giovedì 29 ottobre 2020

All'estero 5,5 milioni di italiani

 

E’ stata resa nota la quindicesima edizione del “rapporto Italiani nel Mondo”, curato dalla fondazione Migrantes. E’ articolato in quattro sezioni: flussi e presenze; speciale Province d’Italia; l’Italia della mobilità: dai costi alle risorse, dalle partenze ai rientri, dall’inverno demografico alla primavera italiana; gli italiani in Europa e la missione cristiana.

Il volume raccoglie le analisi socio-statistiche delle fonti ufficiali, nazionali e internazionali, più accreditate sulla mobilità dall’Italia.

La trattazione di questi temi procede a livello statistico, di riflessione teorica e di azione empirica attraverso indagini qualitative e quantitative.

In questa edizione ci si misura con il dettaglio territoriale provinciale unendo l’analisi dei dati più recenti a quella degli ultimi quindici anni, periodo che rappresenta il lungo percorso compiuto dal presente progetto editoriale e culturale dedicato dalla fondazione Migrantes alla mobilità italiana.

Al 1° gennaio 2020 la popolazione residente in Italia era composta di 60.244.639 persone.

Alla stessa data gli iscritti all’Aire (anagrafe italiani residenti all’estero) erano 5.486.081, il 9,1%.

In valore assoluto si sono registrate quasi 198.000 iscrizioni in più rispetto all’anno precedente (variazione 3,6%).

Se a livello nazionale la popolazione residente si è ridotta di quasi 189.000, gli iscritti all’Aire sono aumentati nell’ultimo anno del 3,7% che diventa il 7,3% nell’ultimo triennio.

Tutti i contesti regionali con due sole eccezioni (nel 2019 erano quattro) - la Lombardia e l’Emilia-Romagna - perdono abitanti mentre gli iscritti all’Aire crescono in tutte le regioni.

La presenza italiana nel mondo è soprattutto meridionale (2,6 milioni, 48,1%) di cui il 16,6% (poco più di 908.000) delle Isole; quasi 2 milioni (36,2%) sono originari del Nord Italia e quasi 861.000 (15,7%) del Centro.

Scendendo al dettaglio provinciale, il primo territorio che si contraddistingue, con 371.379 iscritti, è quello di Roma e, a seguire, due province “minori” - Cosenza (178.121) e Agrigento (157.709) - rispetto ai successivi luoghi che comprendono nuovamente le metropoli più grandi e, allo stesso tempo, i capoluoghi di regione come Milano (149.000), Napoli (quasi 146.000), Salerno (144.000) e Torino (quasi 132.000).

Il dettaglio comunale, invece, riporta nelle prime posizioni per numero di iscritti all’Aire, solo le città italiane più grandi, tutte capoluoghi di regione: nell’ordine, Roma, Milano, Torino, Napoli, Genova e Palermo.

La presenza italiana nel mondo si conferma soprattutto europea.

Il Vecchio Continente con il 54,4% degli iscritti Aire, quasi 3 milioni - di questi, 2,2 milioni residenti nei paesi dell’Ue - registra i numeri più consistenti.

A seguire, l’America con il 40,1% (oltre 2,2 milioni) e soprattutto l’America centro-meridionale (32,3%, oltre 1,7 milioni) mentre il 2,9% (158.000) si colloca in Oceania.

Infine, oltre 73.000 presenze si registrano in Asia e poco più di 70.000 in Africa (entrambe 1,3%).

Le comunità più consistenti sono, nell’ordine, quella argentina (869.000), tedesca (785.088), svizzera (633.955), brasiliana (477.952), francese (434.085), inglese (359.995), statunitense (283.350) e belga (274.404).

Seguono nazioni - Spagna, Australia, Canada, Venezuela e Uruguay - con comunità al di sotto delle 200.000 unità e, dal Cile in poi, Paesi al di sotto delle 62.000 unità.

Da gennaio a dicembre 2019 si sono iscritti all’Aire 257.812 cittadini italiani (erano poco più di 242.000 l’anno prima) di cui il 50,8% per espatrio, il 35,5% per nascita, il 6,7% per reiscrizione da irreperibilità, il 3,6% per acquisizione di cittadinanza, lo 0,7% per trasferimento dall’Aire di altro comune e, infine, il 2,7% per altri motivi.

In valore assoluto, quindi, nel corso del 2019 hanno registrato la loro residenza fuori dei confini nazionali, per solo espatrio, 130.936 connazionali (+2.353 persone rispetto all’anno precedente).

