mercoledì 28 febbraio 2018

Un minore su due in povertà relativa vive al Sud



E’ stata recentemente presentata la ricerca “La povertà minorile ed educativa. Dinamiche territoriali, politiche di contrasto, esperienze sul campo”, realizzata da Srm (centro studi collegato al gruppo Intesa Sanpaolo) con il supporto di Fondazione Banco di Napoli e Compagnia di San Paolo. L’obiettivo della ricerca è stato quello di illustrare il quadro statistico-economico della relazione tra povertà minorile e povertà educativa a livello europeo, nazionale e del Mezzogiorno in particolare.
Un altro obiettivo è stato quello di tracciare un quadro delle politiche pubbliche e degli interventi per contrastare il rischio di povertà dei minori mediante l’approfondimento dei principi generali, degli obiettivi assunti e degli strumenti utilizzati a livello comunitario e nazionale.
La ricerca ha poi avuto l’ulteriore obiettivo di riportare alcuni esempi di esperienze, iniziative e progetti che sono nati nel nostro Paese, proponendo anche un confronto con esperienze estere.
Quali sono i principali risultati della ricerca?
Nell’Unione europea sono circa 25 milioni i bambini a rischio povertà o esclusione sociale.
In Italia quasi 1,3 milioni di minori vivono in condizioni di povertà assoluta e quasi 2,3 milioni sono in situazioni di povertà relativa.
Nel Mezzogiorno circa 500.000 vivono in condizioni di povertà assoluta e 1,2 milioni sono in situazioni di povertà relativa (rispettivamente il 39% e il 52% del totale nazionale). Un minore su due in povertà relativa vive al Sud.
Poco più di un europeo su 10 tra i 18 e i 24 anni (il 10,8%) non consegue il diploma di scuola superiore e lascia prematuramente ogni percorso di formazione (early school leavers), percentuale che sale al 13,8% per l’Italia e al 18,4% per il Mezzogiorno.
In Italia i Neet (Not in education, employment or training), i giovani che non studiano e che non lavorano, sono oltre 3,2 milioni, (il 26% della fascia dei giovani tra i 15 e i 34 anni). Nel Mezzogiorno sono 1,8 milioni, oltre la metà del totale nazionale.
E’ bene precisare che la povertà relativa è un parametro che esprime le difficoltà economiche nella fruizione di beni e servizi, riferita a persone o ad aree geografiche, in rapporto al livello economico medio di vita dell'ambiente o della nazione.
Questo livello è individuato attraverso il consumo pro-capite o il reddito medio, ovvero il valore medio del reddito per abitante, quindi, la quantità di denaro di cui ogni cittadino può disporre in media ogni anno e fa riferimento a una soglia convenzionale adottata internazionalmente che considera povera una famiglia di due persone adulte con un consumo inferiore a quello medio pro-capite nazionale.
Questo tipo di povertà si distingue dal concetto di povertà assoluta, che indica invece l'incapacità di acquisire i beni e i servizi, necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabile nel contesto di appartenenza.
Infine, con la nozione di povertà educativa, s’intende sottolineare che esistono anche disuguaglianze nelle competenze e nelle conoscenze acquisite durante i processi formativi.

