domenica 31 dicembre 2017

La strage degli innocenti, nel 2017 "record" dei bambini morti in guerra


Fame, freddo, morte, violenze, mutilazioni, perdita della casa e dei parenti. Nel 2017 i bambini che vivono in zone di conflitto in tutto il mondo hanno subìto un numero impressionante di attacchi. Lo denuncia l'ultimo rapporto dell'Unicef.

I principali contenuti di questo rapporto sono stati esaminati in un articolo pubblicato su www.globalist.it.

L’Unicef ha rilevato che le parti in conflitto hanno palesemente ignorato le leggi internazionali per la protezione dei più vulnerabili.

In particolare quest'anno in Afghanistan sono stati uccisi circa 700 bambini nei primi 9 mesi dell'anno, mentre nel nord est della Nigeria e in Camerun, Boko Haram ha costretto almeno 135 minori ad agire in attacchi bomba suicidi, un numero 5 volte più elevato rispetto al 2016.

In Iraq e in Siria, i bimbi sono stati usati come scudi umani, sono stati intrappolati sotto assedio, sono diventati obiettivi di cecchini e hanno vissuto intensi bombardamenti e violenze.

In Myanmar i bambini Rohingya hanno sofferto e hanno assistito a terribili e diffuse violenze. Sotto attacco sono stati costretti a lasciare le loro case nello Stato di Rakhine, mentre i minori nelle aree di confine negli Stati di Kachin, Shan e Kayin continuano a patire le conseguenze delle tensioni in corso tra le forze armate del Myanmar e i gruppi armati delle diverse etnie.

In Yemen, secondo dati verificati, dopo circa 1.000 giorni di combattimenti, almeno 5.000 bambini sono morti o sono stati feriti, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. Oltre 11 milioni di bimbi hanno bisogno di assistenza umanitaria. Degli 1,8 milioni di minori che soffrono di malnutrizione, 385.000 sono malnutriti gravemente e rischiano di morire se non riceveranno urgentemente cure.

“I bambini sono stati obiettivi e sono stati esposti ad attacchi e violenze brutali nelle loro case, scuole e parchi giochi”, ha dichiarato Manuel Fontaine, direttore dei programmi di emergenza dell'Unicef.

“Questi attacchi continuano anno dopo anno, ma non possiamo diventare insensibili. Violenze di questo tipo non possono rappresentare una nuova normalità”.

L'Unicef chiede a tutte le parti in conflitto di rispettare gli obblighi del diritto internazionale per porre immediatamente fine alle violazioni contro i bimbi e all'utilizzo delle infrastrutture civili - come scuole e ospedali - come obiettivi.

La richiesta dell’Unicef mi sembra ampiamente giustificata. Purtroppo non credo che tutte le diverse parti in conflitto la vorranno accogliere.

Per questo motivo, le istituzioni internazionali e i governi dei principali Paesi devono impegnarsi fortemente affinchè esse siano costrette a ridurre notevolmente il numero dei bambini morti in guerra.

E io spero pertanto che il 2018 sia un anno profondamente diverso dal 2017 anche per questo aspetto.

I bambini vittime delle guerre dovranno, non dovrebbero, diminuire considerevolmente.

martedì 26 dicembre 2017

Salute mentale, dimenticata dallo Stato


Il sistema pubblico, fondato su una rete diffusa costituita da oltre 900 dipartimenti di salute mentale, ritenuto a livello internazionale un modello di riferimento, corre un “doppio rischio”: da un lato quello del suo smantellamento progressivo, dall’altro quello di non riuscire a superare nemmeno le difficoltà quotidiane causate dall’aumento esponenziale di alcuni di tipi di patologie mentali. Lo sostengono, in un documento, alcuni rappresentanti della Sip (società italiana di psichiatria).

Nel documento, sottoscritto da Bernardo Carpiniello, Claudio Mencacci e Enrico Zanalda, rispettivamente presidente, ex presidente e segretario della Società italiana di psichiatria, si rileva tra l’altro:

“…L’Italia ha costruito nei suoi primi quattro decenni un capillare sistema pubblico, fondato su una rete diffusa costituita da oltre 900 dipartimenti di salute mentale alla quale viene affidato complessivamente il compito della prevenzione, cura e riabilitazione delle malattie mentali e più in generale del disagio psichico.

Questo sistema, giustamente ritenuto a livello internazionale un modello di riferimento, in quanto concreta realizzazione della ‘psichiatria di comunità’, corre un ‘doppio rischio’: da un lato quello del suo smantellamento progressivo all’interno del silenzioso processo di accorpamenti che sta avvenendo in Italia a seguito della creazione di aziende sanitarie sempre più ampie.
 
Dall’altro quello di non riuscire a superare nemmeno le difficoltà quotidiane causare dall’aumento esponenziale di alcuni tipi di patologie mentali con un altissimo tasso di crescita, come i disturbi dell’umore e d’ansia (che oggi da soli rappresentano più un terzo dell’utenza), le ‘nuove patologie’ (disturbi di personalità, ‘dipendenze comportamentali’, disturbi mentali dovuti ad uso di sostanze), le nuove incombenze (assistenza psichiatrica nelle carceri, cura dei pazienti autori di reato, tutela della salute mentale dei migranti ) e la persistenza di uno zoccolo duro di persone affette da disturbi mentali gravi di tipo psicotico, che da solo assorbe oltre il 60% delle risorse.

Di fronte a tutto ciò il sistema pubblico mostra crescenti crepe, amplificate dal progressivo impoverimento delle risorse di personale (in molte regioni italiane gli organici siano addirittura la metà di quelli fissati sulla base dell’ultimo progetto obiettivo nazionale) e dalla generale scarsità di risorse finanziarie, che per la salute mentale si attestano mediamente su circa il 3,5% dell’intera spesa sanitaria, a fronte di cifre comprese fra il 10 e il 15% di altri grandi paesi europei (Francia, il Regno Unito, Germania)….

In questa situazione, la prevenzione sembra un miraggio, mentre appare sempre più improbo lo sforzo di diversificazione ed ampliamento dei protocolli di trattamento innovativi e basati sulle evidenze, resi indispensabili da una sempre maggiore complessità dei casi da trattare, siano essi di tipo psicosociale (dagli interventi psicoeducativi a quelli di rimedio cognitivo, dalle terapie cognitivo comportamentali ai programmi supportati di reinserimento lavorativo per i pazienti affetti da patologie gravi) che di tipo farmacologico.

Persino per quanto riguarda questi ultimi sembra essere in atto lo rincorsa al contenimento delle spese farmaceutiche, in una logica di tagli lineari, che la Sip rifiuta integralmente perché colpisce ed impoverisce un settore già inequivocabilmente sottofinanziato.

Tale logica sta portando a provvedimenti inaccettabili sul piano etico-deontologico e terapeutico che sono oggetto di sempre più numerose segnalazioni da parte degli psichiatri del servizio sanitario pubblico.

Si va dalla esclusione dai prontuari terapeutici di alcuni farmaci di nuova generazione nel settore degli antidepressivi e degli antipsicotici, all’imposizione ai dirigenti di dipartimento e di struttura di tagli degli ordini relativi agli stessi farmaci, cioè quelli più innovativi e a lunga durata d’azione.