In soli 4 anni le peculiarità di chi parte dall’Italia sono completamente cambiate più volte.

Se dal 2017 al 2018 è stato riscontrato un certo protagonismo degli anziani, nell’arco degli ultimi quattro anni si rileva una crescita nelle partenze di minori dai 10 ai 14 anni (+11,6%) e di adolescenti dai 15 ai 17 anni (+5,4%), ai quali si uniscono i giovani (+9,3% dai 18 ai 34 anni) e gli adulti maturi (+9,2% dai 50 ai 64 anni).

L’ultimo anno rispecchia la tendenza complessiva: l’Italia sta continuando a perdere le sue forze più giovani e vitali, capacità e competenze che vengono messe a disposizione di Paesi altri che non solo li valorizzano appena li intercettano, ma ne usufruiscono negli anni migliori, quando cioè creatività e voglia di emergere sono ai livelli più alti per freschezza, genuinità e spirito di competizione.

Il 72,9% dei quasi 131.000 iscritti all’Aire da gennaio a dicembre 2019 si è iscritto in Europa e il 20,5% in America (di questi, il 14,3% in quella meridionale).

Sono 186 le destinazioni scelte da chi ha deciso di risiedere all’estero nell’ultimo anno.

Tra le prime 20 mete vi sono nazioni di quattro continenti diversi, ma ben 14 sono Paesi europei.

In quarta posizione troviamo il Brasile che insieme all’Argentina (8° posto) e agli Stati Uniti (7° posto) rappresentano il continente americano che si completa dell’Oceania con l’Australia (9° posto), dell’Asia (Emirati Arabi, 19° posto) e dell’Africa (Tunisia, 23° posto).

Nelle prime posizioni si fanno notare paesi di “storica” presenza migratoria italiana.

Al primo posto, ormai da diversi anni, vi è il Regno Unito (quasi 25.000 iscrizioni, il 19,0% del totale) per il quale vale sia il discorso di effettive nuove iscrizioni sia quello di emersioni di connazionali da tempo presenti sul territorio inglese e che, in virtù della Brexit, hanno deciso di regolarizzare ufficialmente la loro presenza complice il complesso e confusionario processo di transizione rispetto ai diritti, ai doveri, al riconoscimento o meno di chi nel Regno Unito già risiedeva e lavorava da tempo.

A seguire la Germania (19.253, il 14,7%) e la Francia (14.196, il 10,8%), nazioni che continuano ad attirare italiani soprattutto legati a tradizioni migratorie di ricerca di lavori generici da una parte - si pensi a tutto il mondo della ristorazione e dell’edilizia - e specialistici dall’altra, legati al mondo accademico, al settore sanitario o a quello ingegneristico di area internazionale.

Va considerato, inoltre, il mondo creativo e artistico italiano che trova terreno fertile in nazioni come la Francia e la Germania e, in particolare, in città come Parigi e Berlino.

lunedì 26 ottobre 2020

Pochi gli investimenti pubblici nei prossimi anni

 


Nei prossimi anni solamente se gli investimenti pubblici, come del resto quelli privati, assumeranno un valore elevato la necessaria crescita economica, in Italia, sarà tale da contrastare effettivamente gli effetti negativi sul Pil determinati dalla diffusione del Coronavirus.

In realtà, la politica economica del Governo non sembra che garantirà un forte aumento degli investimenti pubblici, nei prossimi anni, se si considera quanto scritto nella nota di aggiornamento al Def recentemente pubblicata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Lo sostiene l’economista Gustavo Piga, in un recente articolo da lui scritto per “Il Sole 24 ore”.

Data l’importanza delle tesi sostenute da Piga, mi sembra opportuno riportare alcune parti dell’articolo in questione.

“Il nostro Paese ha ed avrà ancora di più nei prossimi mesi un bisogno immenso di crescita economica. Non solo per mantenersi stabile socialmente ma anche finanziariamente: una crescita solida è senza dubbio l’unico modo credibile per garantire infatti anche la discesa del rapporto debito pubblico su Pil.

Il Recovery Fund doveva raggiungere proprio questo fine, dare garanzia di stabilità sociale e finanziaria, tramite il finanziamento di maggiori investimenti pubblici.

Ma qualcosa sembra non stia funzionando perfettamente, almeno se consultiamo un documento fondamentale per capirne di più, la nota di aggiornamento al Def recentemente pubblicata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Questa include infatti tre informazioni chiave: la posizione per il 2021-2023 del Governo stabilita con il Def in aprile, gli effetti aggiuntivi della manovra per il 2021 sul triennio e, infine, il contributo per gli anni 2021-23 dei fondi europei del Recovery.