venerdì 23 febbraio 2018

Ogni anno 2,6 milioni di neonati non sopravvivono al primo anno di vita


Secondo il nuovo rapporto dell’Unicef “Ogni bambino è vita”, nonostante i grandi successi ottenuti nella riduzione della mortalità infantile globale (0-5 anni), il tasso di mortalità neonatale (0-1 anno) rimane allarmante, in particolare nei Paesi più poveri del mondo. Ogni anno 2,6 milioni di neonati  non sopravvivono al primo mese di vita. Addirittura, un milione di essi muoiono nello stesso giorno in cui sono venuti alla luce. Altri 2,6 milioni nascono morti.
Ciascuna di queste morti è una tragedia, soprattutto perché molto spesso è prevenibile.
Oltre l’80% delle morti neonatali è causata da parto prematuro, complicanze durante il travaglio e il parto, nonché infezioni come setticemia, meningite e polmonite. Cause analoghe, in particolare le complicanze durante il travaglio, sono responsabili di gran parte delle morti perinatali.
Milioni di giovani vite potrebbero essere salvate ogni anno se madri e neonati potessero accedere a un’assistenza sanitaria di qualità, a una buona alimentazione e ad acqua pulita. Ma troppo spesso anche queste misure basilari sono fuori dalla portata delle madri e dei neonati che ne hanno più bisogno.
Il tasso di mortalità dei bambini di età compresa tra 1 mese e 5 anni è diminuito notevolmente negli ultimi decenni. Ma i progressi nel ridurre la mortalità dei neonati - di età inferiore a 1 mese - sono stati meno incisivi, perché ancora oggi ne muoiono 7.000 al giorno.
Ciò è in parte dovuto al fatto che le morti neonatali sono difficili da affrontare con un singolo farmaco o intervento, ma richiedono un approccio sistematico. E’ anche dovuto alla mancanza di slancio e di impegno globale per la sopravvivenza neonatale.
Si sta fallendo verso i più giovani e i più vulnerabili del pianeta, e quando sono in gioco così tanti milioni di vite umane, il tempismo è fondamentale.
Come evidenzia il rapporto, il rischio di morte neonatale varia enormemente in base a dove nasce un bambino.
I bambini nati in Giappone hanno le più alte probabilità di sopravvivere, solo 1 neonato su 1.000 muore durante i primi 28 giorni. I bambini nati in Pakistan hanno le aspettative peggiori: ogni 1.000 bambini nati, 46 muoiono prima della fine del loro primo mese - quasi 1 su 20.
La sopravvivenza neonatale è strettamente legata al livello di reddito di un paese. I Paesi ad alto reddito hanno un tasso medio di mortalità neonatale (il numero di decessi per mille nascite) pari a 3.
A confronto, i Paesi a basso reddito hanno un tasso di mortalità neonatale di 27.
Questo divario è emblematico: se ogni Paese riducesse il proprio tasso di mortalità neonatale al tasso medio dei Paesi ad alto reddito, o inferiore, entro il 2030, si potrebbero salvare 16 milioni di vite appena nate.
Tuttavia, il livello di reddito di un Paese è solo uno dei parametri. In Kuwait e negli Stati Uniti d’America, entrambi Paesi ad alto reddito, il tasso di mortalità neonatale è 4. Questo è solo leggermente migliore rispetto ai Paesi a reddito medio-basso come lo Sri Lanka e l’Ucraina, dove il tasso di mortalità neonatale è 5. Il Ruanda, un paese a basso reddito, ha più che dimezzato il proprio tasso di mortalità neonatale negli ultimi decenni, riducendolo da 41 nel 1990 a 17 nel 2016, il che mette il Paese ben al di sopra dei Paesi a reddito medio-alto come la Repubblica Dominicana, dove il tasso di mortalità neonatale è 21.
Ciò dimostra che l’esistenza della volontà politica di investire in sistemi sanitari solidi, che diano la priorità ai neonati e raggiungano i più poveri e i più emarginati, riveste un’importanza fondamentale e può fare la differenza, anche dove le risorse sono limitate.
Inoltre, i tassi di mortalità nazionale spesso nascondono variazioni all’interno dei Paesi: i bambini nati da madri senza istruzione affrontano un rischio di morte durante il periodo neonatale quasi doppio rispetto ai bambini nati da madri con almeno un’istruzione secondaria.
I bambini nati nelle famiglie più povere hanno oltre il 40% di probabilità in più di morire durante il periodo neonatale rispetto a quelli nati nelle famiglie meno povere. Se consideriamo le cause alla radice, questi bambini non muoiono per ragioni mediche come il parto pretermine o la polmonite. Muoiono perché le loro famiglie sono troppo povere o emarginate per accedere alle cure di cui hanno bisogno. Tra tutte le ingiustizie del mondo, questa è probabilmente la più grave.
La buona notizia è che il progresso è possibile, anche quando le risorse sono scarse. I successi registrati in paesi come il Ruanda danno speranza e sono di insegnamento per altri Paesi impegnati a garantire la vita a tutti i bambini.
Nello specifico, dimostrano che ci sono due passi fondamentali da compiere:
- aumentare l’accessibilità all’assistenza sanitaria
- migliorare la qualità di tale assistenza
Bassi livelli di accessibilità ai servizi sanitari materni e neonatali forniti da operatori qualificati sono strettamente correlati ad alti tassi di mortalità neonatale. In Somalia, un paese con uno dei più alti tassi di mortalità neonatale al mondo (39), c’è un solo medico, infermiera o ostetrica per ogni 10.000 abitanti. Nella Repubblica Centrafricana, dove il tasso di mortalità neonatale è 42, ce ne sono solo tre.
In confronto la Norvegia, che ha un tasso di mortalità neonatale di 2, ha 218 operatori sanitari qualificati per ogni 10.000 abitanti. Il Brasile, un Paese a reddito medio-alto con un tasso di mortalità neonatale di 8, ne ha 93.
Migliorare l’accessibilità ai servizi sanitari materni e neonatali è quindi un primo passo necessario per ridurre i tassi di mortalità neonatale.
E comunque, se la qualità dei servizi è scarsa, la semplice presenza di una struttura sanitaria o di un operatore sanitario non è sufficiente per fare la differenza tra la vita e la morte.
Salvare vite umane non è mai semplice e nessun governo o nessuna istituzione, singolarmente, riuscirà a porre fine alle morti neonatali prevenibili. Fornire assistenza sanitaria di qualità a prezzi accessibili per ogni madre e bambino, a partire dai più vulnerabili, richiederà:
- strutture: presidi sanitari puliti e funzionanti dotati di acqua, detergenti ed elettricità disponibili per ogni madre e bambino;
- professionisti: assumere, formare, mantenere e gestire un numero adeguato di medici, infermiere e ostetriche con le conoscenze e le competenze necessarie per salvare vite appena nate;
- strumenti: rendere i 10 farmaci e le attrezzature salvavita più importanti disponibili per ogni madre e bambino;
- emancipazione: riconoscere alle ragazze adolescenti, alle madri e alle famiglie il potere di chiedere e ricevere assistenza di qualità.

