domenica 29 maggio 2022

Di nuovo un massacro in Darfur

 

Domenica 24 aprile sono stati di nuovo bruciati villaggi e uccisi i civili, in Darfur. Sono state massacrate almeno 150 persone, la strage più sanguinosa degli ultimi anni, in una escalation di scontri a sfondo etnico (come 20 anni fa) tra le milizie arabe e le comunità nere, governativi e ribelli autonomisti, pastori e agricoltori.

Il nome delle milizia che ha compiuto il massacro non è cambiato: “janjaweed”, i famigerati “diavoli a cavallo”. Questa volta i diavoli sono arrivati in moto e a bordo di pick-up tra le casupole di Kereneik, sparando e uccidendo fin dalle prime luci dell’alba.

Questa volta non sembra esserci un legame diretto con il governo centrale del Sudan, dove attualmente comanda una giunta militare che lo scorso ottobre ha spezzato il percorso democratico seguito alla caduta del presidente Omar al-Bashir.

Tutto ciò si è verificato in coincidenza con l’avvio, presso la Corte penale internazionale dell’Aja, del primo processo per le atrocità commesse in Darfur nel periodo 2004-2005 (un genocidio con 200.000 vittime).

L’unico imputato al processo è Ali al-Rahman (Bashir è latitante e il ricercato numero uno della Corte penale internazionale), considerato il “logista” dei massacri in Darfur (eccidi, stupri, roghi ai quali avrebbe preso parte direttamente).

I “pesci grossi” sono lontani, alcuni neppure ricercati. Tra i “janjaweed” un ruolo di primo piano fu svolto da Mohammed Dagalo (noto con il vezzeggiativo di Hemedti, “il piccolino”).

Ed Hemedti, già fedelissimo di Bashir, è l’uomo più temuto della giunta militare oggi al potere.

E’ lui la guida delle potenti e sanguinarie forze di supporto rapido (di fatto eredi dei “janjaweed”) che hanno represso nel sangue la primavera sudanese, lui il referente del governo russo (i mercenari della Wagner operano anche in Darfur).

In un tale contesto è possibile che, nel prossimo futuro, altri massacri si verifichino in Darfur.

Sarebbe quindi auspicabile che i governi occidentali e le istituzioni politiche internazionali si occupino di quanto potrà avvenire nuovamente in Darfur, prevenendo il manifestarsi di episodi quali quello verificatosi il 24 aprile scorso.

Oltre che auspicabile quanto da me ipotizzato sarà anche possibile?

Senza dubbio i precedenti di venti anni fa non inducono ad essere ottimisti.

Spero però che proprio le stragi di 20 anni fa impongano una maggiore attenzione ai soggetti politici che potrebbero fare qualcosa.

mercoledì 25 maggio 2022

No a una politica economica restrittiva

In Italia, come altrove, soprattutto in considerazione dell’aumento del tasso di inflazione, da più parti si evidenzia la necessità di adottare una politica economica restrittiva, sia per quanto riguarda la politica monetaria che per quanto concerne la politica di bilancio.

Io credo che, invece, occorra essere molto prudenti nell’adottare una politica economica restrittiva, quanto meno in Italia.

Si corre il rischio, infatti, che si verifichi quella che gli economisti chiamano “stagflazione”, la contemporanea presenza cioè di un ristagno economico, o quanto meno di una crescita molto lieve, e di un’inflazione piuttosto elevata.

Noi non ci possiamo permettere, innanzitutto, il verificarsi di una crescita economica molto limitata.

In primo luogo perché nel 2021 c’è stato sì un incremento consistente del Pil che però non ha compensato completamente la forte riduzione verificatasi nel 2020 a causa della pandemia. Non si può attendere ancora nell’obiettivo di raggiungere il livello del Pil pre-pandemia, quello del 2019, anche perché nel 2019 e negli anni precedenti il Pil, in Italia, era aumentato in misura inferiore rispetto a quanto verificatosi negli altri Paesi europei.

Del resto un’insufficiente crescita economica non garantirebbe nemmeno il raggiungimento del numero degli occupati pre-pandemia e soprattutto non determinerebbe la necessaria crescita degli occupati a tempo indeterminato e la contemporanea riduzione di quelli a tempo determinato.

Molti osservatori però, a questo punto, potrebbero concordare sulla necessità teorica di un politica economica non restrittiva, per consentire una crescita economica piuttosto consistente, ma obietterebbero che non possiamo permetterci una politica economica di quella natura.

Infatti, a parte il fatto che la politica monetaria è in mano alla Bce che ha deciso, proprio a causa dell’intensificarsi dell’inflazione, di attenuare progressivamente la natura espansiva della politica monetaria, una politica di bilancio non restrittiva potrebbe determinate un aumento del rapporto deficit pubblico-Pil e soprattutto del rapporto debito pubblico-Pil, che non possiamo permetterci, prevalentemente perché i mercati finanziari potrebbero farcela pagare determinando un’eccessiva crescita dei tassi di interesse.

In realtà, non è affatto detto che una politica di bilancio espansiva provochi un aumento del rapporto debito-Pil, per vari motivi, il più importante dei quali è rappresentato dal fatto che il denominatore di quel rapporto è il Pil nominale che potrebbe aumentare sia perché aumenterebbe il Pil reale, in seguito ad una politica di bilancio espansiva, sia perché continuerebbe ad aumentare il tasso di inflazione, anche se auspicabilmente in misura inferiore rispetto alla situazione attuale.