L’analisi complessiva di queste tre dimensioni ci dice della posizione fiscale del Governo e di come questa impatta sull’economia.

Cominciamo subito dalla questione dei fondi europei - più semplice da capire ma anche capace di sollevare perplessità - che si suddividono in trasferimenti a fondo perduto e in prestiti a tassi vantaggiosi.

I primi sono pari a 14, 20 e 28 miliardi nel triennio a venire: 0,8%, 1% e 1,5% di Pil circa.

L’effetto stimato, ancora per il triennio, di crescita economica in più è pari rispettivamente a 0,3%, 0,4% e 0,8%, con un moltiplicatore della crescita da parte della spesa pubblica inferiore dunque allo 0,5.

Numero che non è foriero di buone notizie: da un moltiplicatore degli investimenti pubblici ci si aspetta che sia almeno pari ad 1, e un valore così basso non può che voler dire che i fondi Ue a fondo perduto non verranno tutti spesi là dove l’impatto è maggiore per la crescita, nell’accumulazione di capitale fisico ed immateriale, ma piuttosto in mille rivoli e trasferimenti.

Passiamo ai prestiti a tassi vantaggiosi: essi sono pari 11, 17,5 e 15 miliardi di euro. Una bella cifra.

Purtroppo una buona parte di questi non andranno a finanziare nuovi progetti di investimenti ma a sostituire il finanziamento in deficit da parte del Tesoro di spese già previste.

Effetto addizionale dunque nullo, se non per un minuscolo risparmio di spesa per interessi.

Qualcuno potrebbe dire che vanno a finanziare comunque maggiori investimenti pubblici già previsti da questo Governo, ma il Def di aprile non lascia scampo nemmeno a questo riguardo: l’aumento di investimenti pubblici dal 2020 è di 3 miliardi per il 2021, altri 3 in più per il 2022 ed un calo di 1 miliardo nel 2023.

Bazzecole, se pensiamo alla crisi in cui ci dibattiamo.

Questo mancato utilizzo dei prestiti Recovery per ulteriori maggiori investimenti è parte della spiegazione di un ulteriore mistero, ovvero lo scarso impatto sulla crescita della nuova manovra per il 2021 prevista nella Nadef e di prossima discussione in Parlamento.

Ma ci devono essere anche altre ragioni se il Governo promette rispetto allo scenario primaverile una manovra che genera solamente altri 0,6%, 0,4% e - (sì meno!) 0,1% di Pil per il triennio a venire a fronte invece di aumenti di deficit su Pil dello 1,3% di Pil nel 2021 e di più dell’1% nel 2022 e 2023 (al netto cioè di complicate retroazioni fiscali di cui non conosciamo le dimensioni).

Moltiplicatori fiscali nuovamente molto bassi, evidenza che si spenderanno risorse in misure a basso impatto per l’economia, e quindi non in investimenti pubblici addizionali…

Insomma, invece di confermare e stabilizzare il deficit al livello odierno per tutto il triennio e utilizzarne le risorse per fare investimenti pubblici e invece di dedicare le risorse europee a massimizzare i progetti che generano crescita, ci ritroviamo con una programmazione austera e male allocata, in quella che è la maggiore crisi economica del dopoguerra.

E perché mai?

Per quanto riguarda l’austerità è semplice, basta tornare ai numeri finali del 2023, quell’avanzo primario in pareggio e quel deficit su Pil che tocca la soglia ‘critica’ del 3% del Pil su cui si è costruita la logica del mai abolito e austero Fiscal Compact.

Non sono infatti numeri casuali: sono frutto di quella promessa che il Governo italiano ha fatto, implicita nell’accordo sottostante al Recovery Fund, che l’Italia accede a questi fondi purché … si cimenti nell’austerità richiesta dall’Europa appena fuori dal Covid.

Con una mano si dà, con l’altra si leva.

Cosa si leva? La crescita.

Una crescita economica prorompente che non solo avrebbe stabilizzato socialmente il Paese ma anche permesso di ridurre il rapporto debito-PIL ben di più del magro 6,5% previsto dal Governo (dal 158% al 151,5%).