mercoledì 21 febbraio 2018

Non votare nè i leghisti nè i grillini


Non è stato certo facile, almeno per me, decidere quale lista votare in occasione delle elezioni politiche che si terranno il prossimo 4 marzo. Ma sono certo, invece, che non si deve assolutamente votare per la Lega né per il movimento 5 stelle. I motivi sono ovviamente diversi, ma in entrambi i casi molto validi.
Quali sono questi motivi?
Inizio con la Lega, capeggiata da Matteo Salvini.
La Lega, infatti, proprio sotto la spinta di Salvini, ha sempre di più assunto la natura di un partito xenofobo se non addirittura razzista.
I leghisti sono diventati, volutamente, dei veri e propri imprenditori della paura, tentando di diffondere la paura del diverso e soprattutto dello straniero, dell’immigrato.
E per raggiungere questo obiettivo hanno anche alterato considerevolmente i dati reali: sostengono che si stia assistendo ad un’invasione di immigrati, soprattutto di colore, invasione del tutto inesistente.
E, anche per questa loro natura sempre più xenofoba e razzista, hanno accolto tra le loro fila persone dichiaratamente neofasciste.
E poiché ritengo che la xenofobia, il razzismo e il neofascismo siano fenomeni molto pericolosi e da contrastare con decisione, sono convinto, senza alcun dubbio, che non si debba votare per la Lega e che quindi sarebbe necessario che questo partito ottenga il minor numero di voti possibile.
Mi auguro, inoltre, che anche il movimento 5 stelle non riscuota un notevole successo elettorale.
I motivi sono altri, anche se in parte del movimento sono presenti tendenze xenofobe.
Il motivo principale che mi spinge a non votare e a chiedere di non votare per i grillini è rappresentato dalla loro incapacità di governare.
Lo hanno dimostrato nell’amministrazione dei Comuni, grandi e piccoli, da loro guidati.
Se non hanno saputo amministrare dei Comuni, è del tutto evidente che non saranno in grado di governare una nazione.
Inoltre se non sono riusciti a controllare le restituzioni dei compensi di un certo numero di parlamentari, figurarsi se sarebbero capaci di controllare i conti di uno Stato.
Io non voterò neanche altre liste. E in un altro post ho spiegato perché voterò +Europa, la lista con a capo Emma Bonino.
Ma, a mio avviso, sono soprattutto le liste della Lega e del movimento 5 stelle che non dovranno essere votate, assolutamente.

