martedì 29 settembre 2020

L'economia può essere civile


Dal 25 al 27 settembre si è tenuta la seconda edizione del festival dell’economia civile a Firenze, nel salone dei Cinquencento a palazzo Vecchio. Il festival è stato un luogo di incontro per dare forza e slancio a una grande, democratica e generativa, mobilitazione di persone, imprese e associazioni per una nuova economia. E’ stata anche presentata la “Carta di Firenze”.

Noi cittadini, donne e uomini, liberi di spirito, impegnati nei campi più diversi del lavoro, della ricerca e dell’insegnamento, delle arti, dei mestieri e della creatività, della cooperazione - che amiamo l’Italia e ci sentiamo parte viva d’Europa - in questi mesi segnati dalla pandemia e dalla crisi ambientale, sentiamo l’urgenza di un cambio di rotta e di un impegno comune più incisivo, in difesa della salute, della scuola, del lavoro, dell’ambiente e del benessere collettivo. Per questo ci impegniamo a:

Sostenere il valore del lavoro e delle persone.

Perché l’Economia Civile è uno sguardo sulla realtà economica che affonda le sue radici nella tradizione dell’Umanesimo civile e dell’Illuminismo italiani. Afferma la centralità della persona e il valore del lavoro come luogo di realizzazione delle più profonde aspirazioni umane. Rifiuta l’idea che si possano trattare le risorse umane al pari di quelle materiali e tecnologiche: l’uomo si realizza con il proprio ingegno, con il lavoro manuale e intellettuale e non può mai venire ridotto a mero fattore di produzione o ingranaggio di un sistema produttivo. Non può essere mortificato nelle sue aspirazioni di realizzazione professionale.

Credere nella biodiversità delle forme d’impresa

Perché l’Economia Civile si batte per affermare e garantire la pari dignità di ogni forma giuridica d’impresa operante nei mercati e la biodiversità delle forme d’impresa. L’impresa capitalistica non è l’unica, né l’esclusiva, né la naturale né la superiore forma d’impresa, anche se le imprese di capitali costituiscono numericamente la maggioranza della popolazione imprenditoriale, sia a livello nazionale che a livello mondiale. Molteplici vecchie e nuove forme di impresa cooperativa la affiancano nell’edificazione del bene comune. Senza imprese – e dunque senza mercato – non c’è né incivilimento né crescita né sviluppo. L’economia civile guarda pertanto con fiducia ed ottimismo ad una nuova tendenza di ibridazione (in una nuova ricchezza e pluralità di forme organizzative) che si affaccia dove sempre più imprese cercano di coniugare profitto ed impatto sociale, creazione di valore economico, dignità e qualità del lavoro e sostenibilità ambientale.

Promuovere la diversità e l’inclusione sociale.

Perché negli ultimi anni, la corsa al ribasso sui diritti del lavoro e la concorrenza fiscale tra paesi per atti- rare insediamenti produttivi hanno portato con sé una crescita insostenibile dei livelli di diseguaglianza sociale ed economica tra le persone all’interno degli Stati, in grado di minacciare la coesione sociale e la tenuta stessa Ma un mercato che voglia dirsi civile deve tendere a col- mare divari economici e sociali, consentendo a tutti, e non solo ai più forti e più efficienti, di prendere parte al processo economico e finanziario attraverso l’attivazione di meccanismi di inclusione di uomini e donne e rigenerazione di chi si trova ai margini, attraverso la valorizzazione delle diversità come ricchezza sociale.

Valorizzare l’impresa come luogo di creatività e di benessere.

Perché l’impresa civile (capace di coniugare creazione di valore economico e di senso, produttività e eco-sostenibilità sociale ed ambientale) si fonda sulle relazioni tra persone e rappresenta in quanto tale uno dei principali e influenti luoghi di formazione del carattere e della personalità umana. Frutto di ispirazione e di creatività, di capacità di leggere i nuovi bisogni e i nuovi spazi di mercato, di nuove competenze, di buone relazioni con il contesto territoriale e con le comunità. È un’impresa esperta non solo in competenze tecniche ma anche in capacità relazionali, dove reciprocità, gratuità e fiducia sanno generare relazioni positive e un sovrappiù sia economico che sociale.

Investire nell’educazione e nella promozione umana.

Perché, se è vero che è possibile massimizzare l’utilità anche in piena solitudine, per essere felici bisogna essere almeno in due (come ricordava Aristotele), perché la felicità richiede il riconoscimento di almeno un’altra persona. La vera determinante del benessere è legata alla produzione e al consumo di beni relazionali: tra questi, i più rilevanti sono l’amicizia, l’amore, la fiducia, l’impegno civile, i servizi alla persona. Quanto più un’eco- nomia avanza, tanto più la domanda di beni relazionali diventa strategica rispetto alla domanda di beni privati e di beni pubblici. Le relazioni di qualità sono la chiave del successo delle relazioni nei luoghi di lavoro e favoriscono la creazione di fiducia e di capitale sociale. Dono e reciprocità sono i fattori chiave che le costruiscono.

Proporre una nuova idea di salute e di benessere.