Per quanto riguarda poi la scarsa attenzione agli investimenti pubblici, è solo una conferma di una tutta nostra politica ultradecennale di indifferenza verso le future generazioni, che in fondo non votano…”.

giovedì 22 ottobre 2020

Necessari nel Centro-Sud nuovi inceneritori

 


Secondo uno studio del Cesisp dell’università Bicocca di Milano sono necessari nuovi impianti per selezionare, riciclare e smaltire i rifiuti, in primo luogo una decina di inceneritori per 2,7 milioni di tonnellate di rifiuti, soprattutto nel Sud ma anche in alcune aree del Centro, ad esempio a Roma.  

Infatti c’è un notevole divario fra l’Italia del Nord e il Sud nella disponibilità di impianti per selezionare, riciclare e smaltire i rifiuti.

Qui saranno presi in considerazione i principali risultati ottenuti non solo nello studio del Cesisp ma anche in quello di Ref.Ricerche.

Mancano impianti ambientali per trattare circa 2,2 milioni di tonnellate di spazzatura (stima Ref.Ricerche per Fise Assoambiente) e servono una decina di inceneritori per 2,7 milioni di tonnellate (stima Cesisp università Bicocca).

E finisce nell’abuso tutto ciò che non arriva negli impianti per riciclare i materiali e per smaltire gli scarti irriciclabili che rimangono dopo le attività di rigenerazione.

Il caso della Campania, la Sicilia che ambisce dotarsi di impianti alternativi alle discariche, la situazione di Roma, soprattutto.

Ma il segnale è più generale.

Mentre entra in vigore la direttiva europea sulla circular economy, l’Italia si indirizza a passo di marcia dalla parte opposta. Meno impianti e più norme inapplicabili.

Secondo il presidente della Fise Assoambiente, Chicco Testa, “serve una strategia nazionale di gestione dei rifiuti che fornisca una visione nel medio-lungo periodo migliorando le attuali performance.

Per farlo nei prossimi mesi abbiamo due irripetibili occasioni da cogliere: il piano di aiuti messo in campo dalla Ue (Recovery Fund) e il programma nazionale per la gestione dei rifiuti da definire nei prossimi 18 mesi, secondo quanto previsto dalla direttiva europea appena recepita”.

Massimo Beccarello, economista dell’Università di Milano Bicocca, insieme con Giacomo Di Foggia ha condotto lo studio “Circular capacity: stima del fabbisogno impiantistico per il piano nazionale di gestione dei rifiuti urbani”.

Dice Beccarello: “Non si può più rimanere fossilizzati sulla via autarchica di gestire i rifiuti urbani esclusivamente dentro la regione. L’ipocrisia dell’autosufficienza locale va superata insieme con l’inefficienza che essa porta con sé”.

Che cosa impone la nuova direttiva?

In sostanza, secondo la ricerca del Cesisp Bicocca, si devono chiudere discariche per 4,5 milioni di tonnellate di rifiuti e abbandonare gli impianti Tmb (trattamento meccanico biologico) per 4,9 milioni di tonnellate.

Servono inceneritori per 2,7 milioni di tonnellate.

Alle discariche tenta di rinunciare la Sicilia, ma i suoi progetti di inceneritori vengono bocciati senza rimedio dal ministro dell’Ambiente, Sergio Costa.

Invece gli impianti Tmb sono lo strumento dell’ipocrisia di Roma: tramite una setacciatura sommaria, la spazzatura di Roma da urbana (da trattare solo nella regione) viene riclassificata come speciale (esportabile in Romagna, Veneto o all’estero).

La raccolta differenziata in Italia è in media pari al 58,1% dei rifiuti, e anche qui vi è un divario fra Nord e Sud: 65% al Nord, 54,1% al Centro e 46,1% al Sud e isole.

Al Lazio mancano impianti di gestione dei rifiuti pari a 1,3 milioni di tonnellate, e in Campania per 1,2 milioni di tonnellate.

La Lombardia fa il contrario: siccome ha molti impianti per separare, trattare e riciclare i materiali, e ha impianti per smaltire i rifiuti irriciclabili che risultano dal riciclo, allora ha disponibilità aggiuntiva pari a 1,3 milioni di tonnellate di spazzatura.

Secondo lo studio del Ref.Ricerche per Fise Assoambiente, nel 2019 è aumentata del 2% la produzione di rifiuti urbani e del 3,3% quella di rifiuti speciali.

Sono diminuiti gli impianti per gestire questi rifiuti (396 impianti in meno per il segmento dei rifiuti speciali). Di conseguenza è aumentato l’export della spazzatura fuori dalla regione di produzione o perfino all’estero, come in Spagna, Austria, Olanda o Germania (+31% per gli urbani e +14% per gli speciali).

