giovedì 29 luglio 2021

Fine pena mai è incostituzionale

 

La Corte Costituzionale ha stabilito l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, una pena senza fine prevista nell’ordinamento penitenziario italiano che “osta” a qualsiasi sua modificazione e che non può essere né abbreviata né convertita in pene alternative, a meno che la persona detenuta decida di collaborare con la giustizia. Tale decisione della Corte Costituzionale è stata oggetto di critiche ma anche di consensi.

Tra quanti hanno espresso apprezzamento nei confronti di quanto stabilito dalla Corte Costizionale occorre rilevare quanto sostenuto dall’associazione Antigone, che si occupa di tutelare i diritti delle persone che si trovano in carcere,  in uno specifico comunicato.

“Anche la Corte Costituzionale si pronuncia contro l'ergastolo ostativo. Il giudizio arriva a due settimane di distanza dalla sentenza della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che aveva definito inumana e degradante una pena che non prevedesse una possibilità di rilascio.

I giudici della Consulta hanno ribadito questo principio, sostenendo l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1 dell’ordinamento penitenziario, laddove preveda la concessione di permessi premio solo in caso di collaborazione con la giustizia, escludendo di fatto altri elementi quali la reale partecipazione ancora in essere con l’associazione criminale e il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, ciò quando il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. 

‘E' una sentenza di straordinario valore questa della Corte Costituzionale. I giudici pongono un limite al potere di punire e ribadiscono un principio fondamentale della nostra carta costituzionale: sempre e comunque la pena deve tendere alla rieducazione del condannato’.

A sottolinearlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

‘In attesa di leggere nel dettaglio le motivazioni della sentenza, la Corte ribadisce anche l'importanza del ruolo delle istituzioni penitenziarie e della magistratura di sorveglianza.

Nessun mafioso infatti uscirà - ha rilevato ancora Gonnella.

Con questa decisione, così come con quella della Cedu, si restituisce alla magistratura il potere di decidere, caso per caso, se per un detenuto condannato per reati di mafia sussista ancora il criterio di pericolosità sociale e quindi se possa essere idoneo o meno ad usufruire di permessi premio’.

Per assumere questa decisione la magistratura di sorveglianza - come si legge nel comunicato della Corte Costituzionale - dovrà basarsi sulle relazioni del carcere, nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. 

‘Ci auguriamo che questa doppia decisione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e della Corte Costituzionale venga recepita dai decisori politici in nome del principio di legalità costituzionale’, ha concluso Patrizio Gonnella”.

Io concordo pienamente con quanto deciso dalla Corte Costituzionale e con le considerazioni del presidente dell’associazione Antigone.

Nutro forti dubbi, però, che il Parlamento recepisca la decisione della Corte Costituzionale.

In diversi altri casi ciò non è avvenuto, anche su temi notevolmente diversi, ad esempio sulla legalità dell’eutanasia.

E i miei dubbi derivano anche dalle posizioni espresse da parte della magistratura, che influenzeranno, in questo caso negativamente, quanto meno molti parlamentari.

E’ bene ricordare, infine, che l’ergastolo ostativo fu introdotto nell’ordinamento penitenziario italiano all’inizio degli anni Novanta, dopo le stragi nelle quali furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ed è regolato dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e stabilisce che le persone condannate per alcuni reati di particolare gravità, come mafia o terrorismo, non possano essere ammesse ai cosiddetti “benefici penitenziari” né alle misure alternative alla detenzione.

Per queste persone è escluso l’accesso alla liberazione condizionale, al lavoro all’esterno, ai permessi-premio e alla semilibertà. La pena dell’ergastolo ostativo coincide dunque, per la sua durata, con l’intera vita del condannato: è quella per cui si usa spesso l’espressione “fine pena mai”.

lunedì 26 luglio 2021

In aumento i morti sul lavoro

 

E’ stata recentemente presentata la relazione annuale, per il 2020, dell’Inail, relativa agli infortuni e ai morti sul lavoro e alle malattie professionali. In calo gli infortuni e le malattie professionali, in aumento i casi mortali.

Infatti, i dati sulle denunce di infortunio nel 2020 hanno registrato, rispetto all’anno precedente, un calo dei casi in complesso e un aumento significativo di quelli mortali.

Sono state registrate poco più di 571.000 denunce di infortuni accaduti nel 2020 (-11,4% rispetto al 2019), un quarto delle quali relative a contagi da Covid-19 di origine professionale.

Gli infortuni riconosciuti sul lavoro sono stati 375.238 (-9,7% rispetto al 2019), di cui 48.660, pari al 12,97%, avvenuti “fuori dell’azienda”, ovvero con “mezzo di trasporto” o “in itinere”, nel tragitto di andata e ritorno tra la casa e il luogo di lavoro.

I casi mortali denunciati all’Inail sono stati 1.538, con un incremento del 27,6% rispetto ai 1.205 del 2019 che deriva soprattutto dai decessi causati dal Covid-19, che rappresentano oltre un terzo del totale delle morti segnalate all’Istituto.

Gli infortuni mortali per cui è stata accertata la causa lavorativa sono stati 799 (+13,3% rispetto ai 705 del 2019), di cui 261, circa un terzo del totale, occorsi “fuori dell’azienda” (i casi ancora in istruttoria sono 93).