Certo, molto dipenderebbe dalla qualità della spesa pubblica, dalla necessità cioè che l’aumento della spesa pubblica sia determinato soprattutto da un aumento degli investimenti e non da un incremento della spesa corrente.

E poi, anche se aumentasse un po’ il rapporto debito pubblico-Pil, non sarebbe un dramma se si considera che anche nel 2022 siamo in una situazione di emergenza, particolare, contraddistinta dalla guerra in Ucraìna, che determina e determinerà un incremento dei prezzi dei prodotti energetici, incremento peraltro iniziato prima dell’inizio dell’aggressione della Russia di Putin ai danni degli ucraìni.

Peraltro, una politica economica restrittiva potrebbe non determinare gli effetti sperati nell’attenuazione dell’inflazione, perché quella attuale che non è tanto un’inflazione da domanda ma soprattutto un inflazione da costi, causata prevalentemente da un incremento dei prezzi dei prodotti energetici.

Inoltre, le autorità dell’Unione europea faranno slittare al 2023 la ripresa del cosiddetto patto di stabilità che, inoltre, è auspicabile e probabile  che sia considerevolmente cambiato. Quindi, in teoria, non dovremmo rispettare alcun limite preciso sia per quanto concerne il rapporto deficit pubblico-Pil sia per quanto riguarda il rapporto debito pubblico-Pil, pur se sarà opportuno che non si determini un forte aumento di entrambi quei rapporti.

Ma, ripeto, se la politica di bilancio assumerà le caratteristiche prima indicate, sarebbe anche possibile che il rapporto debito pubblico-Pil non aumenti affatto.

E comunque, infine, tra gli obiettivi che dobbiamo porci non c’è solamente una stabilità, o quanto meno un lieve aumento, dei tassi di interesse, ma una consistente crescita del Pil e dell’occupazione, per i motivi in precedenza esplicitati.

domenica 22 maggio 2022

Metà dei quindicenni non comprende un testo scritto

 

L'Italia è tra i Paesi europei più "ingiusti" nei confronti delle nuove generazioni, poichè la povertà assoluta colpisce il 14,2% della popolazione sotto i 17 anni, rispetto al 9,1% tra i 35 e i 64 anni, e al 5,3% tra i 65enni e oltre, e quella è una delle percentuali tra le più elevate in Europa. Inoltre il 51% dei quindicenni non è in grado di comprendere il significato di un testo scritto.

Questi ed altri dati sono stati resi noti all’inizio di “Impossibile”, la quattro giorni di riflessioni e proposte sull’infanzia e l’adolescenza, organizzata da Save the Children.

Inoltre, in Italia, ogni bambino ha il triplo delle possibilità di trovarsi in condizioni di povertà assoluta rispetto agli over 65 e il doppio delle probabilità rispetto a tutto il resto della popolazione.

Nel nostro Paese la dispersione scolastica implicita, cioè il mancato raggiungimento del livello minimo di competenze a 15 anni, riguardi quasi la metà degli studenti (45% in italiano, 51% in matematica), anche a causa del tracollo degli apprendimenti conseguente alla pandemia, ma anche 876.000 bambini della scuola dell'infanzia hanno sofferto della discontinuità e frammentazione nei primi passi del loro percorso educativo.

“L’incapacità di un ragazzo/a di 15 anni di comprendere il significato di un testo scritto è al 51%.

Un dramma, non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma per la tenuta democratica di un Paese. I più colpiti sono gli studenti delle famiglie più povere, quelle che vivono al sud e quelle con background migratorio” ha dichiarato Claudio Tesauro, presidente di Save the Children.

Per Tesauro in Italia esiste  “una crudele ‘ingiustizia generazionale’ perché la crisi ha colpito proprio i bambini.

Non solo 1 milione 384.000 bambini in povertà assoluta (il dato più alto degli ultimi 15 anni) ma un bambino in Italia oggi ha il doppio delle probabilità di vivere in povertà assoluta rispetto ad un adulto, il triplo delle probabilità rispetto a chi ha più di 65 anni”

Il presidente ha ricordato, inoltre, che “più di due milioni di giovani, ovvero 1 giovane su cinque fra i 15 e i 29 anni, è fuori da ogni percorso di scuola, formazione e lavoro.

In sei regioni, il numero dei ragazzi e delle ragazze Neet, cioè che non studiano né lavorano, ha già superato il numero dei ragazzi, nella stessa fascia di età, inseriti nel mondo del lavoro. 

In Sicilia, Campania, Calabria per 2 giovani occupati ce ne sono altri 3 che sono fuori dal lavoro, dalla formazione e dallo studio. Dati che - ha sottolineato - fanno a pugni con le richieste del mondo produttivo".

Da qui le proposte per cambiare questa situazione: il raddoppio dell'investimento sul piano nazionale della “Child Guarantee”, garantire la mensa scolastica gratuita nella primaria ai bambini in condizioni di disagio economico, formazione di 30.000 nuove educatrici ed educatori per i nuovi asili nido e poli zero-sei, incentivi economici e formazione per dirigenti e docenti impegnati nei territori con maggiore povertà educativa e piani di rigenerazione degli stessi territori con standard educativi di qualità, dimezzare il numero dei Neet tra i 15 e i 19 anni e raggiungere così la media europea, con misure straordinarie per reinserire nel mondo della formazione e del lavoro almeno un milione di giovani entro il 2026.

