e a seguire attività manifatturiere e agricoltura.

Manca comunque una rilevazione sistematica in grado di definire contorni e caratteristiche del fenomeno: l’ultima è stata effettuata da Save the Children nel 2013 e stimava in circa 260.000 i minori di 16 anni interessati da un’esperienza di lavoro.

Quello che è certo è che si tratta di un fenomeno estremamente composito e articolato. Dietro una condizione di irregolarità quale quella del lavoro minorile, si nascondono infatti situazioni che vanno dal vero e proprio sfruttamento a collaborazioni retribuite nell’ambito di attività famigliari, a piccoli ed estemporanei lavori stagionali, frutto della volontà di sperimentare precocemente un’esperienza lavorativa, alla necessità di lavorare imposta dalle condizioni economiche familiari.

In ogni caso lo svolgimento di un lavoro da parte di minori al di sotto dei 16 anni rappresenta un comportamento lesivo dei loro diritti, che finisce per ripercuotersi sulle loro prospettive formative, professionali, sociali e di vita.

Secondo le stime elaborate dalla fondazione studi a partire dai microdati dell’indagine sulle forze di lavoro dell’Istat, si è in presenza di un fenomeno di irregolarità molto diffuso che ha interessato circa 2,4 milioni degli attuali occupati tra i 16 e 64 anni.

Sebbene l’analisi si concentri su un segmento specifico - quanti nel 2020 avevano un’occupazione - escludendo pertanto gli attuali inoccupati dalla rilevazione, consente di offrire uno spaccato interessante, sulle dimensioni, sulle caratteristiche e sull’evoluzione del fenomeno.

Complessivamente il 10,7% degli attuali occupati ha iniziato a lavorare a un’età inferiore ai 16 anni ma, negli anni, tale quota è andata riducendosi, a seguito della crescita dei livelli di istruzione della popolazione, di benessere delle famiglie e sviluppo del Paese.

L’analisi sulla componente giovanile consente di circoscrivere più specificatamente il fenomeno del lavoro minorile, evidenziando non solo le dimensioni e le caratteristiche più recenti, ma anche gli impatti sui percorsi di sviluppo formativi e professionali.

Nel 2020 su 4,9 milioni di occupati con meno di 35 anni, più di 230.000 (il 4,7%) dichiaravano di aver svolto una qualsiasi forma di lavoro retribuita già prima dei 16 anni. La maggioranza (il 64,7%) ha iniziato a 15 anni, mentre più di un terzo, in età ancora più giovane: il 27,7% a 14 anni, il 6,2% a 13 anni e l’1,3% prima dei 13 anni.

Il fenomeno risulta più diffuso tra gli uomini rispetto alle donne.

Tra i primi, la quota di quanti hanno iniziato a lavorare prima dei 16 anni è del 5,6%, tra le seconde del 3,4%: un dato che risente della maggiore propensione degli uomini ad abbandonare gli studi, ma anche di un più significativo coinvolgimento nelle esigenze di sostentamento delle famiglie in condizioni economiche disagiate rispetto alle donne. Complessivamente su 100 giovani con esperienza di lavoro minorile, 70 sono uomini e 30 donne

A livello territoriale, invece, si evidenzia una maggiore diffusione nelle regioni del Nord, dove è il 5% dei giovani occupati ad avere iniziato a lavorare prima dell’età legale rispetto al Mezzogiorno (4,8%) e al Centro (3,8%): un dato questo imputabile alle maggiori opportunità occupazionali offerte dal tessuto produttivo del Nord Italia, in cui la possibilità di iniziare a lavorare precocemente costituisce per molti anche la causa di interruzione del percorso formativo.

Ma quello che emerge con maggiore evidenza dall’analisi è l’impatto che il lavoro minorile finisce per avere sulle prospettive di vita dei giovani coinvolti, differenziandone fortemente i percorsi di formazione e di carriera futuri rispetto a quelli dei loro coetanei, anche in tempi recenti.

Tra gli occupati con meno di 35 anni che hanno iniziato a lavorare prima dei 16 anni, circa la metà (46,5%) consegue al massimo la licenza media, il 10,6% completa il ciclo della formazione obbligatoria, con un diploma secondario di 2-3 anni, mentre il 31,7% ha un diploma secondario di 4-5 anni e solo l’11,2% ha una laurea.