Gli incidenti plurimi, che hanno comportato la morte di almeno due lavoratori contemporaneamente, sono stati 14, per un totale di 29 decessi.

La pandemia ha fortemente condizionato l’andamento del fenomeno infortunistico nel 2020 - ha rilevato il presidente dell’Inail Bettoni -. Da un lato, infatti, ha comportato la riduzione dell’esposizione a rischio per gli eventi ‘tradizionali’ e ‘in itinere’, a causa del lockdown e del rallentamento delle attività produttive, dall’altro ha generato la specifica categoria di infortuni per il contagio da Covid-19”.

Ha aggiunto Bettoni: “Il pesante bilancio infortunistico ci fa comprendere che non si fa ancora abbastanza.

Non è sufficiente indignarsi ma occorre agire. Le norme ci sono e vanno rispettate. E’ necessario un impegno forte e deciso di tutti per realizzare un vero e proprio ‘patto per la sicurezza’ tra istituzioni e parti sociali.

Coinvolgere gli attori del sistema nazionale di prevenzione, rafforzare i controlli, promuovere una maggiore sensibilizzazione di lavoratori e imprese, potenziare la formazione e l’informazione per costruire una cultura della sicurezza, a partire dal mondo della scuola, dare sostegno economico alle aziende: sono tutte azioni da perseguire con determinazione e l’istituto è pronto a fare la sua parte”.

Non si può non essere d’accordo soprattutto con le ultime considerazioni di Bettoni.

Ma Bettoni avrebbe dovuto spiegare meglio cosa si deve fare. Le sue considerazioni sono troppo generiche.

E poi i controlli, a mio avviso, nell’ambito degli interventi da promuovere, devono assumere un ruolo prioritario, fondamentale.

Perché vengono effettuati pochi controlli?

Solo perché il personale addetto ai controlli è insufficiente e quindi sarebbe necessario disporre di risorse economiche maggiori per aumentare il numero degli addetti ai controlli?

O c’è dell’altro?

giovedì 22 luglio 2021

Sui vaccini irresponsabili Salvini e Meloni e non solo loro

Siamo abituati al fatto che molti esponenti politici, tra i quali Matteo Salvini e Giorgia Meloni, sui “social” pubblichino anche quanto avviene nella loro vita privata. Non lo hanno fatto, né Salvini né Meloni, per quanto concerne le loro vaccinazioni.

Salvini ha detto che si vaccinerà ad agosto. Quindi non è ancora vaccinato.

Giorgia Meloni non ha dichiarato nulla a tale proposito. Quindi è lecito supporre che non sia vaccinata nemmeno lei.

In una fase molto importante della campagna vaccinale, alla luce anche dell’aumento dei contagi derivante dalla diffusione della cosiddetta variante delta, sarebbe necessario che i leader dei due maggiori partiti del centro destra si fossero già vaccinati e che lo dichiarassero esplicitamente.

Tale necessità deriva inoltre dal fatto che una parte abbastanza consistente di coloro che dovrebbero vaccinarsi il prima possibile, gli ultra sessantenni, il personale che lavora nelle scuole, i giovani che dovranno a settembre iniziare il nuovo anno scolastico, non sono ancora vaccinati perché, quanto meno per ora, non intendono vaccinarsi.

Ma Salvini e Meloni che fanno? Non si vaccinano.

E perché?

Molto probabilmente perché, in occasione delle elezioni amministrative che si terranno tra la fine di settembre e il mese di ottobre, vogliono acquisire i consensi di quanti non si sono vaccinati perché quanto meno per ora non vogliono vaccinarsi.

Sono degli irresponsabili.

Non possono essere definiti diversamente.

Per la verità, anche altri soggetti, come ad esempio i sindacati, si stanno comportando in modo incomprensibile.

Quando si è diffusa la notizia che Confindustria intenderebbe chiedere di imporre l’obbligo della vaccinazione nei luoghi di lavoro i sindacati hanno reagito nervosamente e hanno esplicitamente sostenuto che non si può imporre quell’obbligo.

E’ scandaloso che parte della classe dirigente di questo Paesi si dimostri del tutto insensibile ad attuare interventi che consentano di aumentare, il prima possibile e in misura considerevole, la platea degli italiani vaccinati.

Sembrerebbe scontato sostenere che un notevole successo della campagna vaccinale rappresenti lo strumento più importante per contrastare, almeno per un periodo abbastanza lungo, la diffusione del Covid-19.

Ma non sembra proprio che ciò sia scontato.

 

lunedì 19 luglio 2021

La ferita del G8 di Genova sanguina ancora

In questi giorni ricorre il ventennale dei fatti di Genova. In quei giorni fu violato lo Stato di diritto e lo spirito della Costituzione. Per ricordare quanto avvenuto venti anni fa ho ritenuto opportuno riportare integralmente l’intervista di Guido Ruotolo, pubblicata su www.terzogiornale.it, a Francesco Pinto, attuale procuratore della Repubblica reggente proprio a Genova, in quel luglio del 2001 sostituto procuratore di turno.

Procuratore Francesco Pinto, il prossimo 19 luglio ricorre il ventennale del G8 di Genova. Di quei giorni rimane nella memoria del Paese lo scontro tra movimenti e forze di polizia che provocarono lesioni, torture, devastazioni, e anche un morto. In quel luglio del 2001 si è aperta una ferita che va ben oltre la questione della giustizia, perché chiama in causa i valori della libertà e della stessa Costituzione. Vent’anni dopo, quella ferita si è rimarginata?