Perché tutta la società deve farsi carico della salute delle persone e del loro benessere, non solo l’ente pubblico (o il mercato), perché i portatori di bisogni sono anche portatori di conoscenze e di risorse. Da questo deriva una triplice conseguenza. Primo: l’ente pubblico non è l’unico e esclusivo titolare del diritto-dovere di erogare servizi di welfare destinati ai propri cittadini e, specialmente, del potere di de- finire da solo i modi di soddisfacimento dei bisogni individuali. La Repubblica comprende lo Stato, non viceversa, come la nostra Carta Costituzionale esplicitamente riconosce. Secondo: gli enti del terzo settore e della società civile organizzata assumono un ruolo cruciale nell’individuazione dei bisogni e nella generazione di soluzioni e politiche. Terzo: per risolvere i problemi e muovere verso il bene comune il ruolo dei cittadini (stili di vita, voto col portafoglio nelle scelte di consumo e di risparmio, partecipazione alla vita delle organizzazioni sociali) è decisivo. La pandemia ha messo in luce la necessità di ripensare in maniera più collaborativa le relazioni tra società civile, mercato e Stato.

Coltivare il rispetto e la cura dell’ambiente.

Perché oggi non è più pensabile occuparsi di povertà, di welfare o di salute senza occuparsi di ambiente e territorio. La ricchezza del nostro paese è data dalla sua biodiversità naturale e dalla ricchezza di senso e varietà dei genius loci dei suoi territori che affondano le radici nelle nostre tradizioni e che rappresentano dei veri e propri vantaggi competitivi nell’economia globale. E la tutela dei luoghi (non solo meri spazi) non può prescindere dalla storia. La gravità delle crisi ambientali e sociali, le devastazioni del patrimonio naturale e artistico ma anche la banalità del male di tante decisioni riguardanti il territorio, incuria, mancanza di prevenzione, assenza di controlli, non curanza del rischio e della fragilità dei luoghi, violazione delle regole, richiedono una presa di posizione più forte. La terra non è solo strumento, fattore di produzione, piattaforma. Agisce e reagisce, cambia e si trasforma, a livello chimico, biochimico, geologico; reagisce all’uomo e alle sue azioni, talvolta si ribella con forza.

Attivare energie giovani, innovazione e nuove economie.

Perché per attivare i quattro fattori fondamentali del progresso civile e sociale (la persona capace di costruire relazioni, l’impresa civile, il valore generativo e la sussidiarietà circolare come chiave per la soluzione dei problemi economici e sociali) l’economia civile ha sperimentato in questi anni un processo che va oltre la pur importante enunciazione di principi. Un percorso fatto di momenti di formazione, d’incontro e d’investimento sui territori, di ricerca e studio delle buone pratiche che sono semi di speranza per il futuro, di costruzione di laboratori dove rendere presente e far interagire i tre ingredienti fondamentali per il progresso civile: energie giovani, innovazione, creazione di valore economico (socialmente ed ambientalmente sostenibile). È lungo questo percorso generativo e ricco di senso che l’Economia Civile chiama a raccolta tutte le persone di buona volontà che desiderano coinvolgersi per la realizzazione del Bene Comune.

giovedì 24 settembre 2020

415 milioni di bambini in zone di guerra

 


Nelle zone di guerra i bambini continuano a vivere sotto costante minaccia di un “fuoco incrociato”. Sono 415 milioni in tutto il mondo, e sempre più spesso vengono colpiti scuole e ospedali (quasi 1.000 attacchi nel 2019).

A tutto questo si aggiunge la minaccia del coronavirus e i suoi effetti collaterali gravissimi per la salute, la nutrizione e l’istruzione dei bambini.   

Sono queste le principali conclusioni del rapporto, realizzato da Save the Children, “Fuoco incrociato - i bambini nei conflitti intrappolati dalla pandemia”.

In Yemen, nonostante l’appello dell’Onu al cessate il fuoco dello scorso aprile, un sistema sanitario già al collasso dopo più di 5 anni di conflitto fatica a contenere il virus sotto ai bombardamenti.

Qui gli attacchi sono più che raddoppiati nei primi sei mesi del 2020 rispetto alla seconda metà del 2019 (+139%). 

Quattro bambini su cinque hanno disperato bisogno d’aiuto e 30.000 in più rischieranno la vita per la malnutrizione entro il 2020. 

In Siria, dove ogni 10 ore un bambino viene ucciso dalle violenze, più di 84 ospedali e presidi sanitari sono stati attaccati dallo scorso dicembre solo nel nord-ovest del paese, lasciando 4 milioni di persone, la metà bambini, senza alcun tipo di assistenza sanitaria per fronteggiare la pandemia.

Entro fine anno 3,4 milioni di bambini siriani sotto i 5 anni avranno bisogno di assistenza nutrizionale, e 1 su 8 soffre già di gravi ritardi nella crescita per gli effetti della malnutrizione.

In Afghanistan, per le conseguenze del Covid-19, 7,4 milioni di bambini hanno immediato bisogno di assistenza umanitaria e 10 milioni hanno perso l’accesso continuativo all’educazione come gli 1,4 milioni senza scuola nei territori palestinesi occupati, dove la pandemia si affronta con il 29% delle famiglie sotto la soglia di povertà, l’80% dell’acqua disponibile inadatta all’utilizzo umano e solo 2-4 ore di elettricità disponibile al giorno.

lunedì 21 settembre 2020

I salari sono troppo bassi

 


Una recente analisi dell’Ocse permette un confronto puntuale del costo del lavoro, del cuneo fiscale e delle sue componenti tra l’Italia e i Paesi europei comparabili. Il risultato è chiaro: il nostro costo del lavoro è tra i più bassi, sul cuneo le differenze sono limitate. Ad essere fuori linea sono le retribuzioni medie, che dal 1992 sono aumentate pochissimo (meno che negli altri Paesi), con effetti deleteri sulla domanda interna e il mantenimento in vita di strutture produttive non dinamiche.