domenica 18 febbraio 2018

#SMuoviti, per i malati di sclerosi multipla


L’Aism (associazione italiana sclerosi multipla) compie 50 anni e lancia una nuova campagna d’azione: #SMuoviti. Un anno pieno di appuntamenti importanti per celebrare il lavoro svolto fino a qui e per lanciare una sfida: dare un futuro alle persone con sclerosi multipla oltre la malattia. Come? Finanziando la ricerca di qualità.
Angela Martino, presidente dell’Aism ha, a tale proposito, ha affermato: “In questi decenni Aism ha sensibilizzato l’opinione pubblica ed è riuscita a far uscire dall’ombra una malattia che era sconosciuta ai più. Non solo, oggi le persone con sclerosi multipla sono informate ed esse stesse fonte di informazione, sanno di poter essere ascoltate dalle istituzioni ed esigono diritti”.
In effetti l’Aism, fin dalle sue origini, ha chiesto per i malati di sclerosi multipla maggiori diritti e migliore ricerca.
Aism si è concentrata sulla promozione della ricerca scientifica d’eccellenza, rigorosa, che cambia concretamente la qualità di vita della persona.
Un impegno concreto: 20 milioni di euro solo negli ultimi 3 anni che hanno reso Aism, insieme a Fism, i principali finanziatori della ricerca sulla sclerosi multipla in Italia.
E Mario Alberto Battaglia, presidente della Fism (federazione italiana sclerosi multipla) ha dichiarato: “Abbiamo fatto molto ma c’è ancora tanto da fare e servono molti più fondi perché la ricerca possa raggiungere il suo obiettivo: trovare la cura definitiva per la sclerosi multipla.
Alla nostra fondazione nel 2017 attraverso un bando, sono arrivate richieste di 208 progetti da finanziare che sono stati valutati da un comitato scientifico internazionale. Per finanziare tutti quelli considerati validi, di più alto valore scientifico, parliamo di 100 progetti di ricerca, sarebbero serviti 12 milioni di euro mentre noi ne abbiamo potuti mettere a disposizione solo 3 milioni e abbiamo potuto finanziare solo 34 progetti di ricerca”.
Battaglia ha poi aggiunto: “Grazie al 5 per 1000 e al contributo di tanti donatori che seguono le nostre raccolte fondi ad oggi possiamo mettere a disposizione dei ricercatori, in media ogni anno, solo 6 milioni di euro, 3 milioni per il bando e 3 milioni per i progetti speciali, ma non basta.
Dobbiamo raddoppiare i fondi per la ricerca per poter finanziare tutti i progetti che la fondazione considera strategici per vincere la sclerosi multipla. Dobbiamo essere tutti impegnati ad aumentare i fondi per la ricerca perché abbiamo progetti e ricercatori italiani eccellenti che possono cambiare la storia della sclerosi multipla”.
Ecco perché, in occasione della celebrazione dei 50 anni  e a pochi giorni dalla pubblicazione del bando 2018 per la ricerca, Aism ha lanciato una nuova campagna di mobilitazione, #SMuoviti: una chiamata all’azione che mette di nuovo al centro la persona con sclerosi multipla, con le sue fragilità e difficoltà motorie, ma anche e soprattutto con la sua dignità e consapevolezza.
Il movimento - e la paura di perderne la capacità - è infatti uno dei problemi principali per una persona con sclerosi multipla ma è anche l’azione che ha permesso in tutti questi anni di raggiungere risultati importanti e ottenere diritti e farmaci. Ed è anche il senso dell’attività che tutta la comunità di Aism svolge nei confronti dell’intera società, per perseguire e raggiungere i propri obiettivi.
“Con SMuoviti chiediamo a tutti di agire concretamente, insieme alla nostra comunità, per costruire insieme un futuro migliore per le persone con sclerosi multipla”, ha concluso Angela Martino, presidente Aism.