E ovviamente, più domanda e meno offerta, i costi di smaltimento sono cresciuti del 40%.

lunedì 19 ottobre 2020

60.000 morti all'anno per lo smog




Alla vigilia dell’entrata in vigore delle misure antismog, Legambiente ha presentato un’edizione speciale di Mal’aria. Sono state confrontate le concentrazioni medie annue delle polveri sottili (Pm10 e Pm2,5) e del biossido di azoto (NO2) negli ultimi cinque anni (2014-2018) con i rispettivi limiti suggeriti dall’Organizzazione mondiale della sanità, prendendo in considerazione 97 città italiane.

Che aria si respira nelle città italiane e che rischi ci sono per la salute?  Di certo non tira una buona aria e con l’autunno alle porte, unito alla difficile ripartenza dopo il lockdown in tempo di Covid, il problema dell’inquinamento atmosferico e dell’allarme smog rimangono un tema centrale da affrontare.

A dimostrarlo sono i nuovi dati raccolti da Legambiente nel rapporto “Mal’aria edizione speciale”  nel quale l’associazione ambientalista ha stilato una “pagella” sulla qualità dell’aria di 97 città italiane sulla base degli ultimi 5 anni - dal 2014 al 2018 - confrontando le concentrazioni medie annue delle polveri sottili (Pm10, Pm2,5) e del biossido di azoto (NO2) con i rispettivi limiti medi annui suggeriti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms)

Il quadro che emerge dal confronto realizzato da Legambiente è preoccupante: solo il 15% delle città analizzate ha la sufficienza contro l’85% sotto la sufficienza.

Delle 97 città di cui si hanno dati su tutto il quinquennio analizzato (2014 - 2018) solo l’15% (ossia 15) raggiungono un voto superiore alla sufficienza: Sassari (voto 9), Macerata (8), Enna, Campobasso, Catanzaro, Grosseto, Nuoro, Verbania e Viterbo (7), L’Aquila, Aosta, Belluno, Bolzano, Gorizia e Trapani (6). 

La maggior parte delle città - l’85% del totale - sono sotto la sufficienza e scontano il mancato rispetto negli anni soprattutto del limite suggerito per il Pm 2,5 e in molti casi anche per il Pm10.

Fanalini di coda le città di Torino, Roma, Palermo, Milano e Como (voto 0) perché nei cinque anni considerati non hanno mai rispettato nemmeno per uno solo dei parametri il limite di tutela della salute previsto dall’Oms. 

Dati che Legambiente ha lanciato alla vigilia del 1 ottobre, data in cui hanno preso il via le misure e le limitazioni antismog previste dall’ “Accordo di bacino padano” in diversi territori del Paese per cercare di ridurre l’inquinamento atmosferico, una piaga dei nostri tempi al pari della pandemia e che ogni anno, solo per l’Italia, causa 60.000 morti premature e ingenti costi sanitari. Il Paese detiene insieme alla Germania il triste primato a livello europeo.

Per questo Legambiente ha chiesto anche al Governo e alle Regioni più coraggio e impegno sul fronte delle politiche e delle misure da mettere in campo per avere dei risultati di medio e lungo periodo.

Un coraggio che per Legambiente è mancato alle quattro regioni dell’area padana (Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto) che, ad esempio, hanno preferito rimandare all’anno nuovo il blocco alla circolazione dei mezzi più vecchi e inquinanti Euro4 che sarebbe dovuto scattare dal 1 ottobre nelle città sopra i 30.000 abitanti.

Una mancanza di coraggio basata sulla scusa della sicurezza degli spostamenti con i mezzi privati e non pubblici in tempi di Covid, o sulla base della compensazione delle emissioni inquinanti grazie alla strutturazione dello smart working per i dipendenti pubblici.

“Per tutelare la salute delle persone - ha dichiarato Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente - bisogna avere coraggio e coerenza definendo le priorità da affrontare e finanziare.

Le città sono al centro di questa sfida, servono interventi infrastrutturali da mettere in campo per aumentare la qualità della vita di milioni di pendolari e migliorare la qualità dell’aria, puntando sempre di più su una mobilità sostenibile e dando un’alternativa al trasporto privato.

Inoltre serve una politica diversa che non pensi solo ai blocchi del traffico e alle deboli e sporadiche misure anti-smog che sono solo interventi palliativi.