Tali provvedimenti hanno inevitabilmente comportato il ritorno ai trattamenti con farmaci ‘depot’, di prima generazione, o ai trattamenti con farmaci per via orale, nonostante il fatto che i primi siano inequivocabilmente gravati da rilevanti e maggiori problemi di tollerabilità ed accettabilità rispetto a quelli nuovi, e i secondi non garantiscano una adeguata aderenza terapeutica esponendo a maggior rischi di ricaduta, generando un inevitabile problema di aumento dei costi per ricoveri ospedalieri e inserimenti residenziali.

Ma ciò che è più grave è che tutto ciò avvenga in sostanziale violazione del diritto dell’assistito a ricevere la miglior cura possibile e del medico a sceglierla…

Su queste basi noi contestiamo l’argomento da cui nasce la logica dei tagli ovvero lo spesso asserito incremento esponenziale dei costi dei trattamenti psicofarmacologici. Se la spesa farmaceutica italiana ha un costante trend crescente questo non è certo imputabile al settore dei trattamenti psicofarmacologici…

I trattamenti farmacologici sono riconosciuti come fondamentali per il trattamento di gran parte dei disturbi mentali, rappresentando per i disturbi maggiori la componente insostituibile di programmi di cura complessi e possibilmente personalizzati.


Come Società italiana di psichiatria riteniamo nostro dovere e diritto ribadire che ogni taglio ulteriore alla già inadeguata spesa sanitaria nel settore per la salute mentale, compreso la riduzione che si continua ad operare della spesa farmaceutica, sia inaccettabile anche perché indicativa, ove mai ve ne fosse necessità, della discriminazione delle persone affette da disturbi mentali e della sostanziale e crescente marginalizzazione del sistema della salute mentale, eterna Cenerentola all’interno del panorama del sistema sanitario nazionale”.

domenica 24 dicembre 2017

Microplastiche anche nei laghi e nei fiumi


Il problema del “marine litter”, cioè dei rifiuti marini, e delle microplastiche in acqua non riguarda solo mari e oceani ma anche i bacini lacustri e i fiumi. A confermare la presenza di questo fenomeno nelle acque interne, i dati forniti da Legambiente che, nel corso della sua campagna itinerante “Goletta dei Laghi 2017”, ha realizzato per il secondo anno consecutivo, in collaborazione con Enea, un’indagine specifica.
In questa indagine è stato effettuato un campionamento ad hoc sulle microplastiche, con dimensione inferiore ai 5 millimetri, presenti nei laghi monitorando sei bacini: Iseo, Maggiore, Garda, Trasimeno, e per la prima volta Como e Bracciano, per un totale di quasi 50 chilometri percorsi dalla manta, la rete utilizzata per i vari campionamenti.
Allo stesso tempo, per la prima volta, sono stati campionati anche alcuni corsi fluviali immissari ed emissari, a monte e a valle degli impianti di trattamento delle acque presenti: il fiume Oglio per l’Iseo, in entrata e in uscita dal lago, l’Adda per il lago di Como, il Sarca in entrata nella parte trentina del Garda e il Mincio come emissario, visto che le particelle di plastica sono trasportate il più delle volte da corsi d’acqua e dagli scarichi. 
Dall’indagine di Legambiente ed Enea è emerso che , nei sei laghi monitorati, sono state rinvenute microparticelle di plastica.
Tra i bacini lacustri che presentano più microparticelle ci sono quello di Como e il lago Maggiore. Il primo con una densità media di 157.000 particelle per chilometro quadrato, nella parte settentrionale, e con un picco di oltre 500.000 particelle nel secondo transetto collocato più a nord.
Il lago Maggiore presenta una densità media di 123.000 particelle per chilometro quadrato, con un picco di oltre 560.000 particelle in corrispondenza della foce del fiume Tresa, tra Luino e Germignaga, sul quale insiste il depuratore e campionato successivamente ad un evento temporalesco, che potrebbe aver aumentato l’apporto degli scarichi e quindi di particelle dal fiume. 
Non se la passano bene neanche quelli di Bracciano e di Iseo. Il primo, fortemente colpito quest’estate dalla siccità e dell’eccessiva captazione che hanno creato condizioni ambientali critiche, nei dieci transetti campionati dai tecnici di Goletta dei Laghi presenta una media di 117.000 particelle per chilometro quadrato.
Il secondo, quello di Iseo, una media di 63.000 particelle. Valori medi più bassi invece per il lago di Garda - quasi 10.000 particelle per chilometro quadrato - e per il Trasimeno con 7.914 particelle per chilometro quadrato.
“Le microplastiche - ha dichiarato Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente - sono ormai sempre più presenti negli ecosistemi marini e terrestri, si tratta di un inquinamento di difficile quantificazione e impossibile da rimuovere totalmente. Con la Goletta dei Laghi e grazie alla collaborazione con Enea, abbiamo realizzato il primo studio a livello nazionale sull’inquinamento da microplastiche nei fiumi e nei laghi, uno strumento fondamentale per capire e conoscere la portata del fenomeno. Le cause sono per lo più la cattiva gestione dei rifiuti a monte e l’apporto che deriva dagli scarichi degli impianti di depurazione e da quelli che ancora oggi finiscono nei fiumi e nei laghi senza trattamento alcuno”.
Per fronteggiare questo problema e ridurre gli impatti, ha aggiunto Zampetti: “servono politiche di buona gestione su tutto il bacino idrografico, attività di sensibilizzazione e azioni efficaci di prevenzione…Infine è prioritario che il monitoraggio delle microplastiche sia inserito tra le attività istituzionali di controllo ambientale previste dalle norme sulla qualità dei corpi idrici, come fatto per il mare e le spiagge, considerando le microplastiche come indicatore per la definizione dello stato di salute delle acque interne”.
Per quanto riguarda i corsi fluviali immissari ed emissari dei bacini, Legambiente ha ricordato che i fiumi attraversano ampie porzioni di territorio e sono nastri trasportatori di ciò che ricevono, soprattutto in termini di rifiuti legati spesso ad una malagestione a livello urbano o portati dal dilavamento delle acque meteoriche, e legati al problema della maladepurazione. Per questo Goletta dei Laghi 2017 ha voluto allargare il fronte della ricerca campionando, prima e dopo gli impianti di depurazione, i corsi fluviali.
In particolare per l’Iseo è stato esaminato il fiume Oglio in entrata e in uscita, per quello di Como il fiume Adda, per il Garda il Sarca in entrata nella parte trentina e il Mincio come emissario. La differenza tra i campioni prelevati a valle e a monte dei depuratori può arrivare fino all’80% di particelle per metro cubo, come nel caso dell’Oglio e del Mincio.
Infine, oltre al campionamento delle microplastiche dei laghi, Goletta dei Laghi ha attivato una campagna di “citizen science” - riguardante cioè attività collegate ad un ricerca scientifica a cui partecipano semplici cittadini - per il monitoraggio dei rifiuti presenti sulle spiagge dei bacini lacustri.