Queste proposte, come altre provenienti da altri soggetti, mi sembrano più che valide e ritengo che sia necessario che le autorità di governo le accolgano.

Soprattutto, è indispensabile una vera e propria inversione di tendenza: gli interventi nei confronti dei bambini e dei giovani devono diventare davvero prioritari, se si vuole, tra l’altro, contrastare la tendenza alla riduzione della popolazione e al suo invecchiamento.

Fino ad ora, quegli interventi, da molti anni ormai, non sono stati prioritari, tutt’altro.

Un solo esempio: la cosiddetta quota 100, che ha consentito l’anticipo del pensionamento per molti lavoratori, misura sostenuta soprattutto dalla Lega, è costata molto, pur essendo evitabile e non indispensabile.

Quelle ingenti risorse finanziarie, spese con l’introduzione della quota 100, potevano essere invece utilizzate per i bambini e per i giovani.

Ma, si sa, solo pochi di loro votano…

mercoledì 18 maggio 2022

Divieto di aborto in molte strutture italiane

Alla Camera dei Deputati è stato presentato l’aggiornamento dell’indagine “Mai Dati!”. L’indagine, condotta da Chiara Lalli e Sonia Montegiove, per conto dell’associazione Luca Coscioni, individua 31 strutture italiane con il 100% di obiettori di coscienza, quasi 50 con il 90% e oltre 80 che superano l’80%.

Sono 31 (24 ospedali e 7 consultori) le strutture sanitarie in Italia con il 100% di obiettori di coscienza, medici ginecologi, anestesisti, infermieri o Oss.

Quasi 50 quelli con una percentuale superiore al 90% e oltre 80  quelli con un tasso di obiezione superiore all’80%.

E’, appunto, quanto emerge dall’indagine aggiornata “Mai Dati!” di Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e di Sonia Montegiove, informatica e giornalista, resa nota insieme all’associazione Luca Coscioni

In occasione dei 44 anni dall’entrata in vigore della legge 194, la ricerca, tramite accesso civico generalizzato, ha evidenziato ciò che la relazione ministeriale non fa emergere, pubblicando i dati chiusi e aggregati per regione.

Inoltre l’ultima relazione del ministero della Salute, presentata al Parlamento lo scorso anno, si riferisce ai dati definitivi relativi al 2019.

 “In questi giorni la 194 sulla interruzione volontaria della gravidanza compie 44 anni. Avere un quadro chiaro dello stato di salute di questa legge purtroppo non è facile, proprio perché non abbiamo dati aggiornati e dettagliati”, ha dichiarato Filomena Gallo, avvocato e segretario nazionale dell’associazione Luca Coscioni.

“Una cosa è però molto chiara: la legge 194 è ancora mal applicata o addirittura ignorata in molte aree del nostro paese. Con Anna Pompili e Mirella Parachini, ginecologhe, e con l’associazione Luca Coscioni abbiamo spesso evidenziato le criticità reali dell’applicazione e dell’accesso alla interruzione volontaria della gravidanza. 

Oggi chiediamo con urgenza al ministro della Salute Roberto Speranza e al ministro della Giustizia Marta Cartabia che i dati sull’applicazione della legge 194 siano in formato aperto, di qualità, aggiornati e non aggregati; che si sappia quanti sono i non obiettori che eseguono le interruzioni volontarie di gravidanza e gli operatori che le eseguono dopo il primo trimestre; che tutte le Regioni offrano realmente  la possibilità di eseguire le Ivg farmacologiche in regime ambulatoriale; che venga inserito nei Lea (livelli essenziali di assistenza) un indicatore rappresentativo della effettiva possibilità di accedere alla Ivg in ciascuna regione; e che la relazione ministeriale venga presentata ogni anno nel rispetto dell’articolo 16 della stessa 194”.

“L’indagine Mai dati ci dice che la valutazione del numero degli obiettori e dei non obiettori è troppo spesso molto lontana dalla realtà”, aggiungono Chiara Lalli e Sonia Montegiove, autrici della indagine Mai Dati.

“Dobbiamo infatti sapere, tra i non obiettori, chi esegue realmente le Ivg (in alcuni ospedali alcuni non obiettori eseguono solo ecografie, oppure ci sono non obiettori che lavorano in ospedali nei quali non esiste il servizio Ivg, e quindi non ne eseguono).

La percentuale nazionale di ginecologi non obiettori di coscienza (che secondo la relazione è del 33%) deve, dunque,  essere ulteriormente ridotta perché non tutti i non obiettori eseguono Ivg. Non basta conoscere la percentuale media degli obiettori per regione per sapere se l’accesso all’Ivg è davvero garantito in una determinata struttura sanitaria.

Perché ottenere un aborto è un servizio medico e non può essere una caccia al tesoro”. 

Occorre considerare che l’indagine di Lalli e Montegiove tramite accesso civico generalizzato evidenzia come l’ultima relazione  sulla stessa legge del ministero della Salute e i dati in essa contenuti, relativi al 2019, restituiscono una fotografia poco utile, sfocata, parziale di quanto avviene realmente nelle strutture ospedaliere del nostro Paese.

La relazione dovrebbe restituire un quadro il più possibile realistico sullo stato di applicazione della legge, al fine di avviare tutte le manovre correttive, per superare le diseguaglianze tra le regioni e per assicurare a tutte le donne l’accesso all’Ivg.