Il governo italiano, grazie al Recovery Fund, ha un’occasione irripetibile per modernizzare davvero il Paese, scegliendo la strada della lotta alla crisi climatica e della riconversione ecologica dell’economia italiana. Non perda questa importante occasione e riparta dalle città incentivando l’utilizzo dei mezzi pubblici, potenziando la rete dello sharing mobility e raddoppiando le piste ciclopedonali.

Siamo convinti, infatti, che la mobilità elettrica, condivisa, ciclopedonale e multimodale sia l’unica vera e concreta possibilità per tornare a muoverci più liberi e sicuri dopo la crisi Covid-19, senza trascurare il rilancio economico del Paese”.

“L’inquinamento atmosferico nelle città - ha aggiunto Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente - è un fenomeno complesso poiché dipende da diversi fattori: dalle concentrazioni degli inquinanti analizzati alle condizioni meteo climatiche, passando per le caratteristiche urbane, industriali e agricole che caratterizzano ogni singola città e il suo hinterland.

Nonostante le procedure di infrazione a carico del nostro Paese, nonostante gli accordi che negli anni sono stati stipulati tra le Regioni e il Ministero dell’Ambiente per ridurre l’inquinamento atmosferico a cominciare dall’area padana, nonostante le risorse destinate in passato e che arriveranno nei prossimi mesi/anni con il Recovery fund, in Italia manca ancora la convinzione di trasformare concretamente il problema in una opportunità. Opportunità che prevede inevitabilmente dei sacrifici e dei cambi di abitudini da parte dei cittadini, ma che potrebbero restituire città più vivibili, efficienti, salutari e a misura di uomo”.

giovedì 15 ottobre 2020

L'economia sommersa e quella illegale hanno un valore di 211 miliardi

 



E’ noto che l’economia sommersa e quella illegale assumono in Italia un valore molto elevato. Un’ulteriore conferma arriva da un’indagine dell’Istat, che utilizza dati relativi al 2018. Infatti secondo l’Istat il valore complessivo di queste forme di economica ammontava, appunto nel 2018, a 211 miliardi di euro.

Più precisamente, nel 2018 il valore aggiunto generato dall’economia non osservata, ovvero dalla somma di economia sommersa e attività illegali, si è attestato a poco più di 211 miliardi di euro (erano 213,9 nel 2017), in flessione dell’1,3% rispetto all’anno precedente e in controtendenza rispetto all’andamento del valore aggiunto, cresciuto del 2,2%.

L’incidenza dell’economia non osservata sul Pil si è di conseguenza ridotta di 0,4 punti percentuali, portandosi all’11,9%, confermando una tendenza alla discesa in atto dal 2014, quando si era registrato un picco del 13,0%. Lo ha comunicato l’Istat diffondendo i dati de “L’economia non osservata nei conti nazionali” per gli anni 2015-2018.

Stando ai dati diffusi, il complesso dell’economia sommersa vale 191,8 miliardi, il 12,0% del valore aggiunto prodotto dal sistema economico, con una riduzione di 3,2 miliardi rispetto all’anno precedente.

“La componente legata alla sotto-dichiarazione del valore aggiunto - spiega l’Istat - ammonta a 95,6 miliardi (98,5 miliardi nel 2017) mentre quella connessa all’impiego di lavoro irregolare si attesta a 78,5 miliardi (80,2 miliardi l’anno precedente). Le componenti residuali ammontano a 17,6 miliardi (16,3 nel 2017)”.

Per quanto riguarda le unità di lavoro irregolari, nel 2018 sono state 3 milioni e 652.000, occupate in prevalenza come dipendenti (2 milioni e 656.000). La riduzione (-1,3% rispetto al 2017) segnala un ridimensionamento di un fenomeno che nel 2017 si era invece esteso (+0,7% rispetto al 2016).

Nell’insieme del periodo 2015-2018 il lavoro non regolare presenta una dinamica opposta a quella che caratterizza il lavoro regolare: gli irregolari diminuiscono di circa 47.000 unità (-1,3%), mentre i regolari crescono di 723.000 unità (+3,7%), determinando un calo del tasso di irregolarità dal 15,8% del 2015 al 15,1% del 2018.