Nel 90 % dei siti campionati è stata registrata la presenza di plastica, molto spesso frammenti di piccole dimensioni dovuti in larga parte ai rifiuti urbani, che a causa di una non corretta gestione da parte delle amministrazioni oltre all’abbandono, arrivano sulle sponde o direttamente in acqua e lì si degradano in frammenti sempre più piccoli. A questo si aggiunge un inefficace servizio di depurazione dei reflui urbani che contribuisce al fenomeno della diffusione di rifiuti.

mercoledì 20 dicembre 2017

Negli istituti di pena minorili 452 detenuti, metà gli stranieri


E’ stato recentemente presentato “Guardiamo Oltre”, il 4° rapporto dell’associazione Antigone sugli istituti di pena per minorenni (Ipm). Dal rapporto emerge che la giustizia minorile italiana è un sistema che funziona. Riesce realmente a relegare il carcere a numeri minimi. Tuttavia, in questi numeri ci sono sempre le stesse persone: gli stranieri, i ragazzi più marginali del sud Italia, tutti coloro per i quali la fragilità sociale e l’assenza di legami sul territorio rende difficile trovare percorsi alternativi alla detenzione.   

In particolare nel rapporto si può rilevare che al 15 novembre 2017 i presenti nei sedici istituti penali per minorenni d'Italia sono 452 (da pochi giorni ha riaperto il diciassettesimo istituto a Firenze).

I minorenni sono il 42%, i maggiorenni il 58%. Le ragazze sono 34 (pari all'8%) mentre gli stranieri sono in totale 200 e rappresentano il 44% della popolazione detenuta.

Il 48,2% di chi è attualmente detenuto in un Ipm è in custodia cautelare. E ad esserlo sono soprattutto i minorenni. Tra loro l’81,6% non ha ancora una condanna definitiva. Inoltre gli stranieri in custodia cautelare sono più degli italiani, rappresentando il 53,5% del totale.

Negli ultimi anni si è assistito ad una forte crescita dell'istituto della messa alla prova. Dai 778 provvedimenti del 1992 si è arrivati ai 3.757 casi del 2016. Una crescita di quasi cinque volte che avrebbe dovuto comportare una crescita corrispondente del personale di giustizia e dei servizi sociali, cosa non accaduta. 

“Nonostante questo quadro - ha dichiarato Susanna Marietti, responsabile dell'osservatorio minori di Antigone - possiamo fare di più e di meglio e, dunque, guardare oltre. Possiamo cancellare ogni forma di selezione sociale nella giustizia minorile e spingere ovunque quella capacità di attenzione alle problematiche del singolo che gli operatori hanno sempre dimostrato”. 

“Guardiamo oltre - ha sottolineato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - anche relativamente ai contenuti della riforma voluta dal governo per le carceri italiane che a giorni dovrebbe essere presentata”.
  
“La speranza - gli ha fatto eco Alessio Scandurra, altro curatore del rapporto insieme a Susanna Marietti - è quella che finalmente si scriva un ordinamento penitenziario organico specifico per i minori detenuti, nuove regole che mettano al centro in maniera radicale un progetto educativo e non repressivo e l’apertura al territorio. I ragazzi in carcere non possono essere gestiti con le stesse regole degli adulti”. 

E’ stato anche presentato www.ragazzidentro.it,  un sito realizzato da Antigone dedicato esclusivamente alla giustizia minorile dove, oltre ad essere confluiti tutti i precedenti rapporti, si possono trovare le schede relative ai sedici istituti di pena per minorenni presenti in Italia accompagnati da gallerie fotografiche e video inediti girati all'interno degli stessi, nonché approfondimenti sul tema. 

Altri dati contenuti nel rapporto possono essere citati.

Le presenze negli Ipm ormai dalla metà degli anni ‘80 si aggirano attorno alle 500 unità.

In media i giovani adulti, che oggi possono restare negli Ipm fino al compimento del venticinquesimo anno di età, sono il 58% dei presenti. La media è più alta per gli italiani, che sono il 65%, e più bassa per gli stranieri, solo il 50%, ed ancora più bassa per le femmine, che sono invece in prevalenza (59%) minorenni.

E’ in custodia cautelare il 48,2% dei ragazzi, ma il dato cambia molto se si guarda all’età. Tra i minorenni quelli in custodia cautelare sono l’81,6%, tra i giovani adulti solo il 24,0%. Il dato cambia anche in base alla nazionalità: i ragazzi in custodia cautelare sono minoranza tra gli italiani (44,0%) e maggioranza tra gli stranieri (53,5%).

Tra i ragazzi entrati negli Ipm nel corso dell’anno sono assolutamente prevalenti i reati contro il patrimonio, il 59% del totale, e addirittura il 67% tra i ragazzi stranieri. I contro la persona sono una minoranza (17%), ancor più tra gli stranieri (15%).

Campania e Sicilia sono le regioni di provenienza di ben oltre la metà dei ragazzi italiani detenuti negli Ipm. Circa il 10% viene dalla Lombardia, pochi meno dal Lazio. Dalla Puglia l’8 novembre veniva il 4,4% dei ragazzi italiani, dalla Calabria il 3,6%.

Nonostante la giovane età, tra i 1.207 ragazzi passati per gli Ipm nel 2017, ben 49, il 4,1%, era genitore di almeno un figlio. Sempre nel corso dell’anno 10 ragazze sono state detenute con il proprio bambino.

Secondo gli ultimi dati statistici gli stranieri rappresentano il 52% degli ingressi nei centri di prima accoglienza, il 39% dei collocamenti in comunità, il 48% degli ingressi negli Ipm, il 44% delle presenze statiche negli Ipm e solo il 26% dell’utenza degli uffici di servizio sociale per i minorenni.

Gli stranieri in percentuale vengono maggiormente sottoposti a misura cautelare detentiva: rappresentano il 45% di coloro sottoposti a prescrizioni, il 43% di coloro cui viene prescritta la permanenza in casa, il 49% di coloro per cui viene disposto il collocamento in comunità, ma il 55% di coloro che vengono sottoposti alla misura della custodia cautelare in carcere.

Nel primo semestre del 2017 le nazionalità straniere più rappresentate negli Ipm sono quelle dei minori provenienti dalla Romania (48 ingressi) e dal Marocco (36), dato che è rimasto costante dal 2014.

I dati evidenziano come, nonostante alcuni episodi accaduti al Ferrante Aporti di Torino, negli Ipm ci sia una situazione tranquilla, finanche più tranquilla rispetto al 2016. Non c’è giustificazione alle richieste di chi, sulla base di singoli eventi, chieda misure repressive o una maggiore chiusura degli spazi di vita interni.

Negli ultimi due anni non ci sono stati suicidi negli Ipm. Tra il 2016 e il 2017 (i dati del 2017 sono aggiornati all’8 novembre) vi è stata una diminuzione dei tentati suicidi: dai 45 del 2016 ai 19 del 2017. L’ultimo suicidio fortunatamente risale a otto anni fa ossia il 17 novembre 2009 nell’Ipm di Firenze.