Tale tesi è sostenuta da Roberto Artoni in un articolo pubblicato su www.eguaglianzaeliberta.it.

Cosa sostiene Artoni?

In questi tempi una grande attenzione è stata rivolta a possibili interventi sul cuneo fiscale: alla sua riduzione e al suo allineamento ai livelli che si pensa siano tipici di altri Paesi a noi assimilabili si attribuisce una significativa capacità di contribuire al miglioramento della situazione economica del Paese in una prospettiva di medio periodo.

A queste affermazioni di principio, che coinvolgono sia le parti sociali sia osservatori qualificati, non corrispondono nella pubblicistica corrente, a quel che sappiamo, analisi sufficientemente articolate.

La recente pubblicazione di un volume dell’Ocse, Taxing Wages, aprile 2020, consente di inquadrare queste tematiche in modo adeguato…

Il costo del lavoro riferito al lavoratore medio era nel 2019 intorno ai 60.000 euro in Austria, Belgio, Germania e Paesi Bassi e di poco inferiore ai 50.000 in Francia.

 

Era invece sensibilmente inferiore in Italia (41.000) e in Spagna (35.000). 

 

Deducendo i contributi a carico dei datori di lavoro e esaminando quindi il salario lordo, le differenze assolute diminuiscono.

 

I paesi caratterizzati da un più alto costo del lavoro, registrano salari lordi intorno ai 50.000 euro. Sono inferiori i salari lordi In Francia (36.000 euro), in Italia (31.600 euro e in Spagna a 27.000

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Possiamo a questo punto calcolare il cuneo fiscale, o tax wedge, che, in percentuale del costo del lavoro del lavoratore medio, è compreso fra il 52% del Belgio e il 47 della Francia; all’interno di questo intervallo si collocano anche Austria, Germania e Italia (al 48%). A livelli inferiori si collocano la Spagna (40%) e i Paesi Bassi, che tuttavia hanno un componente significativa di non tax compulsory payments che rende non immediatamente comparabile questo dato con quello degli altri Paesi…

 

Le elaborazioni dell’Ocse consentono di ripartire il cuneo fiscale fra le diverse componenti.

 

In Italia metà (24 punti su 48) deriva dai contributi a carico dei datori di lavoro, 17 dall’imposta sul reddito e 7 dai contributi dovuti dai lavoratori.

 

In Germania, al contrario, il cuneo è equiripartito fra le tre componenti. Se si vuole, in un contesto in cui il cuneo è sostanzialmente equivalente nei Paesi da noi considerati, si può sottolineare il peso relativamente elevato dell’imposta sul reddito nel nostro Paese.

 

Nell’analisi dei salari lordi il prelievo in termini percentuali riflette in modo inversamente proporzionale il peso dei contributi a carico dei datori di lavoro.

 

La riduzione è quindi particolarmente elevata in Germania, dove raggiunge il 39%, e contenuta in Francia, al 17%.

 

In Italia è pari al 31%, con una forte incidenza del prelievo tributario, due terzi del totale.

 

Può quindi essere calcolato il reddito annuo medio del lavoratore a tempo pieno al netto di tutti prelievi che in Italia era nel 2019 pari a 21.800 euro (di poco inferiore a quello spagnolo), mentre negli altri Paesi il salario netto medio si colloca al di sopra dei 30.000 euro…

 

Quali conclusioni e quali suggerimenti per il nostro Paese possono essere tratte da una rapida analisi dei dati Ocse?

 

Non esiste in primo luogo un problema di costo del lavoro, che si colloca a un livello sensibilmente inferiore a quello di Paesi a noi assimilabili (vale se mai il contrario, se è vero che bassi salari contribuiscono alla perpetuazione di strutture produttive non dinamiche).

 

Il cuneo fiscale, comunque lo si legga, in termini di costo del lavoro e di salario lordo, non appare anomalo, stante le limitate differenze che si possono cogliere nei dati da noi esaminati.

 

Emerge forse un peso relativamente elevato della componente tributaria derivante dall’imposta personale, che trova peraltro conferma nel fatto che l’incidenza delle imposte dirette è nel nostro Paese superiore alla media europea.

 

Qui si può ricordare che nel 2019 il gettito delle imposte dirette in Italia era pari al 14,4% del prodotto interno contro il 13 dell’area euro. Sotto questo aspetto una correzione dell’imposta personale limitata ai redditi più bassi trova giustificazione, come auspicabile è anche un incremento dei cash benefits per i carichi famigliari.

 

Deve essere poi sottolineato che le correzioni del cuneo fiscale, se di entità significativa, devono in Italia risolversi in una riduzione dei contributi sociali destinati oggi per larghissima al finanziamento della previdenza.