Tra quanti hanno invece iniziato a lavorare in età legale, il 27,3% consegue la laurea, il 47,3% un diploma secondario, e solo il 17,9% si ferma alla licenza media.

Se è evidente la correlazione tra lavoro minorile e abbandono scolastico, che interessa circa la metà dei lavoratori precoci, il fatto che un’altra quota importante riesca comunque a conseguire titoli di studio più elevati, offre uno spaccato molto articolato del lavoro minorile, evidenziando anche situazioni di necessità o volontà, che non collidono con il raggiungimento di livelli formativi più elevati.

Il più basso livello di scolarizzazione influisce poi sui percorsi di carriera.

Coloro che hanno iniziato a lavorare prima dei 16 anni, molto raramente riescono a raggiungere i vertici della piramide professionale: solo il 17% arriva a svolgere una professione imprenditoriale, intellettuale o tecnica mentre si riscontra un valore quasi doppio di quanti, al contrario, iniziano a lavorare più tardi.

Di contro, circa la metà (50,1%) svolge una professione a media-bassa qualificazione: artigiano o operaio specializzato (27,6%), conduttore di impianto o operaio (10,5%), professione non qualificata. Tra quanti non sono stati interessati da esperienze di lavoro minorile tale dato si colloca al 31,2%.

Risulta evidente, quindi, che occorra operare per ridurre le dimensioni del lavoro minorile anche in Italia.

E’ necessario, certamente, intensificare i controlli che, attualmente, sono del tutto insufficienti.

Ma è altrettanto necessario contrastare il fenomeno della dispersione scolastica, una delle principali motivazioni alla base della diffusione del lavoro minorile.

domenica 19 giugno 2022

Non ci sono più gli economisti di una volta...

Si parla spesso del declino del ceto politico, rilevando che gli attuali esponenti dei partiti sono di un livello decisamente più basso rispetto a quelli che operavano qualche decennio fa. Questo è vero ma, secondo me, in Italia si è assistito, da tempo, anche a un declino del mondo culturale, nei diversi settori. E ciò è avvenuto anche in economia. Non vi sono, attualmente, economisti di valore uguale quanto meno a quello di alcuni che svolsero un ruolo di primo piano, diversi anni or sono, dei veri e propri maestri.

Io mi riferisco soprattutto a due economisti, Federico Caffè e Giorgio Fuà. Il secondo l’ho conosciuto personalmente e del primo ho conosciuto alcuni allievi che me ne hanno parlato diffusamente.

Entrambi hanno dato vita ad una vera e propria “scuola”, non formalizzata, di economisti che si sono affermato seguendo proprio i loro insegnamenti.

Entrambi avevano una statura umana altrettanto importante rispetto alla loro statura culturale.

Entrambi si sono occupati di politica economica e cioè del ruolo del governo nel sistema economico e quindi furono molto interessati ai problemi, spesso strutturali, che caratterizzavano, e che spesso ancora caratterizzano, il nostro Paese.

Entrambi hanno avuto esperienze di studio, e non solo, all’estero, ma nonostante questo erano molto legati al nostro Paese.

Entrambi avevano anche competenze in campo matematico e statistico ma ritenevano che seppure occorresse conoscere, da parte degli economisti, i modelli matematico-statistici, non si dovesse fare un uso eccessivo di tali modelli. Le scienze economiche dovevano essere molto di più rispetto a quei modelli che, peraltro, spesso non erano rappresentativi del sistema economico che intendevano rappresentare.

Entrambi erano dei veri e propri “maestri”, nel senso che si occupavano dei loro allievi, della loro crescita.

I due erano molto diversi, caratterialmente. Il primo, Caffè, molto più schivo del secondo, ma entrambi molto disponibili nei confronti degli studenti.

Il primo è diventato molto più noto del secondo, soprattutto per la sua misteriosa scomparsa.