mercoledì 14 febbraio 2018

Razzismo almeno 5 casi di discriminazione al giorno


La diffusione in Italia, negli ultimi periodi, di fenomeni di razzismo è evidente. Lo sostengono 16 associazioni ed enti locali che fanno parte del progetto “Voci di Confine”. Pur limitandosi agli ultimi dati disponibili, forniti dall’Unar (ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri) e relativi al 2016, si sono verificati in quell’anno 2.652 episodi di discriminazione, il 69% - ovvero più di 1.800 - riguarda fatti discriminatori per motivi razziali, con una media di 5 al giorno.
Nel comunicato dei soggetti promotori del progetto “Voci di Confine”, oltre a citare i dati dell’Unar, si osserva che l’Odihr (office for democratic institutions and human rights) dell’Osce, che raccoglie ogni anno i dati sugli “hate crimes”in Italia, ha segnalato che su 555 crimini d’odio rilevati dalle forze dell’ordine nel 2015 369 erano stati relativi a episodi di razzismo e xenofobia. A cui si aggiungono altri 101 casi riportati da organizzazioni della società civile.
La relazione della commissione d’indagine del Parlamento Italiano su fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia, e razzismo (nota come commissione Jo Cox) ha poi dimostrato l’esistenza di una “piramide dell’odio” alla cui base ci sono stereotipi, rappresentazioni false o fuorvianti, insulti, linguaggio ostile “normalizzato” o banalizzato e, ai livelli superiori, le discriminazioni e quindi il linguaggio e i crimini di odio.
“Cavalcare lo stereotipo che la presenza degli immigrati sia la base di tutti i problemi degli italiani o mettere in connessione l’immigrazione con il tema della sicurezza, si sta dimostrando una tendenza molto pericolosa” ha dichiarato Renata Torrente, referente di Voci di Confine per Amref, organizzazione capofila.
“La narrazione sui cittadini di origine straniera presenti in Italia va normalizzata su dati precisi di realtà e con informazioni corrette; l’intento di Voci di Confine è anche contrastare il razzismo mettendo in piedi una campagna di comunicazione e azioni di sensibilizzazione che usano e citano ricerche, dati e fonti autorevoli sul fenomeno della migrazione, chiamando tutti alla responsabilità di fare altrettanto se si vogliono sostenere o mettere a confronto opinioni diverse”, ha affermato ancora Renata Torrente.
“Gli avvenimenti occorsi a Macerata nei giorni scorsi sono un campanello di allarme che non dobbiamo sottovalutare come cittadini, prima di tutto, e poi come operatori del terzo settore”, ha dichiarato Simone Bucchi, Presidente di Csv Marche, una delle organizzazioni che fanno parte del progetto Voci di Confine.
“Da anni siamo impegnati per rafforzare le reti territoriali che mettono al centro i bisogni delle persone più vulnerabili, e continueremo a farlo con ancora maggior convinzione, lavorando nel mondo del volontariato, rivolgendoci ai giovani e ai ragazzi, interloquendo con gli enti locali e con tutti coloro che come noi credono fermamente che le Marche siano una regione plurale, solidale e accogliente verso ogni individuo desideroso di costruirsi un futuro qui, a prescindere dal colore della pelle o dalla religione professata. Il nostro impegno nel progetto Voci Di Confine sarà, per queste ragioni, ancora più consapevole e ci rendiamo disponibili a dialogare con tutti coloro che vogliono impegnarsi per raccontare una storia diversa della migrazione e dell’accoglienza”, ha concluso Bucchi.

La Rete della Diaspora Africana (Redani), parte del progetto Voci di confine, ha dichiarato, in merito al ferimento a Macerata di cinque persone: “Riteniamo che questo atto di una gravità enorme sia la conferma della regressione culturale in corso nel Paese. Non crediamo che il sig. Luca Traini abbia un mandante per il crimine commesso, ma siamo convinti che questo atto criminale si è potuto commettere, perché c’è un clima generalizzato di intolleranza verso lo straniero”.