 

Ricordiamo che in Italia, escludendo il gettito dell’Irap, il gettito contributivo è inferiore di 1,5 punti di prodotto interno alla media europea. Un intervento che incida sul gettito contributivo in misura consistente si deve necessariamente risolvere nel medio periodo in una contrazione delle prestazioni pensionistiche o nel ricorso a forme privatistiche di previdenza, che dovrebbero essere di fatto finanziate con oneri a carico dei lavoratori, come insegna l’esperienza dei Paesi anglosassoni.

 

Rimane tuttavia aperto, e qui veniamo al punto essenziale, il problema del livello medio delle remunerazioni e della loro dinamica che come abbiamo visto ci allontanano sensibilmente dagli altri paesi europei con l’eccezione della Spagna.

 

A questo riguardo è sempre opportuno ricordare quanto ha scritto la Banca  d’Italia nelle relazioni rispettivamente del 2007 e del 2017: ‘fra il 1992 e il 2007 le retribuzioni reali di fatto per unità di lavoro sono cresciute del 7,75%, meno di mezzo punto percentuale all’anno; anche dopo l’attuale fase espansiva iniziata nel 2013 i salari sono cresciuti di appena l’1,0 per cento l’anno  contro l’1,7 degli altri Paesi europei’.

 

I responsabili della politica economica del nostro Paese e i rappresentanti delle parti sociali si dovrebbero interrogare sulle cause di questo andamento anomalo che ha trovato necessario sbocco nella stagnazione della domanda interna e quindi in un tasso di crescita del prodotto interno del tutto insoddisfacente negli ultimi 20 anni.

 

Tutto ciò è dovuto a una legislazione che ha fortemente contribuito a frammentare e il mercato del lavoro, introducendo ampie forme di precariato con effetti negativi sulle remunerazioni dei lavoratori normali, a tempo pieno  e con contratti a tempo indeterminato, quali sono quelli che abbiamo qui considerato?

 

Oppure è dovuto a una carenza di rappresentatività dei sindacati che, nell’incapacità di determinare una dinamica salariale soddisfacente, si sono rifugiati nella richiesta di interventi sulle componenti fiscali e contributive del costo del lavoro?

 

Questi interventi, per quanto auspicabili per correzioni marginali, non sono certamente in grado di modificare le linee fondamentali della distribuzione primaria nel nostro paese e quindi determinare una svolta nel tasso di crescita del paese, introducendo peraltro elementi di squilibrio sociale nel medio periodo.

 

Qualunque siano le cause e i possibili rimedi, è certo che un esame più attento delle evidenze disponibili dovrebbe consentire di individuare le scelte appropriate, evitando pericolose scorciatoie”.

giovedì 17 settembre 2020

Alto il rischio maltrattamento all'infanzia

 


Resta alto in Italia il rischio maltrattamento all’infanzia, amplificato anche dalle conseguenze sociali ed economiche dell’emergenza coronavirus. E’ quanto emerso dalla terza edizione dell’Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia realizzato dal Cesvi, un organizzazione umanitaria con sede a Bergamo, dal titolo “Restituire il Futuro”.

L’Indice - curato da Cesvi e sviluppato sotto la guida di un comitato scientifico di altissimo livello composto da Autorità Garante Infanzia e Adolescenza, Istat, Miur, Istituto degli Innocenti, Cismai, Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali - è stato redatto dalle ricercatrici Cesvi Giovanna Badalassi e Federica Gentile.

Il fenomeno del maltrattamento sui bambini è forse la peggiore tra le emergenze sociali sia per la sproporzione di forze tra il maltrattante e il maltrattato sia per il tradimento della fiducia che i bambini ripongono negli adulti. 

In Italia si stima che 47,7 minorenni su 1.000 siano seguiti dai servizi sociali. Di questi quasi 100.000 sono vittime di maltrattamento.

L’Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia analizza la vulnerabilità al fenomeno del maltrattamento dei bambini nelle singole regioni italiane, attraverso l’analisi dei fattori di rischi presenti sul territorio e della capacità delle amministrazioni locali di prevenire e contrastare il fenomeno tramite i servizi offerti. 

Il risultato è una graduatoria basata su 64 indicatori classificati rispetto a sei diverse capacità che rappresentano la struttura portante dell’Indice: capacità di cura di sé e degli altri, di vivere una vita sana, di vivere una vita sicura, di acquisire conoscenza e sapere, di lavorare, di accesso a risorse e servizi.

Quest’anno inoltre l’Indice include anche un intero capitolo dedicato all’analisi del periodo Covid-19, che evidenzia come l’emergenza e il lockdown abbiano moltiplicato i fattori di rischio per il maltrattamento all’infanzia, complice anche l’abbassamento dei livelli di monitoraggio dovuti all’interruzione di molte attività dei servizi sociali.

A livello generale, il quadro finale dell’Indice è quello di un’Italia a due velocità: si conferma l’elevata criticità dei territori del Sud Italia che rispetto alla media nazionale registrano peggioramenti sia tra i fattori di rischio che tra i servizi, pur con diversi livelli di intensità.

Solo la Sardegna registra un peggioramento dei fattori di rischio e un miglioramento dei servizi.

Le otto regioni del nord Italia sono tutte al di sopra della media nazionale, mentre nel mezzogiorno si riscontra un’elevata criticità: le ultime quattro posizioni dell’Indice sono occupate da Campania, all’ultimo posto, Calabria, Sicilia e Puglia. 