Se la memoria di quei fatti è ancora così viva vuol dire che la ferita non si è rimarginata, perché violazioni così gravi dello Stato di diritto e dello spirito della Costituzione repubblicana rimarranno purtroppo una pagina indelebile della nostra vita civile e istituzionale.

Lei allora era un giovane pm che, tra l’altro, seguì gli eventi di quei tre-quattro giorni terribili. Black bloc ma anche critica al globalismo, fonti energetiche alternative, alimentazione e povertà. Era un movimento “ricco” di idee, di utopie, di programmi di lotta. Di tutta quella ricchezza oggi è rimasto ben poco. Genova fu anche un’occasione sprecata?

Si affermava con una buona dose di utopia che “un altro mondo era possibile”. Mi limito a constatare che dopo vent’anni è ancor più accresciuto il divario tra ricchi e poveri e che le dinamiche reali dell’economia sfuggono al controllo e alle decisioni del potere politico nella gran parte del pianeta.

Le ferite che si sono cicatrizzate a fatica riguardano episodi e comportamenti diversi. Le ricordo, avendo all’epoca seguito gli eventi da cronista, che si determinò un cortocircuito tra Stato e movimenti, tra istituzioni e cittadini. Era ancora ministro dell’Interno del centrosinistra Enzo Bianco, quando fu scelta Genova per ospitare i grandi della terra. E si discuteva di lasciare la gestione di Genova ai movimenti fino al giorno prima che iniziasse il G8. Bianco impose la linea della trasparenza ed erano quasi pubbliche le riunioni tra prefettura, questura, Viminale e movimenti per organizzare gli eventi. Insomma, fu sbagliata la scelta di Genova, che dal punto di vista della conformazione geografica non era difendibile. Ma fu sbagliata la trattativa avviata dal ministro Bianco con i movimenti? Lei che ricordi ha di questa fase che ha preceduto il 19 luglio e i giorni a seguire?

La scelta di Genova fu comunque sbagliata dal punto di vista logistico e delle possibilità operative. La linea del ministro Bianco fu in astratto condivisibile, ma purtroppo si rivelò inefficace alla luce degli eventi che poi accaddero. Come Procura, sul piano dell’ordine pubblico, venimmo solo investiti della questione della inadeguatezza del carcere di Marassi per contenere un probabile notevole numero di arrestati e fermati. Di qui l’utilizzo della struttura di Bolzaneto come luogo di detenzione provvisoria. Alla luce di quello che successe dopo, mai scelta fu più infelice e inopportuna.

Quando ci avvicinammo al 19 luglio, il governo cambiò. Arrivò il centrodestra. E, per molti, la presenza del vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini nella sala operativa dei carabinieri rappresentò una lacerazione del tessuto democratico. L’attività di repressione e prevenzione delle forze di polizia, che dovevano garantire l’incolumità dei partecipanti al G8 e dunque impedire lo sfondamento della zona rossa, fu all’improvviso macchiata da una strumentalizzazione di destra?

Certamente quella presenza fu anomala, ma per costume professionale non posso addentrarmi in dietrologie o in illazioni non suffragate da concreti elementi. Di certo e, in più occasioni, in particolare all’interno della caserma di Bolzaneto, non pochi esponenti della Polizia di Stato e della Penitenziaria fecero sfoggio di un vergognoso lessico fascistoide nei confronti dei manifestanti arrestati - per non parlare degli atti di vera e propria tortura giudizialmente accertati.

Piazza Alimonda. La caserma di Bolzaneto. La scuola Diaz, e la città di Genova diventarono stazioni di una terribile via crucis. Le inchieste e i processi. Possiamo dire che è stata fatta giustizia?

Con molta fatica si è cercato di istruire processi complessi che probabilmente non avrebbero potuto avere luogo in assenza di una cornice di piena indipendenza della magistratura inquirente, saldamente ancorata a un unico ordine giudiziario. Il concetto assoluto di giustizia non è a mio avviso applicabile alle vicende giudiziarie, perché la verità processuale è sempre relativa. Alcuni punti fermi però sono stati raggiunti.

Guardando ai fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, alla caserma dei carabinieri Levante di Piacenza, alla tragica vicenda di Stefano Cucchi, è legittimo chiedersi se siamo di fronte a “devianze” di un sistema che nel suo complesso tiene, oppure sono episodi che confermano che le “mele marce” sono costitutive del sistema degli stessi apparati di sicurezza?

Posso solo constatare con amarezza, in relazione a tali vicende, che purtroppo la “lezione” del G8 di Genova non è servita. Le valutazioni complessive sono sempre opinabili. Posso solo affermare con certezza che un autentico Stato democratico di diritto deve comunque rifiutare in radice l’esistenza di corpi separati che agiscano facendo strame dei principi costituzionali e affidamento nell’impunità.

 

Io condivido ampiamente i contenuti delle risposte di Francesco Pinto nell’intervista riportata e, tra l’altro, la risposta all’ultima domanda.

Non posso che constatare anche io con amarezza che la lezione del G8 non è servita.