Di fatto, sia il ritardo nella presentazione, sia gli indicatori e le modalità di pubblicazione dei dati (chiusi e aggregati), rendono la relazione un’osservazione passiva e neanche tanto veritiera della realtà.

Questo rende impossibile qualunque miglioramento. L’indagine rende evidente come sia necessario aprire i dati, non solo sulla obiezione di coscienza, al fine di consentire la lettura, l’analisi e la rielaborazione di queste informazioni da parte di chiunque.

Comunque, al di là della necessità di disporre di un maggior numero e di migliori dati, risulta del tutto evidente che l’obiezione di coscienza, giustamente prevista dalla legge 194, è diventata ormai eccessiva e crea ostacoli spesso insormontabili al verificarsi delle interruzioni volontarie delle gravidanze.

Quindi è indispensabile che le autorità di governo, le Regioni, si attivino affinchè si riduca l’obiezione di coscienza e comunque che le interruzioni volontarie di gravidanza, ovunque, nel territorio italiano, siano davvero possibili e rappresentino realmente un diritto per le donne.

domenica 15 maggio 2022

Conte pensa solo ad aumentare i consensi dei grillini

E’ normale per i partiti provare ad aumentare i propri consensi, soprattutto elettorali. Però questo non dovrebbe essere il solo obiettivo da perseguire. Nelle ultime settimane, invece, Conte, attuale leader del movimento 5 stelle, tenta, esclusivamente, di accrescere i consensi del partito che guida, in vista non tanto delle prossime elezioni amministrative ma, soprattutto, in vista di quelle politiche che si terranno nel 2023.

E questo avviene su temi di notevole importanza, in primo luogo l’atteggiamento che il Governo deve assumere nei confronti dell’aggressione della Russia di Putin nei confronti dell’Ucraìna.

Sempre più spesso Conte sostiene che l’Italia non deve concedere più armi all’Ucraìna, che su questa questione Draghi deve riferire in Parlamento, con relativa votazione di una mozione, nonostante sia stato già votato nel recente passato un decreto con il quale il Parlamento autorizzava il Governo a fornire armi all’Ucraìna fino al 31 dicembre 2022.

In realtà Conte e la parte, maggioritaria, dei grillini che a lui fanno riferimento, ha il terrore che, soprattutto nelle elezioni politiche del 2023, il suo partito subìsca una batosta epocale (ancora peggiore di quanto suggeriscano i sondaggi elettorali che indicano che il suo partito abbia una percentuale di consensi inferiore di gran lunga a quella verificatasi nel 2018).

E cerca in tutti i modi di far risalire quei consensi anche su problemi, appunto, di rilevante importanza come i rapporti con l’Ucraìna.

Lo stesso comportamento Conte lo pratica anche su questioni di minore rilievo, come la costruzione di un termovalorizzatore a Roma, ad esempio.

Ma questi comportamenti, che mettono in difficoltà il Governo ed anche l’alleanza con il Pd, difficilmente determineranno un aumento dei consensi rivolti ai grillini in quanto rendono evidente l’inaffidabilità del movimento 5 stelle come forza di governo.

Peraltro, data l’indisponibilità del premier, Mario Draghi, rallentano sì l’attuazione di determinate decisioni del Governo ma non le ostacolano.

Quindi, a mio avviso, il modo in cui Conte gestisce il suo partito si potrà rilevare anche controproducente, in termini di consensi elettorali, e comunque non può essere valutato positivamente quando avviene riguardo problematiche di rilievo internazionale, come appunto  i rapporti con l’Ucraìna.

Conte, per la verità, non è il solo a provare a perseguire solamente l’obiettivo di accrescere i consensi elettorali.

Salvini, in più occasioni, ha fatto e sta facendo lo stesso, come ad esempio anche sulla riforma del catasto e sulle concessioni balneari, oltre che, anche lui sulle relazioni del Governo italiano con l’Ucraìna. Ma, spesso, fa marcia indietro perché altrimenti si aliena le simpatie di alcune componenti del suo elettorato, in primo luogo gli imprenditori del Nord-Est.

Conte, quanto meno nelle ultime settimane, procede senza tentennamenti, almeno apparenti, nella direzione, in precedenza più volte indicata, senza rendersi conto che molto difficilmente riuscirà ad aumentare i consensi elettorali del partito da lui, mal, guidato.

E’ auspicabile, pertanto, per l’interesse generale dell’Italia, ed anche per l’interesse dei grillini, che Conte muti il suo comportamento.

Difficile, comunque, prevedere se lo farà oppure no.

mercoledì 11 maggio 2022

Filippine, i Marcos di nuovo al governo

 

Come previsto Ferdinand Marcos Jr., il figlio dell’ex dittatore Ferdinand Marcos, ha vinto le elezioni presidenziali che si sono tenute lunedì nelle Filippine. Nello stesso giorno si è votato anche per la vicepresidenza, e ha vinto Sara Duterte, la figlia del presidente autoritario uscente Rodrigo Duterte.

Mi sembra opportuno occuparmi di quanto sta avvenendo in Filippine sia perché vi abitano più di 100 milioni di persone (peraltro molti filippini lavorano in Italia) sia perché ritengo necessario conoscere le vicende politiche e non di Paesi, non vicini, ma senza dubbio importanti, anche perché non si deve rivolgere l’attenzione solo ai problemi del nostro Paese o di Paesi vicini e comunque di quelli occidentali.