domenica 11 febbraio 2018

Votare +Europa con Emma Bonino


Non sarà facile scegliere chi votare in occasione delle prossime elezioni politiche che si terranno il 4 marzo. Almeno per me e per molti che la pensano come. Iscritti ed elettori del Pd ma che sempre più spesso sono in disaccordo con le decisioni del segretario di quel partito, Matteo Renzi, pur se, come il sottoscritto, inizialmente erano suoi sostenitori. C’è però una possibilità alternativa: votare la lista +Europa guidata da Emma Bonino, che fa parte della coalizione di centrosinistra all’interno della quale è presente anche il Pd.
Perché è possibile, anzi è opportuno, votare +Europa?
Innanzitutto perché è guidata da Emma Bonino.
Emma è stata ed è un esponente politico anomalo per l’Italia. Ha sempre privilegiato non il proprio interesse personale o la ricerca di una posizione di potere, ma, invece, ha tentato di soddisfare esigenze di carattere generale, i suoi principi, i suoi valori, tendenti soprattutto a tutelare e a sviluppare i diritti civili, spesso di natura etica, generalmente sottovalutati dal mondo politico, ma di estrema importanza per la vita quotidiana dei cittadini italiani.
Ha condotto, con grande impegno, battaglie di notevole rilievo, che all’inizio sembravano minoritarie, ma che poi hanno riscosso un grande successo, prima fra tutte quella per l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della possibilità, da parte delle donne, di interrompere la gravidanza, a certe condizioni.
Ma molte altre possono essere citate. Ne cito ancora solo una: quella sul “fine vita” che ha reso possibile il cosiddetto testamento biologico.
Quindi Emma Bonino può essere considerata un personaggio politico di elevata statura culturale e politica e per questo l’apprezzo molto, un motivo molto importante per indurmi a votare la lista da lei guidata.
Inoltre il programma della lista +Europa è per me ampiamente condivisibile.
E, senza addentrarmi nei dettagli del programma, mi sembra sufficiente riportare la premessa, per giustificare il mio giudizio positivo.
“Per affrontare le grandi questioni del nostro tempo occorrono risposte più ampie che può dare solo un’Italia più europea in un’Europa unita e democratica.
Un’Europa per il benessere e contro la povertà, per le libertà fondamentali e contro ogni forma di discriminazione, per l’accoglienza e l’integrazione con regole certe e contro l’indifferenza, per la sicurezza e contro il terrorismo.
Un’Europa votata all’innovazione tecnologica e alla ricerca scientifica, alla valorizzazione del patrimonio storico e ambientale, alla tutela della concorrenza in un mercato aperto e alla creazione di opportunità e lavoro.
Vogliamo farlo a partire dall’Italia, abbattendo i muri reali e immaginari eretti dai nazionalismi, dall’odio e dal populismo e dobbiamo farlo perché la Storia ha dimostrato dove questi portano: indietro, mai avanti. È tempo di dire che per guardare al futuro dell’Italia non serve meno Europa, anzi.
Per avere - anche in Italia - più crescita, più diritti, più democrazia, più libertà, più opportunità, più sicurezza, più rispetto dell’ambiente, serve più Europa.
Per queste ragioni Radicali italiani, Forza Europa e Centro Democratico alle prossime elezioni hanno deciso di promuovere +Europa con Emma Bonino”.