Io sono convinto che ogni economista e anche coloro che si interessano di economia, pur non essendo docenti universitari o ricercatori, dovrebbero leggere i loro libri, quanto meno quelli principali, la cui validità assume sempre notevole rilievo se si vuole interpretare correttamente ciò che avviene anche attualmente nel sistema economico italiano.

Purtroppo, io non vedo alcun loro erede.

Ci sono in Italia molti economisti di valore ma, almeno fino ad ora, non c’è nessuno al quale può essere legittimamente attribuita la “qualifica” di “maestro”.

Nessuno, almeno fino ad ora, ha svolto quel ruolo, così fondamentale, che hanno svolto, Federico Caffè e Giorgio Fuà.

mercoledì 15 giugno 2022

Aumenta ancora l'astensionismo elettorale

 

A mio avviso il risultato più importante del primo turno delle elezioni comunali tenutosi il 12 giugno appena passato è rappresentato dall’ulteriore aumento dell’astensionismo elettorale. Si sono recati al voto infatti il 54,7% degli aventi diritto contro il 60,1% del 2017. E poi per i referendum sulla giustizia hanno votato solamente il 20,9% degli elettori.

Per quanto riguarda i referendum sulla giustizia, i motivi alla base della bassa affluenza sono diversi: la scarsa comprensibilità dei quesiti referendari, la tendenza di coloro che erano contrari a non recarsi a votare per far mancare il quorum (pari al 50% degli aventi diritto), come avvenuto anche nel recente passato in altri casi, la progressiva disaffezione riscontrata nei confronti dei referendum, sia perché si è ricorso allo strumento referendario in misura eccessiva e perché i risultati non sempre sono stati recepiti dal Parlamento, con le necessarie leggi attuative.

A tale proposito, sarebbe opportuno abbassare il quorum per la validità dell’esito dei referendum, ad esempio limitandolo al 50% del votanti in occasione delle ultime elezioni politiche (non lo si può togliere come avviene in Svizzera perché sarebbe necessario cambiare la Costituzione italiana) aumentando nel contempo il numero delle firme necessarie per far svolgere un referendum, attualmente 500.000, mantenendo la possibilità di firmare on line, come avvenuto per i referendum sull’eutanasia e sulla cannabis, referendum peraltro bocciati dalla Corte costituzionale.

Ma, mi sembra più importante l’aumento dell’astensionismo in occasioni delle elezioni, amministrative o politiche che siano.

Tale fenomeno peraltro non riguarda solo l’Italia ma diversi altri Paesi occidentali. Ad esempio sempre il 12 giugno si è svolto il primo turno delle elezioni legislative in Francia al quale hanno partecipato meno della metà degli elettori francesi.

Restando all’Italia, l’aumento dell’astensionismo elettorale è un fenomeno che negli ultimi anni si verifica sempre. In occasione delle elezioni politiche si vota di più di quanto avviene nelle elezioni amministrative ma anche nelle politiche l’astensionismo è crescente.

E l’aumento dell’astensionismo non può essere considerato un fatto fisiologico né può essere valutato positivamente.

Infatti, uno dei pilastri delle democrazie liberali è costituito dalle elezioni che devono essere libere, senza condizionamenti, ma alle quali dovrebbero partecipare in molti.

Ciò, come più volte già rilevato, non sta avvenendo in Italia.

E tale situazione deve essere, necessariamente, valutata negativamente.

Nel determinare l’aumento dell’astensionismo le cause possono essere diverse. Tra l’altro anche il sistema elettorale in vigore.

Ma, a mio avviso, la causa più importante è rappresentata dalla crescente disaffezione nei confronti della politica e, conseguentemente, dalla decrescente rappresentatività dei partiti nei confronti dei cittadini.

Ora, rispetto al passato, anche recente, se ne parla di più del crescente astensionismo.

Però non si attuano gli interventi necessari per contrastarlo efficacemente.

I partiti dovrebbero attivarsi affinchè quegli interventi siano realizzati ma anche i cittadini dovrebbero chiedere e imporre ai partiti la loro adozione, tramite una maggiore partecipazione all’attività politica.

domenica 12 giugno 2022

Il governo Draghi durerà ma...