La regione con la maggiore capacità nel fronteggiare il problema del maltrattamento infantile, sia in termini di contesto ambientale che di sistema dei servizi è invece, come negli anni precedenti, l’Emilia-Romagna, seguita da Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia-Giulia e Veneto che si scambiano il terzo e il quarto posto, e Toscana, confermata alla quinta posizione.

L’Indice, complessivamente, vede dodici regioni al di sopra della media nazionale (erano tredici nel 2019): tutte le otto regioni del Nord Italia, tre dell’Italia Centrale (Toscana, Umbria e Marche) e una del Sud (Sardegna).

Campania, Puglia, Sicilia, Basilicata, Abruzzo e Lazio si confermano regioni a elevata criticità, che combinano una situazione territoriale particolarmente difficile sia per i fattori di rischio che per l’offerta dei servizi.

A queste si aggiunge il Molise, precedentemente posto sulla media nazionale.

Sardegna e Umbria rientrano nella categoria delle regioni “reattive” che combinano un fattore ambientale critico con un’offerta più dinamica di servizi dedicati al maltrattamento.

Tra le regioni “virtuose” - con bassi fattori di rischio e un buon livello di servizi sul territorio - si confermano invece Emilia-Romagna, Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Toscana e quest’anno, in aggiunta rispetto al 2019, anche il Piemonte che, pur perdendo una posizione per i fattori di rischio migliora nei servizi.

Tra le regioni “stabili”  si collocano tre regioni: la Lombardia, come nella precedente edizione, la Valle d’Aosta collocata tra le regioni virtuose nell’Indice 2019 e le Marche.

“In Italia - spiega la presidente di Cesvi, Gloria Zavatta - il fenomeno del maltrattamento all’infanzia è un problema diffuso, ma poco conosciuto anche a causa della scarsità di dati a disposizione: l’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che per ogni caso conosciuto dai servizi ce ne sono altri nove sommersi”. 

“La terza edizione dell’Indice - continua la presidente di Cesvi, Gloria Zavatta – mette in luce la necessità di disporre di dati più puntuali sull’entità del maltrattamento all’infanzia nel nostro Paese e ridurre il divario sociale ed economico delle regioni del Mezzogiorno tramite l’attuazione pratica dei Liveas (Livelli essenziali di assistenza socioassistenziale).

Inoltre, si conferma la necessità di adottare strategie di intervento a medio-lungo termine in grado di modificare in modo strutturale i comportamenti umani e promuovere politiche specifiche e mirate. 

A tal proposito Cesvi pone l’attenzione sul concetto della resilienza intesa come la strategia strutturale non solo di carattere ‘difensivo’ ma anche di tipo propositivo e costruttivo, che permette agli individui di superare gli effetti dolorosi del maltrattamento all’infanzia, facendo leva sulle proprie risorse interne, trasformando forme di stress estremamente deleterie in occasioni di crescita. 

La resilienza non è una capacità innata, ma può essere sostenuta e sviluppata negli adulti e nei bambini anche grazie dall’azione di professionisti.

Cesvi, propone, in particolare, un modelo d’intervento psicosociale denominato “Tutori di Resilienza”, già adottato in via sperimentale nel programma di contrasto al maltrattamento infantile attivato a Bergamo, Napoli e Bari”.

lunedì 14 settembre 2020

La campanella non sempre suona per gli alunni disabili



Rimandare di almeno una settimana il ritorno a scuola, oppure ridurre l'orario scolastico: se tante e diverse sono le richieste che in questo momento tutti i genitori d'Italia ricevono dalle rispettive scuole, queste due in particolare pare siano dedicate specificatamente agli alunni con disabilità. E' quanto denuncia il coordinamento italiano insegnanti di sostegno: “Ai genitori degli alunni con disabilità arrivano richieste o comunicazioni per il rinvio dell'inizio della scuola. Qualcuno propone orario ridotto, o di tenere il figlio a casa”, oppure, ancora, “suggerisce di portare il figlio dopo una settimana”, o semplicemente comunica che “il figlio con disabilità sarà in un'aula con un insegnante (di sostegno)”. 

Il coordinamento italiano insegnanti di sostegno, , in vista dell’apertura del nuovo anno scolastico, aveva emesso un comunicato nel quale sono state avanzate diverse richieste.

“Nel ribadire la disponibilità e la massima collaborazione affinché, nel pieno rispetto delle indicazioni in materia di sicurezza, a tutti gli alunni della scuola italiana e, in particolare, agli alunni con disabilità siano garantiti il diritto allo studio e alla frequenza, chiede che venga posta attenzione alle seguenti questioni:

che in ogni classe, sin dal primo giorno di scuola, siano presenti tutti i docenti,

che sin dal primo giorno di scuola sia assicurato il servizio di trasporto scolastico, in particolare per gli alunni con disabilità, in modo da consentire il diritto alla frequenza, nel rispetto delle norme sulla sicurezza (Sentenza Corte costituzionale n. 275/2016),

che le ore di sostegno attribuite siano assegnate senza spezzare le cattedre, preferibilmente assegnando l’incarico a un unico docente (legge 104/92),

che si vigili affinché il distanziamento, richiesto dalle norme emanate per l’emergenza sanitaria, non penalizzi l’alunno con disabilità e non costituisca scusante per allontanarlo dalla classe o per ridurre l’orario di frequenza (legge 67/2006),

che a ciascun alunno con disabilità vengano attribuite tutte le risorse già indicate nel Pei per l’attuale anno scolastico (senza costringere le famiglie a dover ricorrere alla magistratura per il loro riconoscimento) (Costituzione artt. 2,3,34),

che a ogni scuola sia assegnato personale numericamente sufficiente e adeguatamente formato per soddisfare le esigenze di assistenza, così come previsto dai singoli Pei (legge 67/2006),

che siano favorite la partecipazione, la condivisione e il confronto con le famiglie degli alunni con disabilità, condizioni indispensabili per promuovere il processo di inclusione.