I risultati non sono ancora ufficiali - lo saranno tra un mese – ma è ormai certo che Marcos ha ottenuto quasi 31 milioni di voti, il 58,7%, mentre la sua principale oppositrice, Leni Robredo, ha invece ottenuto quasi 15 milioni di voti, pari al 28,0%.

L’esito delle elezioni presidenziali in Filippine è il frutto di un accordo tra le famiglie Marcos e Duterte, le quali hanno mal governato il loro Paese per un lungo periodo. Infatti, anche in questo caso come previsto, ha vinto le elezioni per la vicepresidenza Sara Duterte.

Soprattutto i Marcos hanno governato per molti anni.

Rodrigo Duterte è diventato presidente dal 2016 e la sua presidenza è stata oggetto di molte critiche.

Sin dalla sua elezione Duterte ha avviato una cosiddetta “guerra alla droga” a livello nazionale, che ha portato ad un aumento delle uccisioni extragiudiziarie nelle Filippine, mentre sul fronte estero ha perseguito una politica più indipendente dagli Stati Uniti d’America e aperto ad altre potenze mondiali quali Cina e Russia.

Il governo di Duterte può essere legittimamente considerato come un regime dittatoriale.

Ha favorito il verificarsi di una sanguinosa guerra alla droga, con oltre 1.000 omicidi, attribuibili a “giustizieri” legati ai cartelli del narcotraffico, nel giro di due mesi. E la polizia non ha ostacolato affatto tale vera e propria guerra.

Il nuovo presidente, proprio per l’accordo con la famiglia Duterte, non promuoverà un cambiamento radicale, come necessario, della politica interna perseguita dal suo predecessore.

Ma la preoccupazione per quello che farà durante la sua presidenza deriva soprattutto dalle caratteristiche molto negative che caratterizzarono il pluriennale governo del padre, Ferdinand Marcos.

Marcos e la sua famiglia provocarono la più grave crisi della storia recente delle Filippine, che ha effetti ancora oggi.

Il regime, inoltre, incarcerò e torturò decine di migliaia di persone e uccise oltre duemila dissidenti e membri dell’opposizione, secondo ricerche condotte dopo la sua caduta.

Ferdinand Marcos è ancora oggi uno dei dittatori più famosi del ventesimo secolo in Asia, sia per la brutalità del suo regime sia per l’eccentricità sua e della sua famiglia, che fece realizzare giganteschi e spesso inutili progetti architettonici e si arricchì enormemente, conducendo una vita stravagante e vistosa.

Uno dei personaggi più noti del regime fu la moglie di Marcos, Imelda, che governò assieme al marito e fu protagonista di alcune delle sue decisioni più controverse.

Marcos governò come presidente per 20 anni, dal 1966 al 1986.

Agli inizi degli anni ’70 il regime di Marcos divenne pienamente autoritario: il mantenimento della legge marziale, introdotta nel 1972, fu approvato nel 1973 in un referendum manipolato, e anche il Parlamento e l’opposizione, benché sempre presenti, furono di fatto resi innocui, all’occorrenza anche con la forza.

Secondo una commissione governativa istituita dopo la caduta del regime, sotto la dittatura di Marcos furono arrestate decine di migliaia di persone, ne furono uccise 2.300 e torturate 1.900 per ragioni politiche. Le persone che subirono violazioni dei loro diritti umani furono 11.000.

Dopo l’imposizione della legge marziale, l’economia crebbe intensamente, soprattutto a causa dell’aumento dei prezzi di alcune materie prime di cui le Filippine erano esportatrici.

Nonostante questo, proseguirono le pratiche economiche degli anni precedenti, che portarono a un costante aumento del debito estero.

Con Marcos a capo assoluto dello Stato, inoltre, aumentò anche la corruzione, sia generale sia personale della famiglia Marcos.

Imelda divenne famosa nell’alta società per il lusso di cui si circondava, per l’eccentricità e per le sue enormi spese: era capace di spendere milioni di dollari in gioielli o in opere d’arte in poche ore.

Fu in quel periodo che si cominciò a parlare di uno dei fatti più noti della storia del regime di Marcos, che divenne il simbolo della sua corruzione: il fatto che Imelda possedesse oltre 3.000 paia di scarpe.

Il regime di Marcos cominciò a indebolirsi negli anni Ottanta, per varie ragioni: tra le altre cose, la salute del dittatore cominciò a deteriorarsi e una diminuzione del prezzo delle materie prime provocò a partire dal 1982 una gravissima crisi economica.

E’ evidente che con questi precedenti, molti all’interno e all’esterno delle Filippine, guardano con grande preoccupazione a quello che potrà fare il nuovo presidente, Ferdinand Marcos Jr. (peraltro la madre Imelda è ancora vivente).

Pertanto, le istituzioni politiche internazionali, come l’opinione pubblica, dovranno seguire con notevole attenzione quanto avverrà nelle Filippine, per poter ostacolare eventuali politiche del nuovo presidente in linea sia con gli atti compiuti sia dal padre che da Duterte.