Periodicamente, negli ultimi mesi, qualche osservatore, non troppo attento credo, ha sostenuto che il governo Draghi non durerà a lungo e comunque non riuscirà a raggiungere il traguardo finale rappresentato dal termine della legislatura, con le elezioni politiche che si dovrebbero svolgere nell’ottobre del 2023.

Chi ipotizza la fine, a breve termine, del governo Draghi, motiva questa tesi con la crescente presenza di contrasti soprattutto fra alcuni partiti che compongono la maggioranza e il presidente del Consiglio.

Che tali contrasti ci siano spesso e che si siano accresciuti negli ultimi periodi, è indubbio.

Ma il governo non cadrà perché non può cadere.

Per vari motivi.

Perché quasi tutti i partiti non vogliono elezioni anticipate, per esigenze interne ad essi.

Perché la situazione economica e quella politica, soprattutto internazionale, non consentono il verificarsi di una crisi di governo, con l’inevitabile interruzione anticipata della legislatura.

In primo luogo, infatti, la guerra in Ucraìna rende indispensabile la presenza di un governo con pieni poteri, anche e non soltanto per gli effetti economici che tale guerra ha provocato e provocherà in Italia.

In secondo luogo, in parte proprio a causa della guerra in Ucraìna, la situazione economica italiana è peggiorata. La crescita economica si è attenuata e l’inflazione si è accentuata.

L’inflazione, soprattutto, è preoccupante. E’ un’inflazione da costi, derivante prevalentemente dall’ aumento dei prezzi dei prodotti energetici, il cui inizio peraltro ha preceduto l’aggressione della Russia di Putin all’Ucraìna.

Occorre quindi contrastare l’inflazione ed inoltre la possibilità che l’inflazione determini, anche se non una recessione economica, una stagnazione.

Pertanto è e sarà necessaria una politica economica molto accorta che da un lato ostacoli l’inflazione e dall’altro impedisca che la crescita economica si attenui, almeno in misura eccessiva.

Una simile politica economica può essere varata esclusivamente da un governo con pieni poteri e presieduto da Mario Draghi, la cui credibilità ed affidabilità a livello internazionale è ancora indispensabile.

Certamente la presenza (inevitabile soprattutto a causa del fatto che non manca molto alla data delle elezioni politiche) di contrasti tra alcuni partiti e le posizioni del presidente del Consiglio su questioni, anche apparentemente secondarie, creerà problemi. Allungherà, ad esempio, i tempi dell’ approvazione di alcune riforme, richieste peraltro dal Recovery Plan, e ne potrà attenuare la loro efficacia.

Ma i partiti che alimentano e alimenteranno quei contrasti si fermeranno almeno un minuti prima di provocare una crisi di governo.

Certo, uno scenario di questo tipo non è fra quelli migliori, per nulla. Impedirà l’approvazione, quanto meno  tempestiva, di decisioni importanti da parte del governo.

Ma una crisi di governo sarebbe ancora peggiore.

Questo passa il convento, purtroppo.

mercoledì 8 giugno 2022

Abolire il carcere

 

Abolire il carcere. Questo è il titolo, di un libro recentemente pubblicato e scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Tra l’altro gli autori si pongono la seguente domanda: “Non ci appare stupefacente che in tanti secoli l’umanità che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita a immaginare nulla di diverso da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?

La prefazione è scritta dall’ex magistrato Gherardo Colombo che riporto integralmente.

“Taglio laico, intento dimostrativo. Questo libro vuol far vedere che è giusto abolire il carcere e che è possibile farlo. Per darne, appunto, dimostrazione, espone le tematiche di maggior rilievo in modo chiaro e comprensibile a tutti.

E sufficiente scorrere l’indice per constatare quanti sono gli aspetti che entrano in gioco per rispondere alla domanda: è opportuno, è necessario, occorre abolire il carcere?

Ecco dunque le pagine dedicate alla ricostruzione storica, che mostrano come solo da anni relativamente recenti la pena per antonomasia consista nella reclusione; quelle che descrivono cosa è il carcere oggi e quali effetti provoca; quelle che ragionano sulla sua sostanziale inutilità per garantire la sicurezza dei cittadini, e sul suo effettivo contributo a renderla più problematica.