Al tempo stesso il coordinamento esprime preoccupazione in quanto:

le indicazioni ministeriali riguardanti la ripresa del nuovo anno scolastico, in particolare per quanto concerne la frequenza degli alunni con disabilità, appaiono poco chiare e scarsamente orientate all’inclusione,

le indicazioni relative al servizio di istruzione domiciliare, la cui attivazione è conseguente a una specifica procedura e quelle sulla contestuale disponibilità dei docenti, sono proposte in modo sommario, lasciando spazio a soggettive interpretazioni,

le norme emanate in questi ultimi mesi contribuiscono sempre più a rafforzare la delega del processo inclusivo al solo docente incaricato su posto di sostegno, legittimando, in tal senso, la deresponsabilizzazione dei docenti incaricati su posto comune o disciplinare,

non è ancora stata attivata una mirata formazione per acquisire e/o potenziare le competenze necessarie per affrontare attività di insegnamento-apprendimento con l’uso di strumenti digitali, in presenza e a distanza; e. in vista dell’emanazione del nuovo modello di Pei, anticipato dalla ministra Azzolina nel giugno scorso, teme che venga recepita l’indicazione dell’art. 7 comma 2 lettera a) in cui è previsto che il Pei sia ‘approvato’, determinando, di conseguenza, l’esclusione della famiglia dal processo decisionale riguardante il proprio figlio,

in merito all’erogazione della didattica online non è stata prevista alcuna indicazione a livello contrattuale.

Il coordinamento auspica che, anche nella emanazione di futuri provvedimenti, il ministero dell’Istruzione ponga coerentemente attenzione al processo inclusivo, in particolare nei confronti degli alunni con disabilità, senza perdere mai di vista quei principi costituzionali e normativi che riconoscono a ciascun cittadino il diritto alla piena realizzazione personale e sociale”.

mercoledì 9 settembre 2020

Perchè protestano gli infermieri


Il sindacato degli infermieri “Nursing up” ha proclamato lo stato di agitazione della categoria. E’ previsto anche uno sciopero e una manifestazione a Roma il 15 ottobre prossimo. 8 sono le richieste avanzate al Governo.

Le richieste sono le seguenti:

1. Un alveo contrattuale autonomo, con risorse economiche dedicate ed avulse dal resto del comparto, che riconosca peculiarità, competenza e indispensabilità ormai evidenti della categoria infermieristica, che rappresenta oltre il 41% delle forze del servizio sanitario nazionale e oltre il 61% degli organici delle professioni sanitarie. Analogamente accada per le professioni sanitarie ostetrica e tecniche.

2. Risorse economiche dedicate e sufficienti per il riconoscimento di una indennità professionale infermieristica mensile che, al pari di quella già riconosciuta per altre professioni sanitarie della dirigenza, sia parte del trattamento economico fondamentale, e che riconosca e valorizzi sul piano economico le profonde differenze rispetto alle altre professioni, rese ancor più evidenti, da ultimo, proprio dalla pandemia Covid-19.

3. Risorse economiche per il contratto della sanità finalizzate e sufficienti per conferire un’indennità specifica e dignitosa per tutti i professionisti che si occupano ai vari livelli di funzione di assistere pazienti con un rischio infettivo.

4. Individuazione di uno specifico contratto/convenzione nazionale di lavoro per l’infermiere di famiglia, immediato adeguamento delle dotazioni organiche del personale operante nella generalità dei presidi ospedalieri e sul territorio, calibrato tenendo conto dei reali bisogni dell’assistenza con coevo aggiornamento della programmazione degli accessi universitari posto che, allo stato, mancano più di 53.000 infermieri. Nuove norme in grado di agevolare, concretamente, la mobilità del personale tra gli enti del servizio sanitario nazionale, anche eliminando il “previo placet” al trasferimento dell’ente di appartenenza in caso di disponibilità di posto vacante nell’ente di destinazione.
 
5. Superamento, per gli infermieri pubblici e per gli altri professionisti non medici, il vincolo di esclusività, riconoscendo loro il medesimo diritto già esistente per il personale medico, di svolgere attività intramoenia, anche per far fronte alla gravissima carenza di personale in cui versano le strutture sociosanitarie, le Rsa, le case di riposo, di cura e le strutture residenziali riabilitative.
 
6. Direttive e risorse economiche finalizzate a sostenere l’aggiornamento professionale dei professionisti sanitari oggetto della presente, riduzione del debito orario settimanale degli stessi (orario di servizio) pari ad almeno 4 ore settimanali, da utilizzare per le attività di aggiornamento, come già avviene per i medici.
 