Ed è auspicabile che i consensi rivolti nei confronti della sua principale oppositrice, Leni Robredo, una avvocato che da tempo si occupa della tutela dei diritti umani, si accrescano, nel prossimo futuro, il cui risultato, nelle recenti elezioni presidenziali, peraltro, non può essere valutato negativamente, se si considera che i media erano in maggioranza a favore di Marcos Jr. e che la Robredo è stata oggetto di una estesa campagna di disinformazione sui social media.

domenica 8 maggio 2022

Cittadinzattiva, sempre gravi i problemi della sanità

Quasi due anni di attesa per una mammografia, circa un anno per una ecografia, una tac, o un intervento ortopedico. E a rinunciare alle cure nel corso del 2021 è stato più di un cittadino su dieci. Screening oncologici in ritardo in oltre la metà dei territori regionali e coperture in calo per i vaccini ordinari. Questi sono alcuni dei principali problemi evidenziati nel rapporto civico sulla salute. I diritti dei cittadini e il federalismo in sanita”, presentato da Cittadinanzattiva.

Più precisamente, liste di attesa per le cure ordinarie, ritardi nella erogazione degli screening e dei vaccini, carenze nella assistenza territoriale sono i primi tre ambiti nei quali si sono concentrate, nel corso del 2021, le 13.748 segnalazioni dei cittadini inviate a Cittadinanzattiva.

 Nello specifico questo il dettaglio degli ambiti maggiormente segnalati: l’accesso alle prestazioni (23,8%), la prevenzione (19,7%), l’assistenza territoriale (17,4%), l’assistenza ospedaliera e la mobilità sanitaria (11,4%), al quinto posto la voce “altro” (9,8%) che comprende la somma di differenti segnalazioni (accesso alle informazioni e alla documentazione, prestazioni assistenziali, agevolazioni/lavoro, malattie rare). Seguono insicurezza delle cure e presunta malpractice  (8%),  costi delle cure (5%), relazioni con operatori sanitari ed umanizzazione (3,8%) e farmaci (1,1%).

Di seguito alcuni approfondimenti dei temi principali.

Le liste d’attesa, già “tallone di Achille” del sistema sanitario nazionale in tempi ordinari, durante l’emergenza hanno rappresentato la principale criticità per i cittadini, in particolare per i più fragili, che di fatto non sono riusciti più ad accedere alle prestazioni.

I lunghi tempi di attesa (che rappresentano il 71,2% delle segnalazioni di difficoltà di accesso) sono riferiti nel 53,1% di casi agli interventi chirurgici e agli esami diagnostici, nel 51%  alle visite di controllo e nel 46,9% alle prime visite specialistiche. Seguono le liste d’attesa per la riabilitazione (32,7%) per i ricoveri (30,6%) e quelle per attivare le cure domiciliari (26,5%) e l’assistenza riabilitativa domiciliare (24,4%).

Nel 2021, l’11,0% delle persone ha dichiarato di aver rinunciato a visite ed esami  per problemi economici o legati alle difficoltà di accesso al servizio (Rapporto Bes Istat 2021).

Il 19,7% delle segnalazioni ricevute (sul totale di 13.748) riguarda proprio le difficoltà d’accesso alla prevenzione in particolare alle vaccinazioni Covid (75,7%), a quelle ordinarie (15,6%) e agli screening oncologici (8,7%).

La sospensione ha riguardato tutto il territorio delle regioni in modo sistemico nel 78% dei casi, mentre nel 22% si segnalano sospensioni/interruzioni solo da parte di alcuni territori/Asl.

La spesa per vaccini è raddoppiata dal 2014 al 2020, passando da 4,8 a 9,4 euro pro capite. Ancora però 6 regioni non raggiungono la percentuale ottimale del 95% nella copertura dell’esavalente secondo l’ultimo dato del ministero della Salute (2019).

Per il vaccino contro il morbillo, la copertura del 2020 mostra un generale peggioramento passando dal 94,5% al 92,7%.

Rispetto alla copertura vaccinale per la varicella, il dato è stabile (90,5% del 2019, 90,3 del 2020).

In merito alla copertura per il vaccino antiinfluenzale  nella stagione 2020- 2021, i dati mostrano ancora una sostanziale insufficienza in ogni regione (< 75%).

Coperture vaccinazione Hpv: le ragazze undicenni che hanno effettuato il ciclo completo passano da un valore del 41,6% nel 2019 al 30,3 del 2020. I dati riferiti alla popolazione maschile segnalano tassi di copertura ancora molto bassi, 24,2% nel 2020 rispetto al 32,2% nel 2019.

Screening oncologici organizzati: Nei due anni di pandemia, la riduzione del numero di persone esaminate (-35,6% cervice, -28,5% mammella, -34,3% colon retto) è piuttosto consistente per tutti e tre i programmi di screening con percentuali più contenute per lo screening mammografico.

La riforma dell’assistenza territoriale è diventata la parola d’ordine del post pandemia e la principale sfida, in ambito sanitario, del Pnrr. E, come ci raccontano i cittadini, anche uno degli ambiti in cui si riscontrano grandi inefficienze: il 17,4% delle 13.748 segnalazioni ricevute dal Pit di Cittadinanzattiva fa riferimento all’assistenza territoriale, in particolare al rapporto con i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta (25,8%), di cui i cittadini lamentano lo scarso raccordo con gli specialisti e i servizi sul territorio, nonché la scarsa disponibilità in termini di orario, reperibilità e presa in carico ; le carenze dei servizi di continuità assistenziale (13,9%) in particolar modo riferibile a irreperibilità o orari limitati della guardia medica; e le carenze dell’assistenza domiciliare integrata (12.1%), soprattutto per la mancata integrazione dei servizi sociali e sanitari, le difficoltà nell’attivazione, la mancanza di alcune figure specialistiche (fra cui gli psicologi), il numero inadeguato di giorni o ore.