Ecco i paragrafi sulle contraddizioni di cui il carcere vive; sul conflitto permanente di cui si nutre tra le ‘guardie’ e i ‘ladri’, gli appartenenti alla polizia penitenziaria da una parte e i detenuti dall’altra; sulle tragedie che provoca, difficilmente descrivibili (ma gli autori ne descrivono non poche), che hanno come uno dei più drammatici prodotti la frequenza dei suicidi (nei detenuti è, in media, 17-18 volte quella delle persone libere, e anche negli appartenenti alla polizia penitenziaria è superiore alla media nazionale); sul costante disconoscimento reciproco, che presenta raramente eccezioni.

E ancora, ecco le puntuali note sulla irrazionalità di un sistema che costa nell’anno in corso (2022) quasi 3 miliardi e 200 milioni di euro, per gestire circa 55.000 detenuti con una spesa giornaliera di circa 160 euro a detenuto - faceva argutamente notare un ospite di un istituto di pena milanese: ‘Me ne dessero la metà sicuramente smetterei di delinquere’ - ottenendo come risultato finale che meno di un terzo di chi dal carcere esce non ci ritorna di nuovo per aver commesso un altro reato. Ecco le osservazioni sulle contraddizioni, spesso gravi, tra quel che sta scritto nella Costituzione e la realtà del carcere.

Il testo è molto ricco, pur rimanendo la sua consultazione agile e rapida.

Tutti gli argomenti costituiscono la base, gli ingredienti per rispondere alla domanda iniziale, la domanda essenziale, quella che dà senso a tutto il lavoro: ‘Possiamo fare a meno del carcere?’, da cui il titolo del libro, Abolire il carcere. Si tratta cioè di verificare se questa espressione così forte (e così generatrice di timori in tante persone) sia davvero praticabile: si può abolire il carcere?

Se ciò non fosse, se non si potesse fare a meno del carcere, il testo si risolverebbe in una lamentela, certo giustificata sotto tanti profili, ma sterile quanto al raggiungimento dell’obiettivo finale, quello appunto dell’eliminazione del sistema penitenziario.

Se il carcere non si può abolire, è inutile porsi lo scopo di eliminarlo; si potranno svolgere attività dirette a migliorarlo, a renderlo più umano, più efficace; ma il carcere non potrà essere sostituito proprio perché ineliminabile. Mi pare evidente che la risposta richieda di chiarire la materia.

Ciò di cui si prospetta l’abolizione è il carcere così come è praticato, come funziona, come vi si vive oggi: appunto una macchina da oltre tre miliardi di euro (quante imprese in Italia hanno un bilancio del genere?) applicata a circa 55.000 persone che mediamente vivono in circa tre metri quadrati a testa, nella cosiddetta camera di pernottamento (che, cambiato il nome, corrisponde per il resto, nella generalità dei casi, allo spazio fino a poco tempo fa denominato cella).

Una macchina dove la cura dell’igiene dipende spesso dai volontari; dove il lavoro, per quanto si vada a piccoli passi verso un miglioramento, non è garantito alla gran parte di chi vi vive, dove la cura dell’istruzione è molto approssimativa, e via dicendo (e ci sarebbe molto altro da dire).

Gli autori, dopo avere esposto con grande chiarezza le ragioni dell’abolizione, precisano in che cosa questa debba consistere.

L’abolizione è illustrata attraverso dieci punti, racchiusi nel penultimo capitolo, dal titolo ‘Per abolirlo davvero’.

Se si leggono i dieci punti, le persone perplesse, e una parte consistente di quelle che si indignerebbero e/o si spaventerebbero anche solo a sentir parlare di abolizione del carcere, converrebbero che la cosa si può fare: cito soltanto tre dei dieci punti: il carcere residuale; niente carcere prima del giudizio; diritti in carcere.

Se si parla di carcere residuale, di diritti in carcere, se si esclude che in carcere si possa andare prima del giudizio, si dice che il carcere continuerà a esistere anche dopo la sua ‘abolizione’.