7. Direttive e nuove risorse economiche finalizzate all’immediato e stabile riconoscimento degli infermieri specialisti e gli esperti in applicazione della legge 43/2006 e per la valorizzazione economico giuridica della funzione di coordinamento, valorizzazione delle competenze cliniche e gestionali degli interessati.

8. Riconoscimento della malattia professionale e correlato meccanismo di indennizzo in caso di infezione, con o senza esiti temporanei o permanenti.

“E’ il preludio all’inizio delle nostre nuove battaglie – ha sottolineato Antonio De Palma, presidente del sindacato Nursing Up -. La piazza di Milano, con l’evento del 4 luglio scorso, ci ha consegnato nelle mani un mandato preciso, una responsabilità straordinaria a cui adempiere.

Non possiamo fermarci adesso e non lo faremo.

L’esperienza nefasta del Covid è servita per dimostrare agli occhi dei nostri ciechi interlocutori che gli infermieri italiani ci sono e ci saranno sempre.

Siamo il perno del sistema, un sistema fallace, pieno zeppo di lacune, ma che senza di noi sarebbe già affondato da tempo.

Per questa ragione confermiamo ufficialmente la manifestazione del 15 ottobre prossimo a Roma, ma soprattutto ribadiamo che di fronte al silenzio della politica sulle nostre legittime aspettative, economiche e contrattuali, quella della Capitale sarà solo la prima di tante nuove ‘azioni mirate’ finalizzate a cambiare il nostro destino”.

lunedì 7 settembre 2020

8 proposte per rilanciare l'Italia

 


Soprattutto dopo la decisione dell’Unione europea di prevedere il cosiddetto Recovery Fund, diversi soggetti hanno presentato proposte per rilanciare il nostro Paese, prevalentemente ma non solo, in seguito agli effetti negativi determinati dalla diffusione del Coronavirus. Anche l’Ambrosetti Club ha presentato 8 proposte molto interessanti.

Ho deciso quindi di riportarle integralmente.

Il sistema educativo italiano

E’ fondamentale interrompere il circolo vizioso sostenuto dall’analfabetismo funzionale attraverso un massiccio investimento sull’educazione in generale e su quella continuativa per gli adulti. Il sistema educativo deve preparare tutti (giovani e adulti) a vivere la vita dei nostri tempi e deve formare una classe dirigente adeguata. Questa riforma passa attraverso la revisione del sistema scolastico, la revisione del sistema universitario, l’educazione continuativa degli adulti e la preparazione della classe dirigente (pubblica e privata) del Paese.

La visione strategica del Paese

Occorre definire una visione strategica inclusiva che possa fertilizzare la stragrande maggioranza dei settori economici definendo: immagine generale del Paese, mercati di riferimento, portafoglio prodotti, modalità di comunicazione, modalità di relazione con i clienti, processi interni, ecc. La visione-Paese proposta da Ambrosetti Club è pertanto: “Essere il Paese di riferimento nello sviluppo delle eccellenze per far vivere meglio il mondo”.

Ripensare il rapporto dell’Italia con l’Unione Europea

Oltre a chiedere fondi per risolvere i problemi nazionali, occorre proporre il finanziamento del rilancio dell’Europa intera attraverso un piano di investimenti sui settori strategici (come Difesa, Ict e Spazio) dai quali anche l’Italia trarrà beneficio. L’Italia deve diventare propositiva, costruendo anche alleanze con altri Paesi, proponendo progetti approfonditi e di comune interesse.

Riprogettare la Pubblica Amministrazione italiana

La Pubblica Amministrazione deve essere riprogettata sotto il profilo organizzativo attorno a cittadini e imprese, intervenendo su aspetti concreti quali: l’abolizione del reato di abuso di ufficio, l’introduzione di testi unici abrogativi volti ad eliminare la sovrapposizione di norme, la costituzione dei Les (livelli essenziali di servizio) per tutti gli ambiti per garantire e incentivare il coordinamento tra enti locali, Regioni e Stato, l’introduzione delle dinamiche competitive all’interno della P.A. favorendo le privatizzazioni e secondo il principio di sussidiarietà, la creazione degli “Invalsi della P.A.” per valutare i funzionari pubblici in modo trasparente, omogeneo e comparabile, l’introduzione di processi di responsabilizzazione dei funzionari pubblici, l’aumento della permeabilità con il settore privato attraverso una maggiore quota di funzionari e dirigenti esterni e l’introduzione dell’obbligo di revisioni post-mortem delle riforme per valutarne l’efficacia ed eventuali correttivi necessari.

Identificare quelle attività che “devono” essere realizzate in Italia

Per assicurare la sicurezza strategica del Paese, anche alla luce della nuova situazione geopolitica, è necessario che la Presidenza del Consiglio dei Ministri del Governo italiano individui le produzioni e i servizi strategici da reinternalizzare, attraverso uno “sportello unico” per il rientro delle imprese, prevedendo procedure preferenziali e sgravi fiscali.

Rafforzare i processi di concentrazione tra aziende

Occorre prevedere nuovi incentivi tesi a favorire i processi di fusione tra aziende, volti a rafforzare le piccole e medie imprese e le micro-imprese sul piano patrimoniale e a raggiungere una massa critica sufficiente (ad esempio, con sgravi fiscali definiti in proporzione agli utili/perdite registrati negli esercizi precedenti all’operazione).