Poco informati, ma aperti alla novità delle Case della Comunità (CdC) purché non si intacchi la consolidata relazione medico-paziente a cui i cittadini tengono in modo particolare.

Con questo atteggiamento, in Italia si sta assistendo all’attuazione della riforma dell’assistenza territoriale come prevista dal Pnrr riguardo al quale il coinvolgimento delle associazioni, civiche e di pazienti, è del tutto insoddisfacente.

In tema di assistenza territoriale nel Pnrr si punta moltissimo sulle Case della Comunità: se ne prevedono ben 1.350 (le vecchie Case della salute non raggiungevano le 500 unità), vale a dire in media una ogni 18.069 persone con patologia cronica.

Analogamente, il Pnrr prevede 400 ospedali di comunità, in pratica una struttura ogni 64.115 persone con patologia cronica.

La salute mentale, da tempo trascurata e sottofinanziata dai governi di tutto il mondo, ha ricevuto il colpo di grazia con la pandemia e il Pnrr vi dedica poca attenzione. Con il paradosso che proprio quando i disturbi mentali aumentano (e in Italia a farne le spese sono più che in passato i giovani tra i 18 e i 34 anni), i servizi sanitari a loro dedicati diminuiscono.

Le problematiche segnalate dai cittadini al Pit Salute in tema di salute mentale (12,8% delle segnalazioni nell’ambito dell’assistenza territoriale) narrano della disperazione per la gestione di una situazione ormai diventata insostenibile a livello familiare (28%), della protesta per la scarsa qualità dell’assistenza fornita dai Dipartimenti di Salute Mentale (24%), delle difficoltà di accesso alle cure pubbliche (20%), nell’incapacità di gestire gli effetti collaterali delle cure farmacologiche (12%), nello strazio legato alle procedure di attivazione del trattamento sanitario obbligatorio (8%).

In Italia si contano 126 dipartimenti per la salute mentale e 1.299 strutture territoriali. 

Sono ben 15 le regioni che presentano valori inferiori alla media nazionale (pari a 2,6).

Prima dell’emergenza il livello di utilizzo della telemedicina superava di poco il 10%, durante l’emergenza ha superato il 30% per molte applicazioni.

Il servizio più utilizzato è il tele-consulto con medici specialisti (47% degli specialisti e 39% dei mmg), che raccoglie l’interesse per il futuro di 8 medici su 10.

Seguono, in termini di utilizzo durante l’emergenza, la tele-visita (39% degli specialisti e dei mmg) e il tele-monitoraggio (28% e 43%).

I servizi di telemedicina sono, invece, ancora poco utilizzati dai pazienti, non tanto per la mancanza di interesse, ma a causa dell’offerta ancora limitata.

I pazienti dichiarano che la modalità più utilizzata per monitorare a distanza il loro stato di salute è una semplice telefonata oppure una videochiamata di controllo (23%). Molto meno utilizzati i vari servizi strutturati, come la tele-visita con lo specialista (8%), la tele-riabilitazione (6%) o il tele-monitoraggio dei parametri clinici (4%).

Il monitoraggio realizzato dall’Agenzia per l’Italia Digitale mette in evidenza uno scarto tra attivazione ed utilizzo de fascicolo sanitario elettronico mentre lo stato di avanzamento circa la realizzazione del Fse regionale raggiunge un valore tra il 90 e il 100% per tutte le regioni d’Italia, l’indicatore di utilizzo, da parte dei cittadini, dei medici e delle aziende sanitarie, come mostra la rilevazione svolta da Doxapharma e Crea Sanità, conferma che solo il 38% della popolazione italiana ha sentito parlare del Fse e solo il 12% è consapevole di averlo utilizzato almeno una volta.

Questi dati dimostrano ulteriormente che i problemi della sanità, pubblica, in Italia, sono diversi di notevole rilievo.

Essi si sono accresciuti in seguito alla pandemia ma anche prima erano molto presenti.

Due esempi è sufficiente citare: le lunghe liste di attesa e la crisi delle strutture per la salute mentale.

In entrambi i casi però la sanità privata prospera. Ed è inevitabile che sorga un dubbio: quei problemi della sanità pubblica permangono perché si vuole favorire la sanità privata?

Certamente, rispetto ad altri Paesi, soprattutto quelli anglosassoni, la sanità pubblica italiana è migliore, ma è da tempo peggiorata.

Quindi è necessario promuovere interventi adeguati per quanto meno ridurre considerevolmente quei problemi: l’abolizione dell’intramoenia, remunerazioni più elevate per gli operatori sanitari e, più in generale, maggiori risorse finanziare destinate alla sanità pubblica.

Il Recovery Plan sarà sufficiente per raggiungere gli obiettivi appena citati?

Io ho dei dubbi che, credo, siano fondati.

mercoledì 4 maggio 2022

1,5 milioni i lavoratori poveri

 

In occasione del Primo Maggio per la festa del lavoro, è stato presentato il rapporto realizzato dal sindacato Ugl e dal Censis, “Tra nuove povertà e lavoro che cambia: quel che attende i lavoratori oltre il Covid-19”.  Tra i contenuti del rapporto di particolare importanza il numero dei lavoratori poveri: 1,5 milioni.

