Quasi due anni di attesa per una mammografia, circa un anno per una
ecografia, una tac, o un intervento ortopedico. E a rinunciare alle cure nel
corso del 2021 è stato più di un cittadino su dieci. Screening oncologici in
ritardo in oltre la metà dei territori regionali e coperture in calo per i
vaccini ordinari. Questi sono alcuni dei principali problemi evidenziati nel
rapporto civico sulla salute. I diritti dei cittadini e il federalismo in sanita”,
presentato da Cittadinanzattiva.
Più precisamente, liste di attesa per le cure
ordinarie, ritardi nella erogazione degli screening e dei vaccini, carenze
nella assistenza territoriale sono i primi tre ambiti nei quali si sono
concentrate, nel corso del 2021, le 13.748 segnalazioni dei cittadini inviate a
Cittadinanzattiva.
Nello specifico
questo il dettaglio degli ambiti maggiormente segnalati: l’accesso alle
prestazioni (23,8%), la prevenzione (19,7%), l’assistenza territoriale (17,4%),
l’assistenza ospedaliera e la mobilità sanitaria (11,4%), al quinto posto
la voce “altro” (9,8%) che comprende la somma di differenti
segnalazioni (accesso alle informazioni e alla documentazione, prestazioni
assistenziali, agevolazioni/lavoro, malattie rare). Seguono insicurezza delle
cure e presunta malpractice (8%),
costi delle cure (5%), relazioni con operatori sanitari ed umanizzazione (3,8%)
e farmaci (1,1%).
Di seguito alcuni approfondimenti dei temi principali.
Le liste d’attesa, già “tallone di Achille” del sistema
sanitario nazionale in tempi ordinari, durante l’emergenza hanno rappresentato
la principale criticità per i cittadini, in particolare per i più fragili, che
di fatto non sono riusciti più ad accedere alle prestazioni.
I lunghi tempi di attesa (che rappresentano il 71,2%
delle segnalazioni di difficoltà di accesso) sono riferiti nel 53,1% di
casi agli interventi chirurgici e agli esami diagnostici, nel 51% alle
visite di controllo e nel 46,9% alle prime visite specialistiche. Seguono
le liste d’attesa per la riabilitazione (32,7%) per i ricoveri (30,6%) e
quelle per attivare le cure domiciliari (26,5%) e l’assistenza
riabilitativa domiciliare (24,4%).
Nel 2021, l’11,0% delle persone ha dichiarato di aver
rinunciato a visite ed esami per problemi economici o legati alle
difficoltà di accesso al servizio (Rapporto Bes Istat 2021).
Il 19,7% delle segnalazioni ricevute (sul totale di
13.748) riguarda proprio le difficoltà d’accesso alla prevenzione in
particolare alle vaccinazioni Covid (75,7%), a quelle ordinarie (15,6%) e agli
screening oncologici (8,7%).
La sospensione ha riguardato tutto il territorio delle
regioni in modo sistemico nel 78% dei casi, mentre nel 22% si segnalano
sospensioni/interruzioni solo da parte di alcuni territori/Asl.
La spesa per vaccini è raddoppiata dal 2014 al 2020,
passando da 4,8 a 9,4 euro pro capite. Ancora però 6 regioni non raggiungono la
percentuale ottimale del 95% nella copertura dell’esavalente secondo l’ultimo
dato del ministero della Salute (2019).
Per il vaccino contro il morbillo, la copertura del
2020 mostra un generale peggioramento passando dal 94,5% al 92,7%.
Rispetto alla copertura vaccinale per la varicella, il
dato è stabile (90,5% del 2019, 90,3 del 2020).
In merito alla copertura per il vaccino
antiinfluenzale nella stagione 2020- 2021, i dati mostrano ancora una
sostanziale insufficienza in ogni regione (< 75%).
Coperture vaccinazione Hpv: le ragazze undicenni che
hanno effettuato il ciclo completo passano da un valore del 41,6% nel 2019 al
30,3 del 2020. I dati riferiti alla popolazione maschile segnalano tassi di
copertura ancora molto bassi, 24,2% nel 2020 rispetto al 32,2% nel 2019.
Screening oncologici organizzati: Nei due anni di
pandemia, la riduzione del numero di persone esaminate (-35,6% cervice,
-28,5% mammella, -34,3% colon retto) è piuttosto consistente per tutti e tre i
programmi di screening con percentuali più contenute per lo screening
mammografico.
La riforma dell’assistenza territoriale è diventata la
parola d’ordine del post pandemia e la principale sfida, in ambito sanitario,
del Pnrr. E, come ci raccontano i cittadini, anche uno degli ambiti in cui si
riscontrano grandi inefficienze: il 17,4% delle 13.748 segnalazioni ricevute
dal Pit di Cittadinanzattiva fa riferimento all’assistenza territoriale, in
particolare al rapporto con i medici di medicina generale e i pediatri di
libera scelta (25,8%), di cui i cittadini lamentano lo scarso raccordo con
gli specialisti e i servizi sul territorio, nonché la scarsa disponibilità in
termini di orario, reperibilità e presa in carico ; le carenze dei servizi di
continuità assistenziale (13,9%) in particolar modo riferibile a
irreperibilità o orari limitati della guardia medica; e le carenze dell’assistenza
domiciliare integrata (12.1%), soprattutto per la mancata integrazione dei
servizi sociali e sanitari, le difficoltà nell’attivazione, la mancanza di
alcune figure specialistiche (fra cui gli psicologi), il numero inadeguato di
giorni o ore.