 

 

venerdì 16 luglio 2021

Almeno due motivi per approvare il ddl Zan

 

Diversi sono i motivi, a mio avviso, che giustificano una rapida, e senza modifiche, approvazione del disegno di legge Zan che vuole permettere anche in Italia la prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza causate dall’omotransfobia, dalla misoginia e dall’abilismo (la discriminazione nei confronti delle persone disabili).

Due motivi però sono i più importanti.

Il primo è rappresentato dal fatto che i contenuti del disegno di legge Zan sono più che giusti.

E un appello sottoscritto soprattutto da numerose associazioni religiose, non solo cattoliche, lo dimostra ampiamente:

“Onorevoli Senatrici e Senatori della Repubblica Italiana, come cittadini, credenti Lgbt e loro genitori, gruppi, associazioni cristiane e non, ed operatori pastorali che conoscono da vicino la condizione delle persone Lgbt riteniamo che il Parlamento italiano debba approvare al più presto il disegno di legge..

Consapevoli della complessità del tema in oggetto e delle perplessità espresse anche in ambito ecclesiale, tuttavia riteniamo che uno Stato laico debba comunque rispondere ad un urgente bisogno di tutela di tutte le persone, comprese le persone Lgbt.

In questo caso riteniamo che il ddl Zan sia al momento lo strumento più adeguato.

In Italia dal 2013 ad oggi sono state registrate già ben 1.287 vittime della violenza dell’omotransfobia, di cui 185 solo quest’anno (dati aggiornati al 13 luglio 2021 tratti da www.omofobia.org)  

Siamo dell’opinione che la mancata approvazione del ddl, per queste persone e per la società italiana, certamente comporterebbe un danno molto maggiore rispetto agli eventuali inconvenienti, su cui si potrà intervenire in seguito grazie ad un confronto schietto e fecondo.

In particolare siamo convinti che le varie definizioni presenti nell’art.1circa ‘sesso’, ‘genere’, ‘orientamento sessuale’ e, in particolare, ‘identità di genere’ siano opportune, pur nella loro complessità; come complessa è la realtà esistenziale che descrivono.

Raccogliere tutti questi significati nell’unico concetto di ‘sesso’, come suggerito da un noto costituzionalista, non renderebbe giustizia alla realtà diversificata delle persone che il ddl intende tutelare.

In particolare riteniamo che sia da confermare la dicitura ‘identità di genere’, compresa la sua definizione, perché possa davvero essere rappresentata la realtà delle persone transessuali che abbiano o meno concluso il percorso di transizione.

Conosciamo queste persone e i loro familiari, e per questo possiamo affermare che, considerare il sesso biologico attribuito alla nascita come l’unica possibilità per loro di identificare se stesse, pensare quindi che la percezione di sé non definisca anch’essa oggettivamente la realtà esistenziale del soggetto, rappresenta per noi una grave offesa alla persona; spesso vissuta come violenza, fino al suicidio.

Le persone transessuali esistono, anche per l’ordinamento giuridico italiano almeno fin dalla sentenza n. 161 del 1985 della Corte Costituzionale; nonché la sentenza 221 del 2015 in materia di rettificazione di attribuzione di sesso.

Poi, circa il paventato pericolo di limitare la libertà di espressione, riteniamo che l’art.4 offra a chiunque sufficienti garanzie, tra l’altro già assicurate dalla Costituzione.

Circa l’art.7, che non intende altro che promuovere una educazione al rispetto di ogni persona nella sua diversità affettiva e sessuale, a nostro parere non introduce nessuna dittatura ideologica: l’attenzione alle circostanze concrete di tempo, luogo, opportunità e risorse espressa nello stesso articolo, fa della giornata del 17 maggio una vera occasione di educazione al rispetto sociale per le generazioni più giovani.

Ecco perché come cittadini, credenti Lgbt e loro genitori, gruppi, associazioni cristiane e non, ed operatori pastorali che conoscono da vicino la condizione delle persone Lgbt, riteniamo in coscienza di dover dare la nostra convinta adesione al disegno di legge così come è stato proposto dall’onorevole Alessandro Zan, primo firmatario.

Con stima, i sottoscrittori”.

Il secondo motivo risiede nel fatto che le modifiche che Italia Viva intende concordare con gran parte del centro destra, la Lega e Forza Italia in primo luogo, non c’entrano niente con i contenuti del ddl Zan, con la presunta volontà di migliorarne i contenuti e di favorirne l’approvazione.

E’ invece un primo tentativo, anche per ipotizzare intese tra Italia Viva e una parte del centro destra in occasione dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, di intensificare le relazioni tra le forze politiche prima citate, attribuendo così a Italia Viva, e soprattutto al suo leader Renzi, un ruolo maggiore rispetto a quello determinato dal numero dei parlamentari che aderiscono a quel partito.

Quindi, l’atteggiamento di Italia Viva è del tutto strumentale, anche perché i suoi deputati alla Camera hanno approvato il disegno di legge Zan nel testo attuale e che, io credo, debba essere approvato anche dal Senato, per divenire finalmente una legge, tanto attesa perché senza alcun dubbio necessaria.

martedì 13 luglio 2021

Nel Sud Sudan milioni di bambini sull'orlo della carestia

 

Nell’indifferenza dei media, dei governi e delle istituzioni internazionali, prosegue il conflitto armato nel Sud Sudan con la conseguente grave crisi alimentare, in seguito alla quale 7,2 milioni di persone tra cui milioni di bambini soffrono la fame o sono sull’orlo della carestia.