Realizzare investimenti in alcuni ambiti-chiave

Occorre incentivare alcuni specifici ambiti con grande potenziale per il Paese attraverso importanti investimenti nella ricerca scientifica, con centri pubblico-privato liberi di agire a livello mondiale e fortemente meritocratici (sull’esempio dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova) su strumenti per far vivere meglio il mondo come intelligenza artificiale e robotica umanoide, benessere della persona, cultura e turismo.

Garantire l’execution dei progetti strategici

L’Italia, spesso, anche quando lancia progetti validi non riesce a realizzarli bene. Al contrario, l’esecuzione operativa dei progetti che verranno lanciati è fondamentale. Questo implica che per ogni progetto devono essere chiari i seguenti aspetti: l’obiettivo generale del progetto, gli obiettivi misurabili in maniera oggettiva e indipendente periodicamente lungo la realizzazione, chi dirige il progetto e deve avere tutte le deleghe necessarie oltre a dover essere scelto per merito, tutti i dati e i risultati devono essere soggetti a pubblico scrutinio fin dall’inizio.

giovedì 3 settembre 2020

Gli effetti economici del Coronavirus nelle regioni

 


Secondo la Svimez la recessione dovuta al Covid nel 2020 si estenderà a tutte le regioni, mentre la ripartenza del 2021 sarà più differenziata su base regionale rispetto alla recessione del 2020. E le regioni che subiranno, nel 2020, il calo più intenso del Pil saranno la Basilicata e il Veneto.

Le previsioni regionali della Svimez per il 2020 fotografano un Paese “unito” da una recessione senza precedenti.

Gli effetti economici della pandemia si diffondono a tutte le regioni italiane, nonostante la crisi sanitaria abbia interessato soprattutto alcune realtà settentrionali.

Il primato negativo del crollo del Pil nell’anno del Covid-19 spetta ad una regione del Mezzogiorno e ad una del Nord: la Basilicata (-12,6%), solo marginalmente interessata dalla pandemia, e il Veneto (-12,2%), una delle regioni maggiormente colpita dal virus.

La Lombardia, epicentro della crisi sanitaria, perde 9,9 punti di Pil nel 2020. Perdite superiori al 10% si registrano nel 2020 al Nord: Emilia Romagna (-11,2%), Piemonte (-11%) e Friuli V.G. (-10,1); al Centro: Umbria (-11,1%) e Marche (-10,6%); e nel Mezzogiorno: Molise (-10,9%).

La Campania e la Puglia, che insieme concentrano circa il 47% del Pil del Mezzogiorno, perdono rispettivamente l’8 e il 9%.

Più contenute le perdite in Calabria (-6,4%), Sardegna (-5,7%) e Sicilia (-5,1%), economie regionali meno coinvolte negli interscambi commerciali interni ed esteri e perciò più al riparo dalle ricadute economiche della pandemia

La ripartenza del 2021 sarà più differenziata su base regionale rispetto all’impatto del Covid-19 nel 2020.

La Svimez ha già posto l’attenzione sulle ricadute sociali connesse alla ripartenza “dimezzata” del Mezzogiorno (+2,3%) rispetto al Centro-Nord (+5,4%).

Le previsioni regionali aprono la “scatola nera” del differenziale di crescita tra Mezzogiorno e Centro-Nord nel 2021 svelando una significativa diversificazione interna alle due macro-aree nella transizione al post-Covid.

L’unica regione italiana che recupererà in un solo anno i punti di Pil persi nel 2020 è il Trentino.

A seguire, le tre regioni settentrionali del “triangolo della pandemia” guideranno la ripartenza del Nord: +7,8% in Veneto, +7,1% in Emilia Romagna, +6,9% in Lombardia. Segno, questo, che le strutture produttive regionali più mature e integrate nei contesti internazionali perdono più terreno nella crisi ma riescono anche a ripartire con più slancio, anche se a ritmi insufficienti a recuperare le perdite del 2020.

Maggiori le difficoltà a ripartire di Friuli V.G., Piemonte, Valle d’Aosta e, soprattutto, Liguria.

Le regioni centrali sono accomunate da una certa difficoltà di recupero, in particolare l’Umbria e le Marche. Alla questione settentrionale e a quella meridionale intorno alle quali tradizionalmente si polarizza il dibattito nelle crisi italiane, sembra aggiungersi una “questione del Centro” che mostra segnali di allontanamento dalle aree più dinamiche del Paese, scivolando verso Sud.

Tra le regioni meridionali, le più reattive nel 2021 saranno, nell’ordine, Basilicata (+4,5%), Abruzzo (+3,5%), Campania (+2,5%) e Puglia (+2,4%), confermando la presenza di un sistema produttivo più strutturato e integrato con i mercati esterni.

A fronte del Sud che ripartirà, sia pure con una velocità che compensa solo in parte le perdite del 2020, nel 2021 ci sarà anche un Sud dalla ripartenza frenata: Calabria (+1,5%), Sicilia (+1,3%), Sardegna (+1%), Molise (+0,9%).

Si tratta di segnali preoccupanti di isolamento dalle dinamiche di ripresa esterne ai contesti locali, conseguenza della prevalente dipendenza dalla domanda interna e dai flussi di spesa pubblica.