I comportamenti dei ragazzi classificati come violenti sono anch’essi visibilmente calati: 183 nel 2016 contro gli 88 finora nel 2017.

Scendono anche i numeri riguardanti l’autolesionismo: dai 98 episodi del 2016 agli 80 del 2017.


Il numero delle infrazioni disciplinari è ugualmente sceso da 887 nel 2016 a 713 nel 2017.

domenica 17 dicembre 2017

Libera e gruppo Abele contro la corruzione


Libera e gruppo Abele hanno deciso di lanciare un nuova campagna contro la corruzione, una chiamata alla partecipazione civica dei cittadini per essere protagonisti con segni concreti di impegno. Infatti, nonostante gli arresti e le condanne, le mafie sono in buona, in certi casi in ottima salute. E’ cambiato in generale il metodo: poco sangue e tanta corruzione.

Perché questa nuova campagna?

“Alla violenza si preferisce il metodo più comodo e vantaggioso della corruzione. E corruzione significa che tra crimine organizzato, crimine politico e crimine economico è sempre più difficile distinguere.

Chi paga questa situazione? Tutti. E in particolar modo le persone che hanno più bisogno di riferimenti, di servizi, di politiche sociali. La corruzione ci rende tutti più poveri, mina lo sviluppo economico e il progresso sociale. Ogni atto di corruzione crea un deficit di democrazia e di diritti. Sostituisce la cultura dell’uguaglianza e della corresponsabilità con quella del favore e del privilegio.

Tutti noi ne siamo colpiti, tutti noi dobbiamo reagire. Non diversamente dal crimine organizzato, la corruzione ha i suoi alleati più forti nella rassegnazione diffusa e nel conformismo del ‘così fan tutti’, nella perdita di senso civico e nella pigrizia morale che ci fa preferire non la scelta giusta ma quella più conveniente”.

L’azione ipotizzata da Libera e gruppo Abele si muove secondo un duplice binario, dell’agire (in una logica di corresponsabilità) e del proporre (alle istituzioni competenti), sulla base di tre pilastri: far emergere la corruzione, resistere al malaffare, difendere ciò che è prezioso.

Far emergere la corruzione

Ciascuno di noi può, nella propria vita e nell’ambiente di lavoro, dire di no tutte quelle volte in cui assiste o può partecipare a situazioni e comportamenti opachi o viziati da logiche corruttive, clientelismi, familismi.

Questo no non può essere vincolato solo a scelte individuali: chi è solo va accompagnato da un noi.
Libera e gruppo Abele vogliono essere di sostegno a chi fa queste scelte, accompagnandolo non solo nel percorso verso la segnalazione/denuncia, ma anche fornendo un supporto nelle fasi successive, che rischiano di isolare e rendere vulnerabili le persone, anche tramite l’attivazione nel 2018 di linea Libera, per l’ascolto, l’orientamento e l’accompagnamento alle persone che si rivolgono al servizio campagne di coinvolgimento diffuso dei territori tramite canali social, al fine di veicolare il messaggio “indisponibili alla corruzione”.

La proposta  riguarderà l’accompagnamento, l’orientamento e l’ascolto di testimoni di giustizia e segnalanti di corruzione (whistleblowing) in tutte le fasi che li riguardano (pre-segnalazione, segnalazione, post-segnalazione), nonché l’armonizzazione della normativa tra testimoni e segnalanti.

Resistere al malaffare

Se la corruzione si fonda su un abuso di potere delegato per fini privati (come da definizione internazionalmente accolta), allora è indispensabile che, fin da piccoli, ciascuno di noi sia educato a una buona gestione del potere delegato, che è quel potere che a tutti noi la società affida e che noi affidiamo ad altri al fine di agire per il bene comune. Occorre conoscere fin da bambini i rischi corruzione che avvengono nella nostra vita, e studiare affinché sappiamo vigilare su quel potere che deleghiamo ad altri.

Quale l’impegno di Libera e gruppo Abele?

A livello scolastico, attraverso strumenti per studenti e insegnanti, che spieghino i meccanismi della corruzione e le linee guida per comprendere il fenomeno.

A livello scolastico e universitario, con la redazione di strumenti ad hoc per le scuole secondarie di I e di II grado e per carriere universitarie.

A livello di alta formazione, promuovendo il master interuniversitario in “Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione”, tesaurizzando l’esperienza maturata in questi sette anni di attività a Pisa, e proponendo l’istituzione di un centro interuniversitario di ricerca sui temi della criminalità organizzata e della corruzione.

A livello di cultura diffusa, attraverso l’attivazione del centro di documentazione per la cultura dell’integrità.

Con gli ordini professionali, attraverso percorsi di formazione per l’etica della responsabilità e la cultura dell’integrità nel lavoro.

La proposta riguarderà il riconoscimento della formazione come elemento fondamentale per sedimentare una nuova cultura nella lotta alle mafie e alla corruzione, la promozione della cultura dell’integrità, anche attraverso la previsione di piani e progetti ad hoc, scolastici e universitari.

Difendere ciò che è prezioso

Per prevenire efficacemente la corruzione, è fondamentale un ruolo di vigilanza diffusa ad opera di tanti cittadini che, dal basso, possano collaborare con le istituzioni pubbliche (senza confondere vigilanti e decisori) affinché corrotti e corruttori restino lontani dalla cosa comune.

Dalla legge anticorruzione 190/2012 in poi, a tutti i cittadini sono consegnati degli strumenti concreti per divenire “cittadini monitoranti” dei quali Libera e gruppo Abele vogliono incoraggiarne la conoscenza e il corretto utilizzo.

Su questo pilastro, Libera e Gruppo Abele - anche attraverso l’iniziativa “Common”, acronimo di Comunità monitoranti - si impegnano:

- a diffondere la conoscenza degli strumenti di cittadinanza monitorante, tramite una scuola nazionale annuale (scuola Common), percorsi territoriali, formazioni dedicate e una rete nazionale tra tutte le realtà che si riconoscono come “comunità monitoranti” del proprio territorio;

- a realizzare iniziative di promozione della trasparenza su specifici settori.

E, come proposta, Libera e gruppo Abele chiedono a tutte pubbliche amministrazioni (nazionali, territoriali, locali, sanitarie, scolastiche e universitarie ...) di:

- rispondere ad una vera logica di “governo aperto”, ottemperando alla normativa anticorruzione prevista da legge non solo con un approccio formalistico e burocratico, ma come opportunità di serio confronto interno e dibattito circa come prevenire il malaffare che può annidarsi all’interno degli enti pubblici;


- aprirsi al confronto e alla vigilanza della cittadinanza monitorante, affinché sia possibile farsi aiutare nel compito della prevenzione del malaffare tramite un contributo proveniente dall’esterno.

mercoledì 13 dicembre 2017

Tribunale per i diritti del malato, liste d'attesa troppo lunghe e pronto soccorso in affanno


E’ stato presentato il ventesimo rapporto Pit Salute da parte di Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato, dal titolo “Sanità pubblica: prima scelta, ma a caro prezzo”. Secondo il rapporto i cittadini vogliono curarsi nel servizio sanitario pubblico, perché si fidano di tale servizio e non possono sostenere i costi di una assistenza privata. Ma fanno i conti con liste di attesa lunghe, costo elevato dei ticket e dei farmaci e con un’assistenza territoriale che, più del passato, registra carenze e disservizi.