In dieci anni i lavoratori poveri sono considerevolmente aumentati, +84%, e in valore assoluto + 690.000.

Un vero e proprio boom di nuova povertà da retribuzioni insufficienti.

In particolare, nel decennio sono triplicati i lavoratori in proprio poveri: +230% per il mondo delle partite Iva a basso potere contrattuale.

Nel 2019-2020 gli occupati poveri sono aumentati di 269.000 unità (+22%).

Tra i lavoratori in proprio i poveri sono aumentati del 48% e tra gli operai del 22%.

Il lavoro ancora più svalorizzato, ecco la pesante eredità di un anno di pandemia, che lo ha reso anche meno sicuro, visto che il 65,2% dei lavoratori si è sentito perseguitato dalla paura di finire in gravi difficoltà economiche. Un sentimento più forte nelle aziende tra 10 e 49 dipendenti (74%).

Tra l’Italia pre Covid-19 e quella post Covid-19 (febbraio 2020 e febbraio 2021) si sono registrati  945.000 occupati in meno (-4,1%). Un duro colpo che accomuna i lavoratori dipendenti, con 590.000 occupati in meno (-3,3%) e quelli autonomi, con -355.000 occupati (-6,8%).

Un dato che taglia il mondo del lavoro trasversalmente alle condizioni sociali ed economiche, con il 65,7% dei lavoratori impauriti o in ansia e, comunque, preoccupati per il proprio futuro.

Nel decennio 2010-2020 si è registrato un incremento delle professioni intellettuali con 550.000 occupati in più (+19%), degli addetti alla vendita e ai servizi personali (+398.000, +10,5%) e del personale non qualificato (+180.000, +7,9%).

Allo stesso tempo, colpisce il crollo di dirigenti e imprenditori (-100.000, -14%) e di operai ed esecutivi (-711.000, -12,1%).

Nel lavoro che aumenta emerge una neopolarizzazione intorno al contenuto intellettuale, con più spazi da un lato per ingegneri, analisti e progettisti di software, statistici e specialisti in scienze umane e sociali, e dall’altro per lavori poco o per niente qualificati, di servizio.

Intanto diminuiscono le figure professionali più tradizionali, dai dirigenti agli operai.

Si è verificata una ricomposizione del mondo del lavoro di lungo periodo, che ha subìto accelerazioni a seguito delle recenti vicende pandemiche.

Infatti, è cambiato il modo quotidiano di lavorare, con oltre un terzo dei lavoratori che ha svolto le proprie attività in remoto, in smart working, soprattutto dirigenti e impiegati, anche se appare sempre più necessario modularlo con il lavoro in presenza.

Dal rapporto Ugl-Censis emerge anche che gli italiani sono pronti a premiare le aziende che operano con trasparenza e che rispettano i diritti dei lavoratori: l’83,8% degli italiani (l’87,4% tra i giovani) è disposto a pagare qualcosa in più per i prodotti equo sociali, realizzati senza sfruttamento delle persone o ricorso a lavoro minorile.

Vi è poi la convinzione che in questa fase occorra potenziare imprese ed economie locali italiane: l’83,6% dei consumatori è pronto a spendere di più per avere prodotti e servizi italiani, dalle materie prime alla distribuzione.

Un dato che resta trasversalmente alto nei territori e gruppi sociali, con punte dell’87,3% tra i laureati.

La dignità del lavoro, insomma, è per gli italiani un valore costitutivo  dell’etica collettiva, che prevale sull’aspetto prettamente economico.

 “Come emerge dal rapporto che abbiamo realizzato con il Censis, il mondo del lavoro è in continuo cambiamento e soprattutto in questo anno di pandemia i lavoratori sono stati costretti ad adattarsi ai mutamenti, a volte drammatici, che hanno creato sacche preoccupanti di povertà.

I cittadini necessitano di risposte concrete, il tessuto produttivo del nostro Paese ha bisogno di credito e liquidità per uscire dalla crisi. In tal senso, i fondi contenuti nel Recovery Plan rappresentano un’opportunità storica per la ricostruzione economica del Paese”, ha rilevato il segretario generale dell’Ugl Paolo Capone.

Per il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, “Il pericolo maggiore per l’economia e la società italiana in questa fase è la letargia di troppi italiani, che sembrano voler restare rintanati in se stessi in una sorta di trance.

Per incoraggiare lo sviluppo e andare oltre i disagi di questo periodo, come in altre fasi difficili, conteranno non tanto i piani superfinanziati, ma la vitalità ottimista inscritta nella chimica ordinaria della vita sociale, nella ritrovata quotidianità delle persone e delle comunità”.

Mi sembra doveroso aggiungere, in conclusione, che il rapporto dimostra che esiste davvero in Italia una questione salariale. Che molto spesso, cioè, l’importo dei salari è del tutto insufficiente.

E’ necessario, pertanto, aumentare i salari, o incrementando le retribuzioni o riducendo il cuneo fiscale.

Senza l’aumento dei salari, anche in seguito all’incremento del tasso di inflazione, si determinerà ancora una riduzione del potere di acquisto dei lavoratori, impedendo così quell’aumento dei consumi,  indispensabile per intensificare la crescita economica.