E’ certamente positivo il fatto che la cosiddetta economia non osservata tenda a ridursi, ma il suo valore è ancora troppo elevato e quindi resta la necessità di adottare interventi volti a ottenere una ulteriore diminuzione, molto consistente, di tale valore.

martedì 13 ottobre 2020

Prima richiesta di suicidio assistito, rifiutata

 


E’ arrivata la prima richiesta di suicidio assistito in Italia ma è stata rifiutata. Infatti una Asl all’interno del territorio italiano si è recentemente rifiutata di applicare il principio stabilito dalla sentenza 242\2019 della Corte Costituzionale, che ha valore di legge, sul diritto ad accedere al suicidio assistito, per pazienti che si trovano in determinate condizioni (mantenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetti patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli).

La notizia è stata annunciata da Filomena Gallo, avvocato e Segretario dell’associazione Luca Coscioni, durante le fasi conclusive del XVIII congresso annuale dell’associazione.

L’associazione Luca Coscioni sta, infatti, seguendo due casi di persone con malattie che hanno chiesto, alla luce della sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale, di poter porre fine alle proprie sofferenze con suicidio assistito.

Nel primo caso, dopo ben 38 giorni (un tempo comunque troppo lungo per un malato grave), il paziente sarà sottoposto nei prossimi giorni alla prima visita di verifica della sua condizione e della consapevolezza delle scelte che sta effettuando anche alla luce delle possibilità di sottoporsi a cure palliative.

Il secondo caso riguarda, invece, un uomo di 42 anni, immobilizzato da 10, a causa di un incidente. Ha provato tutto il possibile per recuperare parte della sua salute, ma nulla è servito e ora dipende totalmente dall’assistenza che riceve. Alla sua richiesta, inoltrata alla Asl competente a fine agosto, di poter porre fine alle sue sofferenze, ha ricevuto qualche giorno fa, dopo oltre un mese, un divieto a procedere:

“…La richiamata sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale interviene espressamente su questioni di legittimità costituzionale dell’art 580 del codice penale sollevate dalla Corte di Assise di Milano in relazione a diversa fattispecie, rispetto al Suo caso.

Nella medesima sentenza, inoltre, si sollecita ulteriormente il Parlamento abbia provveduto nel senso indicato dalla Corte Costituzionale, normando con il necessario rigore le condizioni che devono sussistere e le relative modalità di esecuzione da applicare in una simile delicatissima e complessa fattispecie.

Pertanto questa direzione ritiene che, allo stato attuale della normativa vigente, non sia possibile esprimere un parere favorevole alla sua richiesta.

La SV potrà comunque legittimamente avvalersi, ai sensi della citata L. n. 219/2017 delle cd ‘disposizioni anticipate di trattamento’, che prevedono la rinuncia ai trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza del paziente e la garanzia dell’erogazione di una appropriata terapia del dolore e di cure palliative”.

“Una risposta che disconosce la sentenza 242\2019 della Corte Costituzionale, che, con valore di legge, stabilisce dei passaggi specifici per tutti quei pazienti affetti da patologie irreversibili che in determinate condizioni, possono far richiesta di porre fine alle proprie sofferenza, attraverso un iter tramite il Ssn”, ha dichiarato Filomena Gallo, avvocato e Segretario nazionale dell’associazione Luca Coscioni,

“Il Servizio sanitario nazionale dunque tramite questa Asl ha negato ufficialmente quanto previsto dalla Consulta. Per questo stiamo preparando un’azione giudiziaria contro questo diniego di gravità assoluta e continuiamo a ribadire l’urgenza di una legge che regolamenti le scelte di fine vita a garanzia di diritti fondamentali”.

“Ci sono Asl che calpestano una sentenza della Corte Costituzionale e impongono ai malati di soffrire impedendo loro l’aiuto a morire.

Su questa gravissima violazione dei rapporti tra istituzioni, chiediamo risposte al ministro Speranza, al segretario Zingaretti, al Presidente della Repubblica Mattarella, al Presidente Giuseppe Conte”, ha dichiarato Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni e promotore della campagna Eutanasia Legale, “insieme a Mina Welby e Gustavo Fraticelli ribadiamo pubblicamente l’impegno a portare avanti nuove disobbedienze civili.

Se queste persone che si sono rivolte a noi - e tutte le altre che vorranno chiedere il nostro aiuto - non troveranno le risposte alle quali hanno diritto, nei tempi giusti e rispettosi della loro malattia e del loro dolore, noi li aiuteremo ad andare in Svizzera, per porre fine alle loro sofferenze”.

giovedì 8 ottobre 2020

Il Covid ha cambiato il modo di informarsi

 


Il Covid-19 ha cambiato il modo di informarsi degli italiani. Ciò è emerso dal rapporto la “Scienza e il Covid”, realizzato dai ricercatori dell'Istituto per la formazione al giornalismo dell'università di Urbino.