Per quanto riguarda le liste d’attesa, i cittadini segnalano soprattutto tempi lunghi per accedere alle visite specialistiche, in misura di un valore che passa dal 34,3% del 2015 al 40,3% del 2016. Seguono, con il 28,1% delle segnalazioni (era il 35,3% nel 2015), i lunghi tempi per gli interventi chirurgici; al terzo posto le liste di attesa per gli esami diagnostici (dal 25,5% 2015 al 26,4% del 2016).

Il 37,4%  denuncia i costi elevati e gli aumenti relativi ai ticket per la diagnostica e la specialistica, mentre il 31% esprime disagio rispetto ai casi di mancata esenzione dal ticket (in aumento, rispetto al 24,5% del 2015)  Oltre che per i ticket, i cittadini denunciano come insostenibili i costi per farmaci, intramoenia, Rsa (residenze sanitarie assistite) e protesi ed ausili.

In aumento anche le difficoltà relative all’assistenza territoriale (dall’11,5% del 2015 al 13,9% del 2016): in particolare, quasi un cittadino su tre (30,5%) segnala problemi con l’assistenza primaria di base, soprattutto per il rifiuto di prescrizioni da parte del medico (anche per effetto del decreto appropriatezza) e per l’inadeguatezza degli orari dello studio del medico di base.

In seconda battuta, il 16,6% ha difficoltà all’interno delle strutture residenziali come Rsa e lungodegenze, a causa dei costi eccessivi della degenza (per quasi due su cinque), della scarsa assistenza medico-infermieristica (meno di uno su tre) e delle lunghe liste di attesa per l’accesso alle strutture (uno su cinque). 

Il 13,8% dei cittadini, in crescita rispetto al 2015, segnala disservizi per il riconoscimento di invalidità ed handicap, che in più della metà dei casi risulta estremamente lento. In un caso su quattro l’esito dell’accertamento è considerato inadeguato alle condizioni di salute. Troppo lunghi inoltre, per il 15,8% dei cittadini che si sono rivolti a Cittadinanzattiva, i tempi di erogazione dei benefici economici e delle agevolazioni. 

In lieve diminuzione le segnalazioni su casi di presunta “malpractice” e sicurezza delle strutture: nel 2016 arrivano al 13,3% rispetto al 14,6% del 2015. La voce più rappresentata (47,9%) è quella dei presunti errori diagnostici e terapeutici.

Cresce invece il dato sulle condizioni di sicurezza delle strutture (dal 25,7% al 30,4%) che riguardano soprattutto le disattenzioni del personale (13,6%), i casi di sangue infetto (5,4%) e le infezioni ospedaliere (5,4%).

L’8,2% dei cittadini segnala problematiche nell’assistenza ospedaliera (88,2%) e nella mobilità sanitaria (11,8%). In riferimento alla prima voce, è soprattutto l’area della emergenza urgenza ad essere nel mirino delle lamentele delle persone che segnalano procedure di “triage” non trasparenti (42,9%) e lunghe attese al pronto soccorso (40,5%). Segue il tema dei ricoveri, su cui i cittadini denunciano spesso di vedersi rifiutato il ricovero (34,5%), o che lo stesso è avvenuto in un reparto inadeguato (21,4%) e ancora la mancanza di reparti e servizi (7,2%).

In aumento, rispetto al 2015, le segnalazioni sulle dimissioni: il 58,8% le reputa improprie, il 29,2% ha difficoltà ad essere preso in carico dal territorio dopo la dimissione, che non risparmiano nemmeno i malati nella fase finale della vita (11,8%).

“I cittadini non ce la fanno più ad aspettare e a metter mano al portafoglio per curarsi; anche le vie dell’intramoenia e del privato sono diventate insostenibili. Serve più servizio sanitario pubblico, più accessibile, efficiente e tempestivo”, ha dichiarato Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva, relativamente ai contenuti del rapporto.

Così ha proseguito Aceti: “A fronte di dimissioni ospedaliere sempre più anticipate e problematiche, la rete dei servizi socio-sanitari territoriali non è in grado di dare risposte alle persone in condizioni di ‘fragilità’, come gli anziani soli, le persone non autosufficienti o con cronicità, quelle con sofferenza mentale.
E’ anche per questo che le famiglie fanno sempre più affidamento sui benefici economici derivanti da invalidità civile e accompagnamento. Ma incontrano anche qui difficoltà di accesso crescenti.

Le priorità, dunque, oltre a rafforzare gli interventi, le politiche sociali e attuare il piano nazionale della cronicità, sono: rilanciare gli investimenti nel servizio sanitario nazionale in termini di risorse economiche, di interventi strutturali per ammodernamento tecnologico ed edilizia sanitaria, nonché nel personale sanitario.

E ancora una strategia nazionale nuova per governare tempi di attesa ed intramoenia; alleggerire il peso dei ticket e revisionare la disciplina che li regola tenendo conto anche dei cambiamenti sociali e dell’alto tasso di rinuncia alle cure. Tutto questo è necessario per dare risposte alle profonde disuguaglianze in sanità che ci vengono segnalate”.

domenica 10 dicembre 2017

Aumenta il reddito ma anche la povertà


L’Istat ha, recentemente, diffuso alcuni dati sull’andamento del reddito in Italia nel 2015. Tali dati evidenziano una significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d'acquisto delle famiglie, associata però a un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale.

Infatti, nel 2015, il reddito netto medio annuo per famiglia è risultato essere pari a 29.988 euro, circa 2.500 euro al mese (+1,8% in termini nominali e +1,7% in termini di potere d'acquisto rispetto al 2014).

E tale crescita del reddito familiare può essere considerata, senza dubbio, piuttosto significativa.

Ma non ci si può fermare a tale commento.

Innanzitutto occorre rilevare che la crescita del reddito è stata più intensa per il quinto più ricco della popolazione, trainata dal sensibile incremento della fascia alta dei redditi da lavoro autonomo, in ripresa dopo diversi anni di notevole flessione.

Quindi si stima che il rapporto tra il reddito totale del 20% più ricco e quello del 20% più povero sia aumentato da 5,8 a 6,3.

Quest’ultima stima dimostra pertanto che nel 2015 sono aumentate le diseguaglianze economiche.

Inoltre in base ad altre analisi, relative non solo all’Italia, si può notare che tali diseguaglianze si sono accresciute, in tutto il periodo della crisi economica.

Del resto, sempre nell’anno considerato, metà delle famiglie residenti in Italia ha percepito un reddito netto non superiore a 24.522 euro l'anno (circa 2.016 euro al mese).

Quanto fino ad ora esposto risulta confermato da altri dati, forniti anche in questo caso dall’Istat, relativi al 2016.

Infatti nel 2016 si stima che il 30,0% delle persone residenti in Italia sia a rischio di povertà o esclusione sociale, con un peggioramento rispetto all'anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%.