Tale situazione è denunciata da Save the Children.

“…Il numero di persone in grave pericolo di fame è aumentato del 50% rispetto alla stessa stagione di dieci anni fa, con dati pubblicati nel 2012 che mostrano come il 40% della popolazione stesse vivendo livelli di crisi di insicurezza alimentare di Ipc 3 o superiori in quel momento.

Save the Children avverte che questa situazione molto probabilmente peggiorerà nei prossimi mesi a causa della violenza in corso, degli alti prezzi alimentari, degli shock climatici e delle barriere all'accesso umanitario, a meno che non venga intrapresa un'azione nazionale e globale urgente.

Si stima che circa 1,4 milioni di bambini soffrano già di malnutrizione acuta.

Save the Children chiede al governo del Sud Sudan di frenare la violenza comunitaria e accelerare l'attuazione dell'accordo di pace, per affrontare alcune delle cause profonde della crisi della fame e consentire ai bambini di guardare verso un futuro migliore.

Le cifre attuali sulla fame riportano 2,47 milioni di persone a livelli di emergenza di insicurezza alimentare (Ipc 4) e 31.000 persone che affrontano livelli catastrofici di insicurezza alimentare (Ipc 5) o condizioni simili alla carestia.

Save the Children è particolarmente preoccupata per il benessere di circa 1,4 milioni di bambini che dovrebbero soffrire di malnutrizione acuta quest'anno, la cifra più alta dal 2013.

La malnutrizione può causare arresto della crescita, ostacolare lo sviluppo mentale e fisico, aumentare il rischio di sviluppare altre malattie e alla fine anche la morte.

Già il mese scorso Save the Children aveva lanciato l’allarme sugli oltre 5,7 milioni di bambini sotto i cinque anni sull’orlo della fame in tutto il mondo, che sta affrontando la più grande crisi di fame globale del 21° secolo…”.

“La nascita di una nuova nazione è spesso un momento di speranza e gioia per molte delle persone che vivono al suo interno, ma purtroppo questa promessa deve ancora essere mantenuta nel Sud Sudan.

In molti modi, le cose sono peggiorate per i bambini da quando il Paese è stato formato nel 2011.

La guerra civile e gli shock climatici hanno tutti contribuito a spingere il Sud Sudan lontano da dove dovrebbe essere, dieci anni dopo.

Il Sud Sudan non è solo una storia di conflitto.

E’ una storia di generazioni di spostamenti deliberati di civili, distruzione di mezzi di sussistenza e occupazione della terra, aggravata da shock climatici come inondazioni senza precedenti e piaghe di locuste, e una storia di Covid-19 e la sua distruzione di infrastrutture sociali già vulnerabili.

Solo affrontando le cause profonde di questa crisi, oltre a mitigare gli effetti devastanti della pandemia, saremo in grado di impedire che una generazione soccomba alle conseguenze immediate e a lungo termine della malnutrizione” ha dichiarato Rama Hansraj, Direttore di Save the Children in Sud Sudan.

Ovviamente sono pienamente d’accordo con quanto denunciato da Save the Children e con le sue proposte.

Non ci dobbiamo occupare solo degli Europei di calcio. Non credete?

giovedì 8 luglio 2021

Come modificare il reddito di cittadinanza


In diversi articoli pubblicati nel sito www.lavoce.info ci si è occupati del reddito di cittadinanza e delle modifiche che devono essere introdotte affinchè gli obiettivi che si intendeva perseguire con la decisione di istituire il reddito di cittadinanza siano effettivamente raggiunti.

Io credo che le principali modifiche da realizzare siano quelle che consentano di eliminare i principali problemi che si sono venuti a creare.

Ed è del tutto evidente che pochi di coloro che hanno goduto e godono del reddito di cittadinanza sono riusciti a trovare un lavoro.

E in un articolo di Francesco Giubileo e Francesco Pastore, appunto pubblicato su www.lavoce.info, si spiega molto bene perché in pochi sono riusciti a trovare un lavoro tra i beneficiari del reddito di cittadinanza.

Solo il 44% (i dati risalgono al 2020 ma la situazione non dovrebbe essere cambiata notevolmente nel 2021) dei beneficiari del reddito di cittadinanza è stato preso in carico dai centri per l’impiego e solamente in 7.000 hanno trovato un’occupazione (i beneficiari erano circa 2.000.000 e i nuclei famigliari 800.000).

Secondo i due economisti citati “…In sostanza, la fase 2 del reddito di cittadinanza, ovvero quella dello sviluppo di una cosiddetta ‘App lavoro’ e l’utilizzo di quasi 3.000 navigator non hanno prodotto per il momento alcun risultato tangibile.

Il motivo è molto complesso.

Nell’ambito delle attività svolte dagli operatori dei centri per l’impiego, durante la fase dell’orientamento di base è previsto un ‘servizio di profilazione qualitativa’.

Attraverso un’apposita scheda, messa a disposizione in una specifica sezione di MyAnpal (la porta di accesso ai servizi digitali dell’Anpal), il servizio consente di definire per ciascun utente le azioni di ricerca attiva in un percorso individualizzato di inserimento, da formalizzare nel Patto di servizio personalizzato…

Il servizio di profilazione è entrato a regime a partire da ottobre 2019 e fino ad aprile 2020 risultavano registrati circa 10.500 utenti.