mercoledì 7 febbraio 2018

Caccia, chiusa la stagione. Per il Wwf bilancio negativo


Il 31 gennaio si è chiusa la stagione venatoria. Per il Wwf Italia il bilancio finale è negativo. Solo rari infatti i segnali positivi per la tutela della fauna selvatica e il rispetto della legalità, ai quali si sono contrapposti, tra l’altro, l’aumento dei morti per caccia, l’incremento del bracconaggio anche su specie protette, i provvedimenti delle Regioni sempre a vantaggio dei cacciatori e contro la tutela di animali.
Il Wwf, in suo comunicato, ha esposto i singoli aspetti negativi che hanno contraddistinto la stagione venatoria.
Si sono verificati numerosi e gravi incidenti di caccia. A novembre 2017, il Wwf ha sentito l’esigenza di richiamare l’attenzione del ministro dell’Interno, evidenziando come in meno di due mesi si erano già registrate 44 vittime a causa dei cacciatori. Una situazione che a fine dicembre si era ulteriormente aggravata con ben 25 morti e 58 feriti.
Il Wwf, poi, si è trovato a dover arginare proposte di legge finalizzate a deregolamentare ulteriormente il settore a tutto vantaggio della potente lobby dei cacciatori e dell’ancora più potente lobby dei produttori di armi.
Non è andata meglio sul versante delle Regioni che hanno fornito pessime prestazioni lungo quasi tutta la Penisola. Tutte le Regioni, ad eccezione dell’Abruzzo, hanno dato il peggio di sé all’inizio della stagione venatoria: invece di rinviare ad ottobre l’avvio della caccia per dare una tregua e consentire di riprendersi agli animali selvatici stremati dal caldo estremo, dagli estesi incendi e dalla siccità, hanno anticipato la stagione venatoria.
Ma non basta. Solo nei mesi di dicembre 2017 e gennaio 2018 vi è stato un fiorire di leggi regionali non conformi alla legge quadro sulla caccia (legge 157/1992): la Lombardia e la Liguria hanno stabilito regole sull’annotazione dei capi abbattuti che di fatto impediscono un reale controllo, il Veneto ha “regalato” 350.000 euro alle associazioni venatorie “per finanziare progetti di informazione e di sensibilizzazione dei cacciatori”, a vari scopi tra i quali “contrastare il deprecabile fenomeno del bracconaggio” (dimenticando che gli atti di bracconaggio non sono semplicemente fenomeni da deprecare, ma reati sanzionati dal codice penale che chi possiede una licenza di caccia dovrebbe conoscere bene). 
Le Marche hanno finanziato iniziative delle associazioni venatorie, legate alla “cultura e tradizioni dei cacciatori” definiti “valorizzatori dell’habitat e dell’ecosistema”, lasciando invece senza fondi i centri di educazione ambientale regionali; ancora la Liguria ha approvato una legge che non rispetta il divieto nazionale di commercio di fauna selvatica. la Puglia ha ridefinito il concetto di “esercizio venatorio”, limitandolo al solo impiego di “armi pronte all’uso e cariche”. Tutti provvedimenti sempre e solo a vantaggio dei cacciatori, anzi a vantaggio di quei cacciatori/bracconieri che non vogliono controlli.   
E proprio sul bracconaggio si sono registrate le notizie peggiori: uccisioni di specie protette, detenzione illegali o gravi maltrattamenti ai danni di animali selvatici, molti dei quali durante la stagione di caccia.
Cosa propone il Wwf per il futuro?
Poiché anche questa stagione venatoria ha dimostrato la difficoltà del nostro Paese ad allinearsi agli standard internazionali ed europei in materia di tutela della fauna selvatica e di prelievo venatorio, va totalmente invertita questa situazione in cui l’unico elemento positivo è la costante diminuzione del numero dei cacciatori.
E’ necessario migliorare e aumentare l’attività di vigilanza venatoria da parte delle forze dell’ordine e delle Amministrazioni locali. Va agevolata la nomina di nuove guardie volontarie delle associazioni di protezione ambientale, favorendone le attività nell’affiancamento alle forze di polizia.
Vanno aumentati i controlli, vanno introdotte regole più severe sul rilascio e sul rinnovo delle licenze di caccia.
Va ridotto il periodo di caccia, così come vanno ridotte le aree aperte a tale attività che costituisce un reale pericolo per agricoltori, escursionisti o altre categorie che sempre più spesso sono vittime di “incidenti” di caccia.
E al nuovo Parlamento che si insedierà a marzo, il Wwf Italia chiederà una riforma del sistema sanzionatorio penale per l’uccisione, le catture illegali, il commercio illecito di animali appartenenti a specie protette dalle normative nazionali, europee o internazionali con l’introduzione del “delitto di uccisione di specie protetta”.