E’ aumentata sia l'incidenza di individui a rischio di povertà (20,6%, dal 19,9%) sia la quota di quanti vivono in famiglie gravemente deprivate (12,1% da 11,5%), così come quella delle persone che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (12,8%, da 11,7%).

Il Mezzogiorno resta l'area territoriale più esposta al rischio di povertà o esclusione sociale (46,9%, in lieve crescita dal 46,4% del 2015). Il rischio è minore, sebbene in aumento, nel Nord-ovest (21,0% da 18,5%) e nel Nord-est (17,1% da 15,9%). Nel Centro un quarto della popolazione (25,1%) permane in tale condizione.


Le famiglie con cinque o più componenti si confermano le più esposte al rischio di povertà o esclusione sociale (43,7% come nel 2015), ma è per quelle con uno o due componenti che questo indicatore peggiora (per le prime sale al 34,9% dal 31,6%, per le seconde al 25,2% dal 22,4%).

mercoledì 6 dicembre 2017

Per una contraccezione gratuita


Ha preso il via il 6 dicembre la raccolta di firme per sollecitare l’Agenzia del Farmaco (Aifa) e il Ministero della Salute a garantire l’accesso gratuito alla contraccezione. La petizione è promossa dal comitato per la contraccezione gratuita e consapevole, che propone soluzioni concrete per superare l’arretratezza dell’Italia su questo fronte.

Nel nostro, a differenza di altri Paesi europei, come la Francia, il Belgio e la Germania, la contraccezione è interamente a carico delle cittadine e dei cittadini, salvo rare iniziative locali.

In linea con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il comitato ha evidenziato che la disponibilità di contraccettivi gratuiti, erogati a carico del servizio sanitario nazionale, è condizione necessaria per garantire il diritto alla procreazione responsabile, con ricadute importanti sulla salute delle donne.

Preservativi maschili o femminili per alcune categorie a maggior rischio, spirali al rame o medicate con progestinici, contraccettivi orali, cerotti anticoncezionali, anelli vaginali e impianti sottocutanei con progestinici, la proposta del comitato spiega quali sono i contraccettivi essenziali per il loro profilo di sicurezza, facilità d’uso ed efficacia.

“E’ necessaria un'azione a livello nazionale per rimuovere discriminazioni economiche e territoriali e garantire a tutte le cittadine e i cittadini, anche quelli che appartengono alle fasce socio-economiche più svantaggiate, l'accesso a presidi che rientrano nella lista delle medicine essenziali stilata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità e aggiornata nel 2017”, ha affermato Pietro Puzzi, ginecologo consultoriale e portavoce, insieme alla collega Marina Toschi, del comitato per la contraccezione gratuita e consapevole.

“Chiediamo a tutta la società civile, cittadine e cittadini, di far sentire la propria voce firmando il nostro appello”, ha detto Marina Toschi, che ha aggiunto: “Le campagne pubbliche di informazione sulla fertilità lanciate negli ultimi anni si basano sul fondamento comune della procreazione responsabile, diritto che nel 2017 nessuno metterebbe mai in discussione in un Paese democratico.

Tuttavia oggi in Italia il costo della contraccezione risulta troppo oneroso per tante donne, coppie e famiglie in condizioni di disagio economico, acuite dalla crisi.

La concreta difficoltà di regolare la propria fertilità, programmando e distanziando adeguatamente le gravidanze, ma anche la scelta obbligata del contraccettivo meno adatto, hanno un evidente impatto negativo sulla salute fisica e psicologica di queste donne, accentuando ulteriormente i loro problemi economici e sociali”.

Per firmare la petizione si può utilizzare questo link https://www.change.org/p/contraccezione-gratuita-e-consapevole.

L’elenco dei contraccettivi per cui il comitato chiede la rimborsabilità da parte del servizio sanitario nazionale è il seguente:

- preservativi a scopo anticoncezionale e per la prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale, quanto meno per alcune categorie a maggior rischio come i minorenni e i partner di persone Hiv positive;

- spirali intrauterine al rame, che garantiscono una protezione anticoncezionale di lunga durata (5 anni) eliminando il rischio di dimenticanza;

- spirali intrauterine medicate con progestinici, almeno quella con 52 mg. di levonorgestrel, che oltre a garantire protezione anticoncezionale sono indicate nel trattamento della metrorragia;

- contraccettivi orali estroprogestinici di seconda generazione, che offrono il miglior profilo di sicurezza rispetto al rischio di eventi tromboembolitici;

- contraccettivi orali progestinici, indicati per chi non può assumere estrogeni e in allattamento, per programmare e distanziare adeguatamente le gravidanze;

- cerotti anticoncezionali transdermici e anelli vaginali, che rilasciano attraverso la cute o la mucosa una combinazione di ormoni estro progestinici;

- impianti sottocutanei con progestinico, che garantiscono una protezione contraccettiva di lunga durata (3 anni) eliminando il rischio di dimenticanza e sono utilizzabili in allattamento.

domenica 3 dicembre 2017

Gli smartphone e internet creano dipendenza


Gli smartphone e internet creano dipendenza. Lo dimostra uno studio presentato recentemente a Chicago, al congresso della Radiological Society of North America (Rsna), che riunisce oltre 60.000 radiologi da tutto il mondo.

Di questo studio riferisce Maria Rita Montebelli, in un articolo pubblicato su www.quotidianosanita.it.

Infatti uno studio, presentato in occasione del congresso citato, condotto presso la neuroradiologia dell’Università di Seul (Corea del Sud), effettuato utilizzando la spettroscopia con tecnica di risonanza magnetica (Mrs) - in pratica una risonanza magnetica in grado di misurare la composizione chimica del cervello -  ha dimostrato che il cervello dei soggetti con cyber-dipendenza (da internet o da smartphone) è diverso da quello dagli altri ragazzi.

Lo studio ha valutato 19 quindicenni (9 dei quali maschi), con diagnosi di dipendenza da internet o da smartphone, confrontandoli con altrettanti coetanei “sani”.

Per misurare la gravità della dipendenza, i ricercatori coreani hanno utilizzato dei test standardizzati, con domande focalizzate su come e quanto internet e lo smartphone influenzassero le attività della vita quotidiana, la vita sociale del ragazzo, la sua produttività, i “pattern” di sonno e i suoi sentimenti. I ragazzi inclusi nello studio avevano tutti un punteggio molto elevato (indice di maggior gravità) nei campi della depressione, dell’ansia, dell’insonnia e dell’impulsività.

Tutti sono stati sottoposti ad una prima spettroscopia con tecnica di risonanza magnetica (Mrs) per misurare i livelli di Gaba (acido gamma aminoburrico, un neurotrasmettitore cerebrale che rallenta o inibisce i segnali cerebrali) e di glutamato-glutamina (Glx, un neurotrasmettitore eccitatorio). I ragazzi con dipendenza sono stati nuovamente sottoposti al test Mrs al termine di un ciclo di psico-terapia.

Era già noto da studi precedenti che il Gaba è coinvolto nel controllo visivo e motorio, nella regolazione di varie funzioni cerebrali e nell’ansia.