Così si possono sintetizzare il cambiamento: più canali all news, più tv locali e siti web istituzionali, meno radio e informazioni condivise su facebook da amici.

Secondo l'indagine condotta attraverso interviste telefoniche realizzate a giugno su un campione di oltre mille italiani, le reti all news hanno visto una crescita del +6% rispetto al 2019 ed il notiziario delle tv locali un +8%, indice della necessità “di colmare un bisogno informativo che in un periodo di crisi come quello vissuto diventa più urgente e più legato al contesto locale”.

Mentre l'uso della radio è stato penalizzato (-7%) dai minori spostamenti in auto per andare a lavoro, i talk show in tv sono stati molto seguiti per informarsi sul Covid-19.

L'effetto del coronavirus è risultato visibile anche rispetto alle fonti online di informazione, tutte in aumento tranne, per la prima volta dopo anni in crescita, quelle che arrivano attraverso amici via facebook: un -3% segno che l'emergenza ha portato a privilegiare fonti online dotate di maggiore credibilità.

Si spiega così anche l'aumento del 4% dell'utilizzo per informarsi, dei siti web di testate giornalistiche, che sono salde al primo posto della classifica dei media.

“In questo grande periodo di incertezza, gli italiani si sono affidati al mondo dell'informazione, tornando a riconoscergli il ruolo di mediazione che aveva conosciuto un appannamento nel corso del tempo”, hanno commentato gli autori.

Resta frequente imbattersi in fake news e quasi tutti gli intervistati ritengono che queste notizie false creino confusione. Eppure, in modo un po' contraddittorio, si dicono anche capaci di saperle riconoscere.

martedì 6 ottobre 2020

Il 60% delle famiglie in forti difficoltà economiche

 

Quasi sei famiglie su dieci hanno difficoltà ad arrivare alla fine del mese, una percentuale salita sensibilmente negli ultimi mesi. Con l'emergenza sanitaria legata al coronavirus, è aumentata significativamente la quota di famiglie che dichiarano di arrivare con difficoltà alla fine del mese: se prima della pandemia erano pari al 46%, adesso si attestano al 58%.

Emerge, inoltre, una difficoltà generalizzata a far fronte a spese improvvise di media entità e che tale difficoltà è particolarmente accentuata tra i giovani, le donne, i residenti al Sud.

Tale situazione emerge da un'indagine commissionata dal comitato Edufin alla Doxa e svolta tra maggio e giugno scorso, ossia subito dopo la fine del lockdown, ed è stata riportata dalla presidente dell’Ania, Maria Bianca Farina.

Uno degli antidoti in grado di contrastare questo trend consiste, infatti, nell’aumentare la conoscenza finanziaria dei cittadini.

Sul tema dell’impoverimento delle famiglie e sulla necessità di colmare il gap in termini di educazione dell'Italia nei confronti degli altri Paesi, si sono confrontati i massimi esponenti di Ivass e Ania, Daniele Franco e Maria Bianca Farina, nel corso della giornata dell'educazione assicurativa.

Franco in particolare ha fatto notare che in uno scenario inedito come quello scaturito dalla pandemia “sono affiorati nuovi bisogni, nuove fragilità e nuove forme di incertezza. Ci siamo trovati esposti a rischi prima non evidenti o comunque non ben compresi”, in cui si sono “confermati i profili di vulnerabilità del sistema economico di fronte a eventi di tipo catastrofale, che compromettano il regolare funzionamento delle attività produttive”.

L'educazione assicurativa può essere cruciale per rendere individui e imprese più consapevoli dei rischi che corrono e degli strumenti che possono attivare per gestirli.

Citando i dati Doxa sul campione di persone in difficoltà post Covid, la presidente dell’Ania Farina ha rilevato infatti che il 49,5% di coloro che dichiarano di possedere conoscenze finanziarie sarebbe capace di affrontare una spesa improvvisa dell'entità indicata, contro il 27,7% del campione meno alfabetizzato. 

Per la presidente dell'associazione nazionale delle imprese assicuratrici “si tratta di risultati che confermano in modo chiaro la stretta correlazione tra alfabetizzazione finanziaria e capacità di far fronte a momenti di crisi e di difficoltà” da cui si evidenzia “la necessità di investire nell'educazione finanziaria e assicurativa delle persone, che rappresenta uno strumento cruciale per rafforzare strutturalmente la resilienza di persone e famiglie”.