domenica 4 febbraio 2018

Oltre 3 milioni i lavoratori in nero. Necessario diminuirli


Sono 3,3 milioni i lavoratori irregolari in Italia. Questo è il principale risultato di una ricerca realizzata dal Censis e da Confcooperative. Si sostiene inoltre che il lavoro nero è aumentato in seguito alla crisi economica. E la sua notevole diffusione ha interessato molti settori produttivi. Le regioni dove tale fenomeno è risultato essere più consistente sono state la Calabria, la Campania e la Sicilia.
“Attraverso questo focus – ha affermato Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative - denunciamo ancora una volta e diciamo basta a chi ottiene vantaggio competitivo attraverso il taglio irregolare del costo del lavoro che vuol dire diritti negati e lavoratori sfruttati. Se le false cooperative sfruttano oltre 100.000 lavoratori, qui fotografiamo un’area grigia molto più ampia che interessa le tantissime false imprese di tutti settori produttivi che offrono lavoro irregolare e sommerso a oltre 3,3 milioni di persone”.
Nel periodo 2012-2015 (ultimi dati disponibili), mentre l’occupazione regolare si è ridotta del 2,1%, l’occupazione irregolare è aumentata del 6,3%, portando cosi a oltre 3,3 milioni i lavoratori in nero.
La crisi ha inciso negativamente sulla stabilità del reddito e del lavoro che per molti si è tradotto in una rincorsa affannosa a “un lavoro a ogni costo”, all’accettazione di condizioni lavorative peggiorative e, nello stesso tempo, alla diffusione di comportamenti opportunistici che hanno alimentato l’area dell’irregolarità nei rapporti di lavoro, l’evasione fiscale e contributiva, il riemergere di fenomeni di sfruttamento del lavoro.
Nel periodo 2012-2015 mentre nell’economia regolare venivano cancellati 462.000 posti di lavoro (260.000 riconducibili a lavoro svolto alle dipendenze e 202.000 nell’ambito del lavoro indipendente), la schiera di chi era occupato illegalmente cresceva di 200.000 unità, arrivando a superare quota 3,3 milioni.
All’espansione del lavoro irregolare ha contribuito in maniera prevalente l’occupazione dipendente (+7,4%), mentre sul fronte dell’occupazione regolare è stata la componente indipendente che, in termini relativi, ha subìto un maggiore ridimensionamento (-3,7%).
La graduatoria delle attività a più ampio utilizzo di lavoro sommerso ha visto ai primi posti quelle legate all’impiego di personale domestico da parte delle famiglie, secondo un tasso di irregolarità - dato dal rapporto fra occupati irregolari e il totale degli occupati - che ha sfiorato il 60% (quasi quattro punti in più nel 2015 rispetto al 2012).
“Va fatta una distinzione tra i livelli di irregolarità di una badante e quella di un lavoratore sfruttato nei campi o nei cantieri o nel facchinaggio. Il primo - ha rilevato sempre Maurizio Gardini - seppur in un contesto di irregolarità, fotografa le difficoltà delle famiglie nell’assistere un anziano, un disabile o un minore. Le famiglie evadono per necessità. Negli altri casi si tratta di sfruttamento dei lavoratori che nasce solo per moltiplicare i profitti e mettere fuori gioco le tantissime imprese che competono correttamente sul mercato”.
A seguire, ma con tassi più che dimezzati, è nell’ambito delle attività agricole e del terziario che si è registrato uno stock di occupati non regolari particolarmente rilevante: nel primo caso il tasso è del 23,4%, mentre nel secondo caso - e nello specifico delle attività artistiche, di intrattenimento e di altri servizi - risulta di poco inferiore (22,7%). Piuttosto elevata la quota di irregolari nel settore alloggi e ristorazione, con il 17,7%, e nelle costruzioni (16,1%).
Più contenuti rispetto alla media riferita al totale delle attività economiche (13,5%), ma in ogni caso in crescita nel 2015 rispetto al 2012, i valori relativi a trasporti e magazzinaggio (10,6%), al commercio (10,3%).
Sul piano territoriale, e riguardo all’incidenza del lavoro irregolare sul valore aggiunto regionale, Calabria e Campania hanno registrato le percentuali più alte (rispettivamente il 9,9% e l’8,8%), seguite da Sicilia (8,1%), Puglia (7,6%), Sardegna e Molise (entrambe con il 7,0%).
Nella ricerca non sono forniti i dati relativi al 2016 e al 2017. E’ difficile sapere quale sia stato l’andamento del numero complessivo dei lavoratori irregolari in questi ultimi due anni.
Io non credo che tale numero si sia ridotto. E’ probabile invece che i lavoratori irregolari siano aumentati o quanto meno siano rimasti stabili. Comunque, qualunque sia stato il loro andamento negli ultimi due anni, il numero degli irregolari è rimasto certamente molto consistente.
Pertanto ci si deve porre l’obiettivo di ridurre in misura rilevante i lavoratori in nero. Io ritengo infatti che solo una parte minoritaria di coloro che utilizzano lavoratori irregolari lo facciano per necessità, a parte il fatto che è necessario comunque contrastare anche il diffondersi di questa categoria di lavoratori in nero.
Le pubbliche amministrazioni soprattutto si devono impegnare per conseguire quell’obiettivo.
Innanzitutto accrescendo considerevolmente i controlli, sanzionando quanti si avvalgono di lavoratori irregolari. Ma anche, quando esternalizzano determinati servizi, impedendo che gli appalti siano affidati a imprese che sfruttano i lavoratori, non solo per la verità assumendoli in forme irregolari ma anche corrispondendo loro remunerazioni troppo basse.
Quando si sostiene, infatti, che sia necessario mettere di nuovo al centro delle politiche pubbliche il lavoro, ciò significa non solo promuovere interventi tendenti ad aumentare il numero degli occupati ma anche migliorare decisamente la qualità del lavoro, riducendo lo sfruttamento e la precarietà, altro fenomeno quest’ultimo che si è sviluppato in misura considerevole negli ultimi anni.