Nel lavoro presentato a Chicago, la Mrs ha rivelato che il rapporto Gaba/Glx risultava significativamente aumentato nella corteccia del giro cingolato anteriore nei soggetti con dipendenza da internet/smartphone, rispetto ai soggetti sani e prima dell’intervento psicoterapeutico. La buona notizia è che la terapia cognitivo-comportamentale è riuscita in gran parte a normalizzare le alterazioni chimiche del cervello di questi ragazzi.

E’ ancora presto per stabilire con certezza le ricadute cliniche di questo dato neuro-funzionale, ma il dottor Hyung Suk Seo, autore dello studio e professore di neuroradiologia presso la Korea University di Seoul, ritiene che l’aumentata concentrazione di Gaba nel giro cingolato anteriore in questi ragazzi con dipendenza da internet/smartphone possa interferire con l’integrazione e la regolazione del processamento del network neurale emotivo e cognitivo.

Un dato preoccupante che si aggiunge ai risultati di recenti ricerche che suggeriscono che la dipendenza da internet aumenti i sintomi depressivi e stimoli l’ideazione suicidaria.

Certo, anche non considerando questo studio, osservando semplicemente il comportamento quotidiano di molti giovani, si può già ipotizzare che si sia verificata una situazione di dipendenza nei confronti soprattutto degli smartphone.

Lo studio coreano è però importante perché dimostra, scientificamente, che tale dipendenza è possibile.

Probabilmente altri studi saranno necessari per arrivare ad una conclusione definitiva.

Ma i risultati dello studio coreano sono decisamente attendibili, proprio tenendo presente, come già rilevato, il comportamento quotidiano dei giovani.

E quindi sarebbe opportuno fin d’ora individuare le iniziative più appropriate per ridurre, anche considerevolmente, i tempi di utilizzo dello smartphone da parte dei giovani, ma anche da parte degli adulti.

In questo ultimo caso per vari motivi, pur diversi dallo stato di salute. Si pensi solamente al fatto che l’utilizzo dello smartphone determina una parte consistente degli incidenti stradali.

mercoledì 29 novembre 2017

Che soddisfazione, in Germania non riescono a fare un governo


Dopo le elezioni tenutesi recentemente, in Germania la Merkel non è riuscita a formare un governo composto da Cdu e Csu oltre che dai liberali e dai verdi. I liberali, dopo lunghe trattative, hanno deciso di non partecipare al governo ipotizzato dalla cancelliera uscente.

A questo punto diverse sono le alternative possibili: un governo di coalizione tra cristiano democratici e cristiano sociali da una parte e socialdemocratici dall’altra, un governo di minoranza sempre capeggiato dalla Merkel o nuove elezioni.

La prima di queste alternative sembra la più probabile, ma un governo di coalizione tra cristiano democratici e socialdemocratici non dovrebbe formarsi prima della Pasqua del 2018, periodo necessario perché i socialdemocratici riescano a convincere i propri iscritti della necessità di dare vita a quel governo.

Quindi un Paese, come la Germania, che fino ad ora era considerato la patria della stabilità politica, è anch’esso contraddistinto, attualmente, da una situazione di forte instabilità.

Pertanto, non solamente in Italia si verificano situazioni di instabilità politica, manifestatesi soprattutto in passato ma che potrebbero esserci anche dopo le prossime elezioni politiche, in primo luogo a causa delle caratteristiche della legge elettorale da poco approvata dal Parlamento.

In realtà quanto sta avvenendo in Germania non dovrebbe stupire più di tanto, se si considera l’affermazione, in molti Paesi europei, di partiti e movimenti populisti, talvolta di estrema destra e razzisti. Tale affermazione ha avuto spesso come conseguenza il determinarsi di una situazione di instabilità politica.

Certo, il principio “mal comune mezzo gaudio” non deve deresponsabilizzare in Italia i partiti non populisti del centro sinistra e del centro destra, i quali si dovrebbero impegnare fortemente per contrastare l’affermazione dei partiti populisti, tramite però l’adozione di cambiamenti radicali nelle loro politiche.


Ma tali cambiamenti dovrebbero interessare i partiti di centro sinistra e di centro destra di tutta Europa, e al centro della loro azione è necessario che vi sia la consapevolezza dell’importanza di rafforzare l’Unione europea, accrescendo i suoi poteri, e non certamente il tentativo di ridurne ruolo e competenze.

domenica 26 novembre 2017

Le mafie e l'economia italiana


Nel 2015 il Pil (prodotto interno lordo) in Italia è cresciuto anche in seguito ad un lieve aumento dell’economia illegale. Lo certifica un rapporto dell’Istat. Ed è più che probabile che la stessa situazione si sia verificata negli anni successivi. E’ certo comunque che l’economia illegale svolga un ruolo piuttosto importante, nell’ambito del sistema economico italiano.

Di questo rapporto si occupa, in un articolo pubblicato su www.lavoce.info, Eleonora Montani.
Così scrive Eleonora Montani:

 “L’11 ottobre è stato reso noto il report dell’Istat sui dati dell’‘economia non osservata’ nei conti nazionali negli anni 2012-2015. Il report, che stima il prodotto dell’economia sommersa e delle attività illegali, enfatizza il ‘lieve aumento dell’economia illegale nel 2015’.

Una buona notizia: il Pil sale e con lui il benessere di tutti noi. Ma come la mettiamo con l’indubbio disvalore delle attività che contribuiscono al segno positivo nel segmento di attività illegale?...”

“Sono tre le attività illecite che contribuiscono alla formazione del prodotto interno lordo: il traffico di sostanze stupefacenti, i servizi della prostituzione e il contrabbando di tabacco.

Nel corso degli anni, nonostante un calo dell’economia non osservata attribuibile a una diminuzione della cifra del sommerso, la stima delle attività illegali si è mantenuta costante quando non è aumentata.

In base all’ultimo dato reso noto dall’Istat, si stima che le attività illegali abbiano generato un valore aggiunto pari a 15,8 miliardi di euro, 0,2 miliardi in più rispetto all’anno precedente…”.

“Al di là di ogni considerazione di ordine economico sulla necessità di utilizzare un sistema omogeneo tra i Paesi dell’Unione europea e di comprendere nelle stime dei conti nazionali tutte le attività che producono reddito, appare evidente la profonda contraddizione insita in questa scelta.
Se da un punto di vista economico si può ritenere neutro lo status giuridico del reddito, in uno stato di diritto la criminalità dovrebbe essere sempre combattuta.

Tanto più in Italia, dove la stretta relazione tra mafia ed economia non è certo una novità.

Già Giovanni Falcone sosteneva che per colpire la mafia occorre colpire i suoi interessi economici e ne metteva in evidenza la centralità per le organizzazioni criminali.

Le indagini più recenti hanno poi rivelato una intensa crescita dei legami tra economia lecita ed economia illecita. Di più, le ricostruzioni delle attività della realtà criminale hanno messo in luce come il traffico di sostanze stupefacenti possa essere considerata la principale fonte di reddito delle organizzazioni criminali.