Le attività di profilazione registrate sono state nella maggior parte dei casi effettuate nell’ambito della misura del reddito di cittadinanza, che ha coinvolto circa il 90% del totale. Dal punto di vista della distribuzione geografica, solo cinque regioni (Calabria, Lazio, Liguria, Molise, Piemonte) hanno utilizzato concretamente lo strumento.

Nella maggior parte dei casi (il 74,3%) il Cpi è stato contattato per motivi di carattere amministrativo (rilascio della disponibilità al lavoro - did) e, più raramente, per la richiesta di informazioni o di servizi di orientamento (20,4%).

L’aspettativa principale degli utenti è quella di trovare un lavoro (in circa l’89% dei casi).

In pochi hanno l’obiettivo di intraprendere un percorso di formazione (il 7,7%) o di avviare un percorso di autoimprenditorialità (3%); praticamente inesistente è la partecipazione a progetti di accompagnamento al lavoro (1,4%).

Appare dunque evidente il desiderio di trovare immediatamente un lavoro e di non voler intraprendere un percorso di riqualificazione. Anche perché rispetto alla professione per la quale si cerca un’occupazione, i rispondenti dichiarano di possedere del tutto (nell’81% dei casi) o in parte (nel 14,8%) le capacità e le competenze necessarie per svolgerla (acquisite attraverso percorsi di formazione o mediante una lunga esperienza pregressa nel settore).

Malgrado ciò, sono solo poco più dell’11% gli intervistati che dichiarano di aver partecipato di recente a colloqui di selezione.

Quest’ultimo dato rappresenta un indicatore della ‘errata’ percezione da parte degli utenti di avere capacità e competenze valide per il mercato: la metà di essi, infatti, ha ricevuto solo opportunità di lavoro che risultavano con retribuzioni o tipologia contrattuale non adeguata e il resto non ha ricevuto nessuna offerta di lavoro.

Secondo il rapporto del ministero del Lavoro, il beneficiario del reddito di cittadinanza è una persona con bassa qualifica, over 35-45enne, che risulta disoccupato di lunga durata oppure occupato sporadicamente con contratti a termine, se non addirittura nel sommerso”.

Sarebbe stato necessaria la presenza di “figure professionali esperte, che possiedono conoscenze interdisciplinari in grado di risolvere casi non facili di collocamento al lavoro.

Nella maggior parte dei Paesi europei si tratta della nuova figura dell’operatore dei centri per l’impiego, per cui è necessario il possesso di un titolo universitario orientato al management pubblico, con competenze specifiche di pedagogia sociale, gestione del mercato del lavoro, psicologia e specializzazione in risorse umane.

Purtroppo, gli attuali ‘navigator’ non assomigliano neppure lontanamente a questa figura e ciò rappresenta un grosso problema, in quanto fra le maggiori difficoltà che ostacolano la ricerca di lavoro sembrano prevalere quelle di carattere psicologico, quali la demotivazione e la sfiducia in sé stessi (22,8%) o la percezione di non essere capaci di indirizzare in modo adeguato la propria attività di ricerca del lavoro (22,1%).

Non è possibile chiedere ai navigator di svolgere questo compito: la maggior parte di loro proviene da un percorso universitario di carattere giurisprudenziale del tutto inadeguato alla necessità. Tutt’al più, possono essere impiegati nei servizi alle imprese.

Ad aggravare la situazione è l’incapacità da parte degli utenti di cercare lavoro.

La maggior parte di loro infatti (61,6%) utilizza canali informali come amici, parenti e conoscenti, ottenendo scarsissimi risultati.

Solo il 32% utilizza i motori di ricerca del lavoro online (19,4% per gli over 55).

Il dato ci porta all’ultimo argomento, e che forse costituisce il tema di maggior dibattito, ovvero la realizzazione della famosa 'App lavoro' che faciliterebbe l’incontro fra domanda e offerta di lavoro.

Quasi nessuno è a conoscenza del fatto che, all’interno della piattaforma MyAnpal, già da luglio 2019 è presente l'applicativo 'Domanda e offera di lavoro' (Dol), che conta oggi circa 110.000 utenti.

Il 45% è costituito da imprese, che hanno pubblicato 2.500 offerte di lavoro, delle quali il 10% si è concretizzato in assunzioni registrate tramite comunicazione obbligatoria.

Poco, se confrontato con i più importanti motori di ricerca del lavoro online, basti pensare che Infojobs e Indeed contano dalle 40.000 alle 90.000 posizioni aperte in tutta Italia.

Il problema della piattaforma Dol non è tanto il suo livello di innovazione tecnologica, quanto la necessità di investire in una adeguata campagna di comunicazione per raggiunge una ‘massa critica’ di utenti e di imprese.

Anche una ‘App lavoro’ ampiamente utilizzata e la presenza capillare sul territorio italiano di 'case manager'  rappresenterebbe comunque solo il primo passo di un processo di riqualificazione complesso, che potrebbe richiedere anni e non garantire ampi margini di successo”.

A mio avviso, pertanto, i principali problemi, a parte le considerazioni sulle App, riguardano l’inadeguatezza dei cosiddetti “navigator” che si è inserita nell’inadeguatezza, che viene da lontano, dei centri per l’impiego e di coloro che vi operano.