Il fatto è che se si realizzasse tutto quel che gli autori propongono il carcere che ne uscirebbe sarebbe così diverso da quello attuale che il nome che ora usiamo per definirlo non lo identificherebbe più.

Il ‘carcere’ incomincerebbe finalmente a svolgere la sua funzione di tutela della collettività, senza però tradire la Costituzione e cioè senza privare coloro che vi sono ristretti dell’esercizio dei loro diritti fondamentali, che con la tutela di tutti non confliggono.

Un carcere davvero residuale, nel quale siano ristrette le persone nei cui confronti non possano essere usate misure alternative (delle quali ora ne sono previste alcune, che già potrebbero incidere notevolmente anche nella riduzione della popolazione carceraria, ma nulla vieta se ne possano introdurre altre, come si suggerisce ampiamente) senza mettere a rischio la sicurezza della cittadinanza; un carcere che non sia il succedaneo, il surrogato molto approssimativo e assai negativo dell’assistenza e delle cure che dovrebbero essere dedicate alle persone malate; un carcere che garantisca lo spazio vitale, ora spesso da noi violato non soltanto per quel che riguarda le camere di pernottamento ma anche gli altri luoghi nei quali dovrebbe svolgersi la vita dei detenuti; un carcere che curi l’igiene, l’istruzione, la cultura, e si preoccupi di garantire anche il diritto alla affettività.

Un carcere che non uccida la speranza di coloro che vi sono reclusi sapendo di poter uscire solo da morti, e la speranza di tutti noi che l’essere umano, qualsiasi atrocità abbia commesso, possa tuttavia cambiare e riprendere a intrattenere relazioni libere e positive con il resto del mondo.

Io, vi confesso, sarei andato ancora più in là: avrei proposto di svincolare completamente il carcere dalla natura e dalla gravità del reato, e di legarlo esclusivamente alla pericolosità: in carcere ci sta solo chi è pericoloso e solo per il tempo in cui è pericoloso.

Gli autori sono più giudiziosi, tengono i piedi ben fermi per terra, non pensano all’azzardo di abolire del tutto il carattere retributivo della pena (anche se ci vanno vicino) e si rendono conto (su questo li seguo anch’io) che le modifiche che propongono, così significative, non possono essere introdotte dall’oggi al domani.

Credo possa continuare a spaventare l’idea dell’abolizione dell’ergastolo, che gli autori pure sostengono (e che mi vede completamente d’accordo): ritengo tuttavia che condividerebbero, ove si arrivasse a escludere la pena perpetua, l’introduzione di misure che impediscano, a chi continui a essere pericoloso, una volta scontata la pena, di riprendere a fare del male a chi gli sta intorno”.

domenica 5 giugno 2022

5.000 comuni senza sportelli bancari

 

Nel corso del 2021 si è registrata una forte riduzione del numero degli sportelli bancari attivi sul territorio italiano, da 23.481 di fine 2020 ai 21.650 a fine 2021 (ben 1.831 sportelli chiusi in un solo anno). La diminuzione ha riguardato tutte le regioni italiane e sono ben 4.902 i comuni italiani che non hanno neanche uno sportello bancario nei propri confini. Al Sud, dove la presenza fisica degli istituti sul territorio era già molto ridotta, si registra la minore presenza pro capite di sportelli che sono concentrati solo nei grandi centri.

Questi dati sono contenuti nel “focus” dell’osservatorio del terziario di Manageritalia.

Nell’Italia meridionale si è passati dai 30 sportelli ogni 100.000 abitanti del 2015 ad appena 23 sportelli del 2021.

Nello stesso periodo in Italia gli sportelli sono passati dai 48 ogni 100.000 abitanti del 2015 ai 35 nel 2021, con una maggiore densità nel Nord-Est in cui nell’ultimo anno si registrano ancora 49 sportelli attivi ogni 100.000 abitanti (ma erano 69 nel 2015).

Negli ultimi anni il sistema bancario italiano ha ridotto significativamente la sua presenza fisica sul territorio per una molteplice serie di fattori, che hanno influenzato le scelte relative alla presenza degli istituti nei diversi territori.