Anche sotto questo punto di vista, appare allora lecito interrogarsi sull’opportunità della scelta di ricomprendere nel Pil voci riconducibili alle attività delle organizzazioni mafiose, come se lo stato riconoscesse e si avvalesse dei benefici prodotti dall’antistato”.

Gli interrogativi che si pone Eleonora Montani sono legittimi.

Io credo però che riconoscere, anche statisticamente, che l’economia criminale, le mafie, occupino una posizione di tutto rilievo nell’ambito del sistema economico italiano non si possa evitare, anche perché fornire dati il più possibile attendibili sull’importanza dal punto di vista economico delle attività illegali può rappresentare un’ulteriore dimostrazione della necessità di contrastarle. 

mercoledì 22 novembre 2017

Energia e rifiuti: aumentano gli impianti contestati


Energia e rifiuti, in questi settori, nel 2016, si sono verificate gran parte delle contestazioni secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Media Permanente Nimby Forum, l’unico database nazionale che dal 2004 monitora in maniera puntuale la situazione delle opposizioni contro opere di pubblica utilità e insediamenti industriali in costruzione o ancora in progetto.
E’ stata presentata, infatti, la nuova edizione dell’Osservatorio che esamina lo stato dell’arte della sindrome Nimby in Italia nel 2016 e conferma come il comparto energetico (56,7%) e quello dei rifiuti (37,4%) si contendano il podio dei No.
Più in generale, nel 2016, la ricerca arriva a contare 359 impianti contestati: in aumento del 5% rispetto all’anno precedente, questo dato mette l’accento sulla situazione strutturale di un Paese bloccato, in cui le opposizioni di comitati, partiti ed enti pubblici fanno da eco puntuale ad ogni iniziativa di sviluppo industriale.
Cresce anche il numero delle opere che, per la prima volta, vengono intercettate dal monitoraggio: il 2016 lascia in dote al database Nimby ben 119 new entries (+7,2% sul 2015).
La partecipazione attiva ai processi decisionali è diventata, per i cittadini, un’esigenza imperativa: le comunità si aspettano di essere interpellate, consultate, coinvolte. Non a caso, l’assenza di coinvolgimento ricorre al secondo posto, dopo le preoccupazioni per l’ambiente, come causa alla base delle contestazioni, con un trend di incremento progressivo ma costante: 14,6% nel 2014, 18,6% nel 2015, 21,3% nel 2016.
Quindi anche nel 2016, la politica industriale italiana sembra incepparsi in maniera prevalente attorno ai nodi dell’energia e dei rifiuti: rispettivamente al primo e al secondo posto, si contendono il podio dei comparti più contestati.
Il settore energetico vede le opposizioni orientarsi in maniera preponderante verso gli impianti da fonti rinnovabili (75,4%). Le tipologie di impianto più avversate sono, in particolare, la centrale a biomasse (43 impianti), la struttura di compostaggio (20) e il parco eolico (13).
Meno ricorrenti in termini assoluti rispetto alle fonti rinnovabili, le fonti di energia convenzionale si aggiudicano il primato relativo alla tipologia specifica di impianto più contestata. Si tratta degli impianti di ricerca ed estrazione di idrocarburi, che da soli assommano a 81 opere censite.
Le politiche europee in materia di rifiuti ed economia circolare sembrano, dal 2015, corrispondere al “revamping” della sindrome Nimby in questo settore: l’auspicata transizione alla green economy sta, infatti, concentrando un numero crescente di investimenti nella filiera del recupero dei rifiuti, moltiplicando iniziative progettuali inevitabilmente contestate. Termovalorizzatori (37), discariche per rifiuti urbani (30) e discariche per rifiuti speciali (18) ricorrono tra i primi posti in questo comparto.
Il monitoraggio della stampa nel 2016 conferma il ruolo di assoluta centralità della politica, che - tra enti pubblici e partiti politici - trascina le contestazioni nel 50% dei casi censiti.
Seguono le organizzazioni e i comitati dei cittadini, che pesano per un terzo sull’insieme dei soggetti promotori del No.
Un peso corrispondente alla quantità abnorme di ricorsi alla giustizia amministrativa, che sempre più spesso è chiamata a dirimere richieste di interruzione/revoca di iter già avviati o conclusi.
Ulteriore conseguenza del ruolo del soggetto “popolare” è il ranking delle ragioni di protesta: al primo posto figura l’impatto con l’ambiente, che si attesta al 30,1%, in leggera flessione rispetto al 2015 (32,8%). Segue il già citato scontento causato dalle carenze procedurali e dal mancato coinvolgimento nell’iter autorizzativo.
La mappa del contagio Nimby evidenzia la trasversalità delle opposizioni anche dal punto di vista geografico.
Seguendo pedissequamente la distribuzione dei progetti di sviluppo industriale, il No ricorre con maggiore capillarità nel Nord Italia (41%): Lombardia ed Emilia Romagna mantengono i primi posti, con rispettivamente 56 e 48 impianti contestati.
Non mancano tuttavia, le opposizioni nelle regioni del Centro e del Sud Italia. Con 32 impianti contestati (erano 6 nel 2014), la Basilicata rappresenta ormai un territorio di grande frizione tra imprese, politica e cittadini, tanto da surclassare regioni come Lazio (30), Veneto ( 28) e Sicilia (26), assai più visibili nei confronti dei media e dell’opinione pubblica nazionale.
Rispetto al 2015, passa dal 15% al 20% il numero dei soggetti che si esprime a favore degli impianti. Voci che, pur flebilmente, si spendono per affermare come grandi opere e infrastrutture possano essere occasioni di rilancio economico, di miglioramento dei servizi e incremento dell’occupazione.
In ogni caso, le iniziative di comunicazione rimangono prerogativa degli oppositori (80%), i quali fanno leva in maniera meno frequente ai media tradizionali (25,7% nel 2016 e 29,9% nel 2105).
La bilancia della comunicazione Nimby inizia così a pendere anche in favore dei social media, che passano dal 16,8% del 2015 al 22,9% del 2016 nella ricorrenza d’uso da parte dei contestatori.
Nell’epoca delle post verità e delle fake news, compaiono a livello territoriale veri e propri “influencer del No”, che hanno spesso facile gioco nel confondere le carte dell’informazione e ostacolare la possibilità degli individui di formarsi una opinione laica sui fatti.
Si può concludere esaminando gli obiettivi del Nimby Forum, un vero e proprio “think tank”, così come sono esposti nel sito web dei promotori di questa iniziativa.
“Nel nostro Paese lo sviluppo infrastrutturale incontra continui ostacoli e ritardi, con conseguenti perdite economiche, tensioni sociali e incertezze.
Nimby Forum si pone l’obiettivo di sensibilizzare i diversi stakeholder verso un percorso che concili progresso e tutela del territorio, interessi pubblici e privati, impresa e governo, sviluppo e sostenibilità.
La progettazione di una grande opera civile di pubblica utilità o la realizzazione di un impianto industriale per la produzione di energia o per il trattamento dei rifiuti determina spesso opposizioni da parte del territorio. 
Si tratta di una vera e propria sindrome, nota come Nimby (not in my back yard = non nel mio cortile), oggi sempre più diffusa nei vari strati della popolazione nazionale”.