Quindi solamente una radicale riforma dei centri per l’impiego, compresa anche la riforma del sistema dei “navigator”, potrebbe aumentare considerevolmente, come necessario, il numero dei beneficiari del reddito di cittadinanza che riescono effettivamente a trovare un lavoro.

lunedì 5 luglio 2021

Necessario firmare per il referendum sull'eutanasia legale

Da alcuni giorni è iniziata la raccolta delle firme per consentire la realizzazione di un referendum sull’eutanasia legale. La raccolta delle firme proseguirà fino al 30 settembre. E’ necessario firmare perché se il referendum si potrà svolgere e se prevarranno i sì si creeranno le condizioni affinchè anche in Italia l’eutanasia, in alcuni casi, diventi legale.

Sarà comunque necessario approvare una legge che definisca i casi e i modi in base ai quali sarà possibile praticare l’eutanasia.

Ma è del tutto evidente che un’ampia vittoria dei sì al referendum rappresenterà una forte spinta affinchè il Parlamento approvi una legge in materia. Anche perché già da alcuni una proposta di legge di iniziativa popolare sull’eutanasia legale è stata presentata in Parlamento ma non è stata nemmeno discussa.

Il quesito referendario consiste nell’abrogazione di una parte dell’articolo 579 del codice penale.

L’attuale formulazione è la seguente: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso:

contro una persona minore degli anni diciotto;

contro un persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;

contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”.

Con il quesito referendario si eliminano le parole da “la reclusione” a “si applicano”, indicate in precedenza in grassetto.

Si è scelto di effettuare la raccolta di firme, che devono raggiungere il numero di 500.000, anche nel periodo estivo, per consentire l’eventuale effettuazione del referendum entro il termine di questa legislatura, prima cioè dello svolgimento delle elezioni politiche del 2023.

I promotori della raccolta delle firme sono diversi, tra  i quali: l’associazione Luca Coscioni, l’Arci, la federazione dei Verdi, Più Europa, il Partito Socialista Italiano, Possibile, i Radicali Italiani, Rete Dem, Sinistra Italiana e Volt.

Per evidenziare alcune motivazioni alla base della scelta di firmare per il referendum sull’eutanasia legale mi limito a riportare alcune considerazioni di Laura Santi, una giornalista di 46 anni di Perugia, affetta da sclerosi multipla, contenute nel suo blog www.lavitapossibile.it:

“…Per tentare di convincere anche gli scettici o contrari voglio uscire dalla mia storia personale, e usare tre parole…

Clandestinità, perché non si può nasconderlo o far finta di non vedere il problema, centinaia di persone ogni anno non ci pensano neppure, a chiedere l’eutanasia legale. Si attrezzano altrimenti: con quello che il caso, la disperazione, i mezzi artigianali o contatti ‘fortunati’ consentono. Quante volte si sente nel lessico comune il termine ‘medico compiacente’? Come fosse una realtà normale. E può essere non solo un medico, ma un operatore, un assistente, un familiare (altrettanto disperato, a volte più del malato stesso). La verità nuda è questa, ed è bene capirla una volta per tutte: l’eutanasia in Italia già esiste ed è sempre esistita, e da sempre si pratica. Solo che è clandestina, illegale. Sono disposti, i contrari, a riconoscere questa realtà? Se sì – e mi auguro, sarebbe ipocrisia totale misconoscerla – visto che sono contrari, hanno degli strumenti tecnici da suggerire per impedirla? A parte un ‘occhio divino’ o non so cos’altro? E in ogni caso: andrebbe bene così? Qualsiasi calvario deve essere accettato?

La seconda parola è sofferenza, appunto. Sofferenza silenziosa. In mancanza di una legge e con la sola giurisprudenza a disposizione (la cosiddetta sentenza Cappato del 2019, il caso Dj Fabo) i malati oggi si appellano ad essa (i malati che rientrano nei requisiti stabiliti dalla Cassazione, quindi non tutti, poi ci torno). E’ bene sapere - pure io l’ho scoperto da poco, con la formazione per gli attivisti del referendum, e non mi ha fatto piacere - che dal 2019 a oggi di fatto nessuna libertà si è dischiusa, perché la sentenza Cappato non è mai stata presa in considerazione da sanità e territorio, per i malati che ne hanno fatto richiesta. Il solo, recentissimo caso del tribunale di Ancona per Mario, paziente tetraplegico, è stato una notizia enorme e una svolta giurisprudenziale. Ma solo oggi, dopo ben due anni. I malati continuano a soffrire e senza una legge continueranno, a soffrire: perché i tempi della giustizia italiana sono maledettamente lenti. Passeranno sempre mesi o più spesso anni, prima che un malato riesca a far applicare una sentenza (se gli va bene). E nel frattempo, quanto tempo di sofferenza è passato?