Poco informati, ma aperti alla novità delle Case della
Comunità (CdC) purché non si intacchi la consolidata relazione medico-paziente
a cui i cittadini tengono in modo particolare.
Con questo atteggiamento, in Italia si sta assistendo
all’attuazione della riforma dell’assistenza territoriale come prevista dal Pnrr
riguardo al quale il coinvolgimento delle associazioni, civiche e di pazienti,
è del tutto insoddisfacente.
In tema di assistenza territoriale nel Pnrr si punta
moltissimo sulle Case della Comunità: se ne prevedono ben 1.350 (le
vecchie Case della salute non raggiungevano le 500 unità), vale a dire in media
una ogni 18.069 persone con patologia cronica.
Analogamente, il Pnrr prevede 400 ospedali di
comunità, in pratica una struttura ogni 64.115 persone con patologia cronica.
La salute mentale, da tempo trascurata e
sottofinanziata dai governi di tutto il mondo, ha ricevuto il colpo di grazia
con la pandemia e il Pnrr vi dedica poca attenzione. Con il paradosso che
proprio quando i disturbi mentali aumentano (e in Italia a farne le spese sono
più che in passato i giovani tra i 18 e i 34 anni), i servizi sanitari a loro
dedicati diminuiscono.
Le problematiche segnalate dai cittadini al Pit Salute
in tema di salute mentale (12,8% delle segnalazioni nell’ambito dell’assistenza
territoriale) narrano della disperazione per la gestione di una situazione
ormai diventata insostenibile a livello familiare (28%), della protesta per la
scarsa qualità dell’assistenza fornita dai Dipartimenti di Salute Mentale
(24%), delle difficoltà di accesso alle cure pubbliche (20%), nell’incapacità
di gestire gli effetti collaterali delle cure farmacologiche (12%), nello
strazio legato alle procedure di attivazione del trattamento sanitario
obbligatorio (8%).
In Italia si contano 126 dipartimenti per la salute
mentale e 1.299 strutture territoriali.
Sono ben 15 le regioni che presentano valori inferiori
alla media nazionale (pari a 2,6).
Prima dell’emergenza il livello di utilizzo della
telemedicina superava di poco il 10%, durante l’emergenza ha superato il
30% per molte applicazioni.
Il servizio più utilizzato è il tele-consulto con
medici specialisti (47% degli specialisti e 39% dei mmg), che raccoglie
l’interesse per il futuro di 8 medici su 10.
Seguono, in termini di utilizzo durante l’emergenza,
la tele-visita (39% degli specialisti e dei mmg) e il tele-monitoraggio (28% e
43%).
I servizi di telemedicina sono, invece, ancora poco
utilizzati dai pazienti, non tanto per la mancanza di interesse, ma a causa
dell’offerta ancora limitata.
I pazienti dichiarano che la modalità più utilizzata
per monitorare a distanza il loro stato di salute è una semplice telefonata
oppure una videochiamata di controllo (23%). Molto meno utilizzati i vari
servizi strutturati, come la tele-visita con lo specialista (8%), la
tele-riabilitazione (6%) o il tele-monitoraggio dei parametri clinici (4%).
Il monitoraggio realizzato dall’Agenzia per l’Italia
Digitale mette in evidenza uno scarto tra attivazione ed utilizzo de fascicolo
sanitario elettronico mentre lo stato di avanzamento circa la realizzazione del
Fse regionale raggiunge un valore tra il 90 e il 100% per tutte le regioni
d’Italia, l’indicatore di utilizzo, da parte dei cittadini, dei medici e delle
aziende sanitarie, come mostra la rilevazione svolta da Doxapharma e Crea
Sanità, conferma che solo il 38% della popolazione italiana ha sentito parlare
del Fse e solo il 12% è consapevole di averlo utilizzato almeno una volta.
Questi dati dimostrano ulteriormente che i problemi
della sanità, pubblica, in Italia, sono diversi di notevole rilievo.
Essi si sono accresciuti in seguito alla pandemia ma
anche prima erano molto presenti.
Due esempi è sufficiente citare: le lunghe liste di
attesa e la crisi delle strutture per la salute mentale.
In entrambi i casi però la sanità privata prospera. Ed
è inevitabile che sorga un dubbio: quei problemi della sanità pubblica
permangono perché si vuole favorire la sanità privata?
Certamente, rispetto ad altri Paesi, soprattutto
quelli anglosassoni, la sanità pubblica italiana è migliore, ma è da tempo
peggiorata.
Quindi è necessario promuovere interventi adeguati per
quanto meno ridurre considerevolmente quei problemi: l’abolizione dell’intramoenia,
remunerazioni più elevate per gli operatori sanitari e, più in generale, maggiori
risorse finanziare destinate alla sanità pubblica.
Il Recovery Plan sarà sufficiente per raggiungere gli
obiettivi appena citati?
Io ho dei dubbi che, credo, siano fondati.