Innanzitutto l’avvento di internet e dell’home banking ha spinto gli istituti di credito a chiudere sportelli e a spostare online una grossa parte dei servizi offerti, basti pensare che tra il 2004 e il 2020 la quota di individui che utilizzano servizi bancari online in Italia è aumentata da meno dell’8% al 40%.

Le banche italiane, poi, hanno definito la presenza territoriale degli sportelli in funzione dell’attività economica delle imprese nel territorio e non in funzione della maggiore o minore popolazione.

Così il Nord-Est del Paese è l’area a maggiore densità di sportelli in relazione alla popolazione, anche grazie alla grossa quota di mercato che Banche di credito cooperativo e Casse Rurali -tradizionalmente molto presenti sul territorio - rivestono in queste zone.

Nel Sud invece gli istituti di credito mantengono aperti la metà degli sportelli in rapporto alla popolazione rispetto al Nord, anche a causa della minore presenza di istituti e delle dimensioni medio grandi degli operatori bancari con una minore differenziazione dell’offerta.

Il presidente di Manageritalia, Mario Mantovani, ha commentato così i dati dell’Osservatorio: “Il credito bancario riveste una funzione essenziale nel finanziamento delle imprese, soprattutto all’inizio del loro ciclo vitale.

Un numero di sportelli ridotto e la scarsa presenza sul territorio degli istituti generano difficoltà di accesso al credito per le imprese e minori possibilità di creare un rapporto fiduciario forte e stabile tra banche e imprenditori”.

Inoltre una ulteriore conseguenza provocata dalla riduzione del numero degli sportelli  è rappresentata da un aumento del costo del credito nei territori dove minore è la presenza degli sportelli.

Infatti, meno filiali significa meno concorrenza a livello locale nel mercato del credito, con la possibilità di esercitare un maggiore potere di mercato da parte di quelle (poche) banche che operano su territori già poco serviti.

E la minore presenza di sportelli è uno dei motivi che determina il più alto costo del credito che si registra nelle regioni meridionali.

Nel Sud e le Isole si osservano costi medi di finanziamento della liquidità più alti di oltre il 2% rispetto al Nord e una minore disponibilità di credito in rapporto all’occupazione.

Il costo dei prestiti per esigenze di liquidità (Tae) nelle regioni del Nord e del Centro è inferiore al 3,5% del finanziamento, mentre nelle regioni del Sud il costo del credito arriva fino al 7%.

Nel 2021 la differenza media fra i tassi richiesti nel Nord-Est e nel Meridione si è attestata oltre i 2 punti percentuali, con tassi inferiori al 3% in Veneto e Trentino e superiori al 4% in Campania e Basilicata, vicini al 7% in Calabria, che vanta il triste record di regione più cara d’Italia per il costo dei finanziamenti bancari alle imprese.

Quindi, sebbene siano validi i motivi alla base della riduzione complessiva del numero degli sportelli bancari, non altrettanto quelli che determinano una minore presenza degli sportelli nel Sud, area nel quale sarebbe necessario intensificare la crescita economica, anche per ridurre i divari esistenti con il resto del Paese, obiettivo reso più difficile dall’insufficiente presenza di sportelli bancari.

Si deve aggiungere che anche le famiglie sono danneggiate dalla riduzione degli sportelli bancari. Si sono persi degli importanti presidi economici per i comuni più piccoli.

Certamente è ancora più ingiustificabile la riduzione del numero degli uffici postali, gestiti da una società di proprietà pubblica, anch’essi presidi di notevole rilievo per i comuni più piccoli, riduzione che si è accompagnata a quella degli sportelli bancari.

Occorrerebbe promuovere un’inversione di tendenza, quanto meno per uniformare la presenza di sportelli bancari in tutte le regioni, eliminando così le disparità che contraddistinguono quelle meridionali.

In questo caso si potrebbe verificare la possibilità che siano concessi sussidi pubblici per favorire quell’inversione di tendenza.

Del resto, si sta già assistendo al manifestarsi di flussi migratori dai centri più grandi a quelli più piccoli, che devono essere valutati positivamente,  e che nel prossimo futuro si potrebbero intensificare, flussi che sarebbero ostacolati da un’insufficiente presenza di servizi, anche quelli bancari e postali.