La terza parola è discriminazione. Come accennavo sopra. La verità è che anche volendo uscire dalla clandestinità, anche attraversando mesi o anni di sofferenza, a oggi soltanto i malati che rientrano nella fattispecie prevista dalla sentenza Cappato – vedi Davide Trentini, altro caso di assoluzione sempre per Cappato e Mina Welby - cioè quelli ‘dipendenti da trattamenti di sostegno vitale’ - più o meno quello che una volta si definiva essere attaccati a una macchina – possono sperare di veder riconosciuto il diritto alla morte assistita. E gli altri?  Tutte le persone con patologie o disabilità gravissime – si pensi agli oncologici o alle persone affette da neurodegenerative, ma è solo un esempio, che mi viene più facile perché ci rientro - sono escluse dallo stesso identico diritto…”.

giovedì 1 luglio 2021

Una vergogna la mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere


E’ una vera e propria vergogna il fatto che il 6 aprile 2020 si siano verificati ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere numerosi e pesanti pestaggi ad opera della polizia penitenziaria. Quanto avvenuto ha suscitato da qualche giorno notevole attenzione da parte dei media in seguito alla decisione della Procura competente di indagare 52 agenti.

Le dichiarazioni della sezione italiana di Amnesty International e dell’associazione Antigone, che si occupa delle condizioni dei detenuti in Italia, testimoniano la gravità della situazione.

Il portavoce della sezione italiana di Amnesty International ha dichiarato:

Le immagini diffuse dal quotidiano ‘Domani’ su ciò che avvenne il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e che il giudice per le indagini preliminari ha definito ‘una orribile mattanza’ lasciano senza fiato”.

Come 19 anni prima a Bolzaneto, funzionari dello Stato hanno infierito su persone in loro custodia immaginando che le loro azioni non sarebbero diventate pubbliche o comunque confidando nell’impunità.

Ma a differenza del 2001, ora la parola 'tortura' nel codice penale esiste.

Chiediamo che la legge approvata dal parlamento italiano nel 2017 sia applicata", ha aggiunto Noury.

Portare solidarietà, come annunciato da leader politici, a funzionari dello Stato accusati di aver praticato torture e inequivocabilmente ripresi nell’atto di compierle non solo è irresponsabile ma procura un danno a tutti gli operatori delle forze di polizia che quotidianamente svolgono il loro lavoro, in condizioni spesso difficili e nel rispetto dei diritti umani”, ha proseguito Noury.

Per una drammatica coincidenza, le immagini di Santa Maria Capua Vetere sono state diffuse mentre erano già in rete le riprese di un brutale intervento dei carabinieri a Milano, all’alba del 27 giugno. Sebbene le ricostruzioni di quanto accaduto nei minuti precedenti siano parziali e contraddittorie, le manganellate che si vedono sono comportamenti inaccettabili”, ha concluso Noury.

Gli avvocati Simona Filippi e Luigi Romano, in rappresentanza dell’associazione Antigone, hanno scritto:

“Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nei giorni della Settimana Santa, un commando di oltre un centinaio di poliziotti, a viso coperto e in tenuta antisommossa, secondo le testimonianze, entrava nell’istituto dando vita ad un pestaggio disumano ai danni dei detenuti reclusi nel reparto Nilo.

Queste denunce sono state poste all’attenzione della nostra Associazione da diversi familiari dei ristretti nelle immediate ore successive al 6 aprile 2020. Da subito abbiamo avuto la percezione che quello di cui ci veniva raccontato avrebbe costituito una grave sospensione delle garanzie del nostro stato di diritto, che aveva condotto all’esercizio incondizionato e brutale della violenza da parte delle forze dell’ordine. 

In questi mesi abbiamo monitorato l’andamento delle indagini, stimando il riserbo e il rigore con cui la Procura della Repubblica ha coordinato le investigazioni.

Rispettosi del principio di presunzione di innocenza, che sosteniamo in ogni stato e grado del procedimento, riteniamo che gli eventi emersi nel corso di queste indagini siano agghiaccianti.

Se davvero fu organizzata e pianificata nei dettagli, la ‘Mattanza della Settimana Santa’ disegnerebbe i contorni di un modello (che, purtroppo, abbiamo visto ripetersi nel corso anche di altre rivolte del periodo Covid) con cui le forze dell’ordine hanno inteso ripristinare i rapporti di forza all’interno del penitenziario: pestaggi congiunti delle squadre all’interno delle singole celle e nei corridoi della sezione, detenuti denudati e insultati, messi in ginocchio e colpiti ripetutamente con manganelli, pugni e calci.

Infatti, la perquisizione, ordinata sulla base delle proteste dei detenuti scaturite per il timore del contagio il 5 aprile precedente, secondo gli inquirenti, rappresentava soltanto il pretesto per agire con l’obiettivo di massacrare il corpo recluso.

Le ipotesi di reato sono importanti, secondo la Procura ‘i Pubblici ufficiali sono gravemente indiziati dei delitti di concorso in molteplici torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio’.

L’episodio di Santa Maria ha segnato una evidente lesione della nostra democrazia, colpendola in un momento delicato in cui il sistema penitenziario si mostrava incapace a gestire e contenere la diffusione del virus all’interno delle carceri e la notizia odierna di 52 agenti di polizia penitenziaria colpiti da ordinanza cautelare e del Provveditore regionale colpito da ordinanza interdittiva ne è la triste conferma.

Pertanto, riteniamo che queste indagini, al di là delle posizioni soggettive, possano fare chiarezza su alcune contraddizioni del sistema come l’esercizio della forza in contesti di reclusione - nervo scoperto del nostro ordinamento -, assolvendo quella domanda di giustizia emersa in seguito alle violenze esplose in